«Occorre chiamare le cose col loro nome»
Signor al-Maliki, la situazione a Gaza è cupa. La gente, a quanto pare, può scegliere se morire di fame, essere ammazzata o sfollata. Cosa accadrà ancora?
Le persone non hanno molte opzioni. Come mi ha scritto una collega di Rafah, il fatto che siamo ancora vivi, non significa che non moriremo. Se non vieni ucciso oggi, potresti essere ucciso domani. A Gaza la morte sembra essere diventata la norma. E rimanere in vita può essere un supplizio.
Cosa si aspetta dalla Germania?
La Germania ha peso politico e dovrebbe fare da apripista, occorre coraggio. La mia omologa tedesca, Annalena Baerbock, è coraggiosa e decisa: ha condannato apertamente le violenze dei coloni in Cisgiordania, si è espressa chiaramente sulle richieste avanzate lo scorso gennaio dalla Corte internazionale di giustizia, sulla necessità di una tregua umanitaria e sulla soluzione dei due Stati. Mi congratulo, possiamo partire da questa base.
La Germania, ad oggi, però, non ha mai invocato l’armistizio, ma si è palesemente schierata al fianco di Israele. Per questa ragione molti palestinesi si sentono abbandonati.
Il popolo palestinese ha tutte le ragioni per sentirsi abbandonato dalla comunità internazionale. Dopotutto, l’esercito israeliano, a Gaza, a partire da ottobre, ha assassinato oltre 28mila palestinesi e oltre 60mila sono rimasti feriti, gran parte delle vittime sono donne e bambini. Anche le scelte lessicali sono molto differenti quando si tratta di condannare i gesti di Hamas o di commentare la condotta israeliana. Tutti i membri della comunità internazionale hanno il dovere morale di chiamare le cose col loro nome, in particolare gli Stati che perseguono una politica estera basata sui valori. Valori che sono messi a dura prova dall’attuale aggressione contro il popolo palestinese.
Benjamin Netanyahu ha reso noto che l’obiettivo della guerra è distruggere Hamas. Perché il premier israeliano dovrebbe fermarla prima che sia raggiunto?
Ci ha provato per quattro mesi e mezzo. Ci è riuscito? No. Voleva anche liberare gli ostaggi. Ci è riuscito? Neppure. La domanda è: ci riuscirà nei prossimi mesi? Se continua su questa strada, a Gaza presto non rimarrà una sola casa. Ma gli israeliani cominciano a rendersi conto che Netanyahu è disposto a sacrificare gli ostaggi per salvare il suo futuro politico. È la ragione per cui intende far proseguire il conflitto il più a lungo possibile e addirittura allargarlo.
Crede che Hamas non possa essere distrutto?
Sto solo dicendo che Netanyahu, dopo quattro mesi di morte e distruzione, non ha ancora raggiunto quest’obiettivo. Come ho già detto, non ha a cuore la sicurezza del suo popolo, ma il proprio futuro, motivo per cui protrarrà la guerra per quanto più tempo possibile pur di salvare la sua carriera.
L’esercito israeliano ha però appena liberato due ostaggi a Rafah. Da questo punto di vista, non è logico aspettarsi che è lì che voglia allargare la sua offensiva?
L’esercito ha liberato due ostaggi a Rafah, sì. Ma per questo era necessario che morissero più di cento persone e che ne venisse ferito il doppio? Per questo andavano distrutte cinquanta abitazioni, comprese due moschee? Perché questo è quanto è avvenuto. L’esercito israeliano ha già ucciso diversi ostaggi. E i restanti potrebbero trovarsi ovunque, presumibilmente distribuiti in vari luoghi.
Cosa sta accadendo allora, a Suo avviso?
Dal mio punto di vista, gli obiettivi di questa guerra sono molto chiari. Primo, rendere inabitale la striscia di Gaza e trasformarne almeno la parte settentrionale in una zona cuscinetto. Secondo, cacciare la popolazione da Gaza. Già nel giorno dello scoppio del conflitto Netanyahu ha consigliato a tutti gli abitanti di lasciare la striscia verso l’Egitto. Nel frattempo, la gente del nord è stata sfollata fino a Rafah. Ora resta solo da espellerli al di là del confine. Limitando le importazioni di generi alimentari, acqua, elettricità, carburante e medicinali la speranza è che abbandonino la striscia spinti dalla disperazione. Questo cosiddetto trasferimento «volontario» è l’obiettivo principale di quest’attacco.
Se le cose stanno così, come impedirlo?
I leader della comunità internazionale dovrebbero dire che quel che Netanyahu ha fatto dal primo giorno fino a oggi è un crimine e al momento equivale a un genocidio. A Netanyahu non interessa affatto la vita dei palestinesi. Non gli importa se in centinaia di migliaia vengono ammazzati o metà della popolazione viene sfollata. Anche della vita degli israeliani se ne infischia. Ma se Israele continua così, la Corte internazionale di giustizia esigerà che alcuni dei suoi vertici politici o militari siano arrestati. Accadrà, se non domani, nel prossimo futuro. In fin dei conti, questi tribunali sono stati creati proprio per questi frangenti. E, secondo la Convenzione per la prevenzione del delitto di genocidio, un Paese che vende armi a un altro Paese che le impiega per compiere un genocidio, diventa complice. Bisogna esserne consapevoli.
La denuncia per genocidio presentata dal Sudafrica contro Israele ad oggi non ha avuto effetti diretti. Israele continua ad agire a Gaza con immutata durezza, l’Occidente continua a fornire armi. Vede segni di ripensamento?
Ha visto che un tribunale olandese ha ordinato ai Paesi Bassi di sospendere la vendita di parti di ricambio per i jet F-35? E che il Nicaragua intende portare la Germania davanti alla Corte internazionale di giustizia poiché, vendendo armi a Israele, ne è diventata complice? Se questi tribunali dovessero arrivare alla conclusione che la Germania o i Paesi Bassi si sono resi complici di un genocidio, in qualche misura ciò si riverberà sulla loro posizione. Non si può scappare dalle proprie responsabilità.
La destra israeliana vuole tornare ad avere il totale controllo della striscia di Gaza e a costruire insediamenti. Come impedirlo?
Quanto il mondo ha accettato nel 1967, non lo accetterà oggi. Questo governo crede che esso solo possa, con la sua forza militare, determinare il destino del popolo palestinese. Ma la forza militare non dura in eterno. Militarmente, Israele è superiore sotto ogni aspetto. Ma dal punto di vista giuridico, la nostra situazione è messa meglio, e sono convinto che possiamo vincere percorrendo questa strada. Il 19 febbraio la Corte internazionale di giustizia tornerà a riunirsi per decidere se il controllo dei territori occupati che Israele mantiene dal 1956 sia un regime di occupazione. Per definizione, infatti, un’occupazione è provvisoria, e non permanente. O è già un regime di apartheid? La domanda è come reagiranno Israele e i suoi partner.
Il ministro della Difesa israeliano, Joaw Galant, per la striscia di Gaza immagina un modello analogo a quello della Cisgiordania: l’esercito israeliano mantiene il controllo militare e un’autorità locale si occupa dell’amministrazione pubblica. L’Autorità nazionale se ne farebbe carico?
Galant, per me, non è un punto di riferimento. Gaza è parte integrante dello Stato di Palestina. Vogliamo che a determinare il futuro della striscia sia il popolo palestinese e non le truppe di occupazione israeliane.
Israele controlla la Cisgiordania dal 1967. Può trattenere fondi, erigere checkpoint ed entrare e uscire col suo esercito. Qui, dallo scorso 7 ottobre, più di 360 persone sono state ammazzate da coloni o soldati. È anche per questo che l’autorità dell’Anp si è fortemente indebolita. Perché non rinuncia alla Sua responsabilità?
Non siamo un’autorità o singoli individui che vogliono usurpare il potere. Crediamo in libere elezioni e negli anni passati abbiamo molte volte fatto in modo che si tenessero consultazioni elettorali, ma Israele l’ha sempre impedito con la violenza. Se in tutto il Medio Oriente c’è un popolo che crede nei valori democratici, è quello palestinese. In Palestina c’è oltre una dozzina di partiti politici, la maggior parte dei quali esiste già da cinquant’anni, una tale eterogeneità politica è rara. Per molti Paesi, siamo un esempio da seguire.
Netanyahu rifiuta la soluzione dei due Stati. Sul versante israeliano, dove vede al momento un interlocutore per la pace?
In questo momento purtroppo non vedo un leader coraggioso che possa guidare Israele verso la pace. Significherebbe interrompere l’occupazione dei territori dello Stato palestinese in conformità al diritto internazionale e concludere un accordo che ponga definitivamente fine al conflitto. Speriamo che prima o poi questa persona si faccia avanti.
Hamas accetterebbe la soluzione dei due Stati?
Non parlo a nome di Hamas. Deve domandarglielo di persona. Un paio di mesi fa ha pubblicamente dichiarato che accetterebbe uno Stato palestinese compreso tra i confini del 1967. Ciò che conta è la posizione dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp), come unica e legittima rappresentante del popolo palestinese. E l’Olp continua a impegnarsi per il raggiungimento di questa soluzione. Devo ricordarle che tutti i partiti israeliani al governo rigettano la soluzione dei due Stati e gli accordi sottoscritti con l’Olp. Netanyahu ha di fatto costruito tutta la sua carriera politica sull’opposizione alla soluzione dei due Stati.
Più di mezzo milione di coloni oggi vive nella West Bank protetto dall’esercito israeliano, il loro numero è in aumento. Quant’è realistica una soluzione dei due Stati?
Da cinquant’anni puntiamo a uno Stato palestinese indipendente. Molti palestinesi hanno pagato con la vita. Siamo giunti al punto in cui il mondo è unanime rispetto alla soluzione dei due Stati. Ci è voluto tempo per raggiungere questo consenso. Non è corretto dire: «Abbandoniamo quest’obiettivo». Ciò significherebbe, infatti, privare molte delle future generazioni della possibilità di vivere in un reale contesto di pace.
Corretto no, ma realistico?
Se 193 Paesi del mondo sono a favore della soluzione dei due Stati e Israele no, non ci sono molte alternative. O questi 193 Paesi non contano. O possono indurre Israele a rispettare il diritto internazionale. In caso contrario, Israele continuerebbe a essere uno Stato che agisce al di fuori del suo quadro normativo. La soluzione dei due Stati non fa piena giustizia al popolo palestinese. È un compromesso che il popolo palestinese, rappresentato dall’Olp, ha accettato con coraggio. Compromesso che assicurerebbe la conclusione dell’occupazione israeliana e la creazione di uno Stato piccolo ma indipendente, entro i confini del 1967. E mi creda che accettare uno Stato palestinese che si estende per il 22 per cento del territorio della Palestina storica, è stato davvero un compromesso doloroso e grande per ottenere la pace che i nostri popoli meritano. Ma se Israele continuerà a rifiutare questa soluzione, si dovrà ricorrere ad altre alternative, per esempio all’originario Piano di partizione approvato dall’Onu nel 1947, che assegna al popolo palestinese il 46 per cento del territorio.
La soluzione dello Stato unico potrebbe essere un’alternativa?
Se Israele rende impraticabile la soluzione dei due Stati, lo Stato unico diventa di fatto un’alternativa. Questo dovrebbe essere uno Stato democratico in cui tutte le persone dal Mediterraneo al Giordano possono votare. Altrimenti sarebbe uno Stato repressivo nel quale un gruppo domina su un altro, come sta avvenendo nei territori palestinesi occupati, la cui realtà, a fronte dell’illegale occupazione permanente, a ragione viene diffusamente descritta come un sistema di apartheid. La comunità internazionale non tollererà il crimine di apartheid, e non lo faremo neppure noi.
Con tutto l’odio, il dolore e il fanatismo a cui assistiamo da ambo le parti, una soluzione del conflitto è molto difficile da immaginare. Da cosa trae le sue speranze?
Germania e Francia erano nemici secolari fino a quando, dopo la seconda guerra mondiale, si risolsero a coesistere. A volte occorre scendere a compromessi per il futuro e per il bene delle generazioni successive. Dobbiamo uscire dal vicolo cieco del conflitto e della vendetta. Fintantoché - tolto Israele - c’è consenso sulla soluzione dei due Stati, credo che questa sia possibile. Siamo pronti a firmare un accordo di pace che metta la parola fine alla guerra. Spero Israele se ne renda conto prima che sia troppo tardi.
Riyad al-Maliki (1955), ingegnere civile qualificato e docente universitario, dal 2007 è ministro degli Affari esteri dei territori autonomi palestinesi.
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