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Estradizione di Assange

Il dibattimento a Londra si chiude senza un verdetto

Martedì e mercoledì il caso Assange si è arricchito di due nuove udienze, quelle alla High Court di Londra. C’era da capire se il fondatore di WikiLeaks possa appellarsi alla Supreme Court della capitale inglese per fermare la sua estradizione negli Stati Uniti
29 febbraio 2024
Moritz Müller
Tradotto da Stefano Porreca per PeaceLink
Fonte: NachDenkSeiten - 22 febbraio 2024

Supporters of Julian Assange, the founder of WikiLeaks, protested outside the Royal Courts of Justice in London, where his legal team made a final bid for an appeal against a U.S. extradition order.

Benché i cancelli non vengano aperti prima delle 9, e l’udienza inizi solo alle 10.30, alle 7.30 di martedì mattina, all’esterno del tribunale, c’è già molto trambusto. Ancora una volta, la scarsità di posti di osservazione genera ressa e battibecchi davanti all’ingresso. La situazione, dalle udienze di esattamente quattro anni fa, svoltesi alla Woolwich Crown Court, non è cambiata. Già allora raccontai dell’uso del metodo «divide et impera». Ma a parte ciò, il clima è tranquillo, e raggiungo la hall principale, dalle fattezze di una cattedrale, delle Royal Courts of Justice. Riesco a procurarmi un bigliettino verde su cui è annotato a mano: «Court 5». Anche questa procedura di fortuna ha un certo che di affascinante ed è uno dei motivi, sia detto per inciso, per cui amo vivere in una nazione di tradizione anglosassone-gaelica.

Bigliettini di ammissione

Il giorno precedente chi mi ospita a Londra mi ha spiegato che non c’è una persona a presiedere tutte le Royal Courts of Justice. Questo perché il palazzo è condiviso da tre differenti sezioni dell’ordinamento giudiziario inglese e gallese. Ci sono anche tre diverse forze di sicurezza con diverse aree di competenza, di cui si servono tutte e tre le sezioni giudiziarie.

Questa suddivisione è anche il motivo ufficiale per cui l’udienza si tiene nell’aula 5, di dimensioni relativamente ridotte. A quanto sembra, è l’aula più grande di cui dispone la King’s Bench Division, la sezione cui spetta la competenza del dibattimento. Fuori dall’aula l’attesa dura un’altra ora abbondante durante la quale è possibile conversare con persone interessanti che seguono il caso. L’udienza viene trasmessa anche nell’aula 3, ma la mia esperienza mi dice che in un tribunale londinese non devo fidarmi della tecnologia, visto che, come penso, ha gli stessi artefici del succitato bigliettino d’accesso.

Poco prima delle 10.30 siamo ammessi all’aula, cerchiamo quindi un posto. Le grandi sedie rosse dei due giudici, sulla tribuna, sono ancora vuote. Sotto i seggi sono seduti tre degli affabili e cortesi cancellieri del tribunale. Di alcuni di loro, durante i due giorni, non si capisce mai che funzione abbiano. A sinistra dei giudici c’è una gigantesca gabbia per gli imputati, in ferro battuto e di fattura medievale. Secondo Craig Murray, fu solo ai tempi di Tony Blair che la aggiunsero all’arredamento in stile vittoriano. Nell’insieme, l’intera progettazione degli interni è maestosa, dall’alto soffitto a cassettoni che sovrasta le pareti rivestite in legno, e non nascoste da migliaia di volumi rilegati in pelle con i precedenti giudiziali, ai due grandi lampadari. Noi osservatori prendiamo posto su banchi che potrebbero trovarsi benissimo anche dentro una chiesa e su cui stiamo leggermente stretti.

Gli avvocati delle parti siedono davanti a noi, alle loro spalle gli assistenti e dietro ancora i clienti. A sinistra c’è la famiglia di Assange, la moglie Stella, il padre e il fratello, John e Gabriel Shipton, a destra i rappresentanti dell’apparato statale statunitense. Considerando che esistono chiari indizi che la Cia abbia pianificato di ammazzare e rapire Assange, colpisce come i due schieramenti debbano sedersi l’uno di fianco all’altro, sullo stesso banco. Fortunatamente, il legale di Assange negli Stati Uniti, Barry Pollack, siede nel mezzo a mo’ di cuscinetto.

Quando la giudice capo Victoria Sharpe e il giudice Jeremy Johnson entrano in aula, torniamo tutti ad alzarci, e a sederci dopo che i loro assistenti hanno spinto le sedie sotto il loro deretano. Qualcuno che in quest’edificio ha lavorato per molti anni, mi ha riferito che ciascuno dei 120 giudici ne ha a disposizione uno e che alcuni di loro lo considerano una sorta di maggiordomo.

Dopodiché incomincia l’udienza, e una volta rivoltoci il suo saluto, la giudice ci spiega che Julian Assange si sente poco bene, al punto da aver preferito non presenziare. Forse, invece, non voleva né starsene seduto nella raccapricciante gabbia di fianco ai giudici, né usare l’affascinante tecnologia di ripresa del tribunale. Come spesso accade in queste udienze, mi sembra molto strano che il diretto interessato non sia presente.

Sebbene parli guardando nella nostra direzione, la voce della giudice è quasi inudibile, e quella dei rappresentanti della difesa anche peggio, dal momento che si rivolgono ai giudici. Anche l’acustica dell’aula contribuisce alla confusione. Dopo qualche istante, dall’aula 3 arriva la notizia che il suono trasmesso tramite il microfono è totalmente incomprensibile. Tutto ciò è estenuante, e la mia ammirazione va ai giudici per essersi mostrati molto concentrati durante i due giorni di dibattimento.

In nome di una giustizia trasparente, occorrerebbe porvi urgentemente rimedio aggiornando la tecnologia alle ultime versioni disponibili. In estate i tribunali si fermano per mesi, si sarebbe pertanto potuto fare qualcosa se ci fosse stata la volontà. D’altra parte, non posso evitare di pensare che questi disguidi siano quasi intenzionalmente finalizzati a celare quel che si è verificato nel caso Assange. Gli osservatori che avrebbero voluto seguire il dibattimento tramite collegamento video e non vivono in Inghilterra o in Galles, ancora una volta non sono stati ammessi. Anche osservatori di lunga data del procedimento su Assange, come Mary Kostakidis e Kevin Gosztola, rientrano tra questi.

L’avvocato difensore Edward Fitzgerald KC (King’s Counsel, in it. Consiglio del re) ha aperto il suo intervento sostenendo che il giudice distrettuale nella sua sentenza ha erroneamente omesso di riconoscere che la richiesta di estradizione è basata su accuse di tipo politico. I reati politici vengono esplicitamente esclusi al paragrafo 4 del Trattato di estradizione tra Stati Uniti e Regno Unito. Sfortunatamente, il paragrafo 4 non era confluito nella corrispondente legge sull’estradizione della Gran Bretagna e, così, nella sua sentenza, la giudice distrettuale Baraitser ha aggirato la questione.

Martedì la difesa ha argomentato che un simile paragrafo, volto a proibire l’estradizione per accuse di natura politica, figura nelle leggi di altri 153 Paesi e che, pertanto, il fatto che non compaia nella legge statunitense sull’estradizione non significa che questa clausola non esisti in generale. Oltretutto, questo paragrafo è presente nell’accordo con gli Usa. È il tema su cui era incentrato anche il chiarimento richiesto mercoledì all’accusa dal giudice Johnson: «Noi estradiamo negli Stati Uniti anche per accuse di tipo politico, mentre gli Stati Uniti, a parti inverse, si richiamano al Trattato di estradizione e non estradano?» L’accusa non ha avuto nulla di rilevante da ribattere.

La difesa ha poi domandato se Julian Assange, in quanto cittadino straniero, sia tutelato dal primo emendamento della Costituzione americana, che garantisce inequivocabilmente la libertà di espressione. Dall’atto d’accusa e dai commenti si evincono elementi contrari. Nemmeno all’esplicita richiesta del giudice Johnson di addurre prove sulla parità di trattamento riservata dagli Usa ai cittadini stranieri, mercoledì l’accusa ha saputo dire qualcosa di significativo.

La difesa ha inoltre fatto presente che, divulgando i documenti su WikiLeaks, Julian Assange ha agito nell’interesse pubblico e che un procedimento giudiziario negli Stati Uniti sarebbe senza precedenti, qualcosa di mai visto prima. Il giorno seguente la replica dell’accusa è stata che anche i reati di cui Assange è accusato sono senza precedenti e che, perciò, vanno puniti con la massima severità.

Dopo Edward Fitzgerald KC, è stata la volta di Mark Summers KC, che si è soffermato sull’entità sproporzionata dell’eventuale condanna a 175 anni di reclusione, come si conviene anche agli indici di commisurazione della pena previsti per casi analoghi in Gran Bretagna.

L’ultima e, forse, la questione più rilevante sollevata nel corso delle sue argomentazioni è stata che, in nessun punto della loro richiesta di estradizione, gli Stati Uniti hanno dato inoppugnabili garanzie che negli Usa Julian Assange non rischierà la pena di morte. Quando Summers ha riassunto questa questione in una frase, il giudice Jeremy Johnson ha annuito addirittura vistosamente. Nella giornata di mercoledì, interrogati sull’argomento, nemmeno i legali che rappresentano gli Stati Uniti hanno potuto escluderlo categoricamente. Hanno solo vagamente osservato varie volte che quest’eventualità non è rilevante.

La giudice e il giudice mi sono parsi interessati, mentre coloro che li hanno preceduti nei confronti della difesa si sono mostrati indifferenti, sprezzanti e altezzosi.

In particolar modo Jeremy Johnson è sembrato aperto nei riguardi della difesa, mentre mercoledì, verso l’accusa, è apparso piuttosto scettico e spesso ha intelligentemente formulato domande molto spinose e complesse. In un’occasione, quando la rappresentante dell’accusa Clair Dobbin KC ha affermato qualcosa, è perfino sembrato alzare gli occhi al cielo e scuotere il capo. La legale stessa mercoledì ha mostrato qualche segno di nervosismo. Una volta ha rovesciato un bicchiere d’acqua addosso a Chris Hedges, seduto dirimpetto a lei, altre volte ancora ha fatto cadere per terra i suoi atti o non riusciva a trovarli. Più volte la giudice Victoria Sharp l’ha invitata a parlare con un tono di voce più alto.

Alla fine del secondo giorno di dibattimento, i giudici si sono ritirati in camera di consiglio e, quando di lì a poco sono riapparsi, hanno spiegato di aver rimandato la loro decisione. I documenti menzionati nel corso delle due udienze, che andranno inoltrati in seguito e chiariscono meglio diversi punti sollevati dalla difesa quanto dall’accusa, devono ancora essere esaminati. Il termine ultimo per  presentarli è stato fissato al 4 marzo. Il termine entro il quale sarà stabilito se il ricorso sia ammissibile, non è stato reso noto.

Il processo continuerà a trascinarsi ancora per un po’, come già succede da anni. La mia idea è che il ricorso sarà concesso, dato che nessuno dei potenziali candidati alla presidenza Usa vorrà avere Assange sul suolo americano prima delle elezioni di novembre. Assange ha nemici acerrimi ma anche forti sostenitori su ambo i fronti e sarebbe complicato accontentare tutti. Perciò, secondo la mia impressione, tanto per gli Stati Uniti quanto per la Gran Bretagna è più conveniente continuare a tenerlo arbitrariamente e indefinitamente nel suo terrificante limbo. Entrambi i Paesi possono così fare finta che i veri responsabili di questa situazione non siano loro.

Qualche volta penso che qualcuno abbia visto un diagramma come questo e abbia poi riflettuto su quale sia la strada più lunga…

Non sono certo che la relativa affabilità dei giudici nei riguardi della difesa e il loro scetticismo nei confronti dell’accusa non siano una variante dello sport britannico del debate. Le controparti si calano nei ruoli e rappresentano posizioni che non necessariamente condividono. Ciò può essere molto divertente ma anche molto fasullo. Spero di sbagliarmi e che i giudici vogliano davvero che sia fatta luce, in modo imparziale, sui punti lasciati in sospeso in un eventuale appello. Soprattutto il giudice Johnson ha mostrato disponibilità e humor.

Purtroppo, questo non cambia di una virgola la situazione di Julian Assange, che per un tempo indefinito resterà rinchiuso, giorno dopo giorno e tutto solo, nella sua cella del carcere di massima sicurezza di Belmarsh.

Corteo partito dal tribunale

Anche il corteo di mercoledì che dal tribunale ha condotto migliaia di persone alla sede del primo ministro in Downing Street ad oggi non ha avuto effetti. Il potere di chiudere e archiviare questo caso è nelle mani dei politici americani e britannici. Magari finalmente capiranno che l’opinione pubblica mondiale li sta osservando. A questo scopo, forse, aiutano le manifestazioni, le veglie di protesta e i resoconti dei media.

Tradotto da Stefano Porreca per PeaceLink. Il testo è liberamente utilizzabile a scopi non commerciali citando la fonte (PeaceLink) e l'autore della traduzione.
N.d.T.: Titolo originale: «Assange-Anhörung in London endet ohne Schiedsspruch»

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