Yeheli Cialic: “Israele, non possiamo restare a guardare. Il silenzio è complicità”
Come si vive oggi in Israele?
È spaventoso, non abbiamo nessun tipo di stabilità, molti hanno perso persone care che si trovavano nella “front-line”. E’ chiaro che il governo non si preoccupa di noi, di questo non sono affatto sorpreso, ma loro continuano ad andare avanti con questa guerra, non si preoccupano degli ostaggi, neanche quando hanno avuto la possibilità di negoziare. Hanno scelto di attaccare l’ambasciata iraniana e quindi, per quanto possibile, è importante dire che l’attacco iraniano è stato provocato.
Ovviamente io non sostengo il regime iraniano. Mi ricordo che ero seduto con gli amici quando è arrivato l’attacco iraniano e l’avviso che avremmo intercettato la maggior parte dei missili. E’ come se non potessimo decidere quello che succederà, e poi ci si ricorda che è così che si sente la gente ogni giorno a Gaza, ma non siamo sotto la stessa minaccia e l’equilibrio di potere non è per nulla simmetrico.
Cosa è cambiato dopo il 7 ottobre?
Io ero già un attivista prima del 7 ottobre. E’ come se il mondo quel giorno fosse finito, abbiamo capito subito che qualcosa si era rotto e sapevamo che nulla sarebbe stato più come prima, ed è stato spaventoso, non sapevamo davvero cosa sarebbe successo. C’è stato un enorme aumento del sentimento di destra nell’opinione pubblica israeliana. Il 7 ottobre abbiamo anche perso dei compagni.
Pensavo che cosa ne sarebbe stato di questa terra e sapevamo che alla fine chi avrebbe pagato il prezzo di questo attacco sarebbero stati i civili, che non avevano nulla a che fare con questo. Avevo paura per i miei compagni palestinesi.
Ho vissuto in Cisgiordania per quattro mesi in un villaggio palestinese per documentare le violenze e le violazioni dei diritti umani. Sapevo bene che i miei compagni di quel villaggio, che hanno già sofferto molto a causa della violenza dei coloni e dello Stato, avrebbero vissuto in una situazione ancora peggiore.
Da ragazzo mi sono trasferito con i miei genitori a Tel Aviv. Lì ho iniziato a studiare in una scuola e stavo cominciando ad ottenere ottimi risultati. Avevo ancora opinioni sioniste, ma ero un po’ più orientato verso i diritti umani. Ho iniziato a conoscere il concetto di occupazione e a formare la mia coscienza politica. A 16 anni ho fatto il mio primo test per il militare e non sapevo davvero che fosse una cosa sbagliata. Non capivo che c’era qualcosa di profondamente sbagliato nella mia società e pensavo solo a vivere tranquillo. Non riuscivo a vedere il razzismo che c’è dentro la mia società. Vedi la corruzione e la violenza, sai qualcosa, ma non hai le parole per esprimerlo. Studiavo fisica e informatica e volevo entrare nel corpo dell’intelligence per avere un buon lavoro e poi per andarmene da questo Paese. Alla fine non sono stato accettato nell’intelligence e sono entrato in un programma speciale dell’Aeronautica Militare, dove mi hanno pagato per fare un master in Ingegneria Aerospaziale e per costruire armi. Il mio sogno era costruire navicelle spaziali, non armi. Alla fine del secondo anno di università ho avuto una grande crisi, e per fortuna ho incontrato un ragazzo che mi ha aiutato a uscire dal loop di compiti e di equazioni matematiche. Ho iniziato a leggere articoli di politica e moltissimi libri di storia, ho approfondito il colonialismo, di cui sapevo qualcosa, ma fino ad allora non mi aveva mai interessato particolarmente. All’improvviso ho acquisito un mio vocabolario per comprendere la realtà, e grazie a questo mi sono reso conto che vivevo in una sorta di apatia.
Ho capito che essere un soldato significa far parte dei cervelli esecutivi di un governo che cerca di mantenere lo status quo invece di darci un’opzione per la pace e per la riconciliazione, risolvendo il conflitto. Ciò che alla fine mi ha fatto decidere di rifiutare di entrare nell’esercito è stata la lettura dell’opera di Hannah Arendt “La banalità del male”. Quel libro è stato l’inizio della fine per me. Mi sono reso conto che non potevo essere una brava persona in un sistema, non potevo, non importava se stavo solo facendo il mio piccolo percorso.
Qual è stata la reazione delle persone a te vicine dopo che hai deciso di non arruolarti nell’esercito?
Ho passato un periodo molto difficile. La vera crisi è arrivata quando ho ottenuto l’esenzione dal servizio militare per motivi di salute mentale e sono andato a Masafer Yatta, un’area nel sud della Cisgiordania che stava affrontando un periodo di enormi violenze da parte dei coloni e dello Stato. C’è una lunga tradizione di co-resistenza arabo-ebraica, che non significa solo dialogare, ma anche resistere insieme all’occupazione. Ho imparato l’arabo, ho vissuto lì quattro mesi e ho documentato le violazioni dei diritti umani con le videocamere, che a volte dovevamo consegnare all’esercito o alla stampa. Mi sono reso conto che la situazione in cui mi trovavo era davvero drammatica. Con i miei compagni palestinesi avevamo solo telecamere in mano davanti a soldati armati e insediamenti armati israeliani. Quando sono andato a Masafer Yatta la mia famiglia si è preoccupata molto. Pensavano che io fossi pazzo.
Quante volte sei stato arrestato?
15 o 16, qualcosa del genere. Quando sono tornato in Cisgiordania uno dei miei compagni che ci ha ospitato nel suo villaggio ha insistito per invitare la mia famiglia in modo che capissero quello che facevamo. Mio padre e mia madre sono venuti, e questo è stato l’inizio del loro tentativo di capirmi meglio. E’ un processo ancora in corso. Dopo la guerra mia madre è quasi completamente dalla mia parte. Ho un bellissimo ricordo dei miei genitori in questo villaggio palestinese, insieme a un compagno che ci raccontava la storia del villaggio e di mia madre che ha iniziato a piangere.
Dove trovi la forza per continuare la tua attività?
La rete Mesarvot, che coordino, è una comunità. Ci sosteniamo l’un l’altro, forniamo protezione e consulenza a chi decide di rifiutare l’arruolamento e questo aiuta tutti ad andare avanti.
Hai diversi compagni in Palestina?
Sì, sia in Cisgiordania, sia in Israele, sia nelle città palestinesi. Gaza è una scatola nera ed è molto difficile collaborare con i Gazawi anche a causa della repressione del governo di Hamas.
A volte tendiamo a immaginare la società israeliana come un blocco monolitico che sostiene le politiche espansionistiche, ma sono numerose le realtà che lottano per la pace. È difficile far sentire la vostra voce?
Nessuna società è monolitica, neppure quella israeliana e neppure quella palestinese. Per me, in quanto internazionalista, bisogna sempre considerare la parte positiva di ogni società. Quello che le persone in Israele vedono di Gaza non è uguale a quello che vede il resto del mondo, c’è un enorme squilibrio. In questo momento, a dimostrazione che la società israeliana non è monolitica, c’è un grande movimento per il rilascio degli ostaggi. Il movimento dice chiaramente che il governo sta ostacolando l’accordo, che come tutti sappiamo, comprenderebbe un cessate il fuoco. Ci sono anche organizzazioni come Combatants for Peace, composta da ex militari israeliani ed ex combattenti palestinesi, che ora lavorano insieme con iniziative nonviolente.
La gente deve capire che non esiste una vittoria. Siamo di fronte a una questione politica, e come ogni questione politica non c’è una soluzione militare. Essendo questa una questione nazionale l’unica soluzione è dare l’autodeterminazione ai palestinesi una volta terminato l’assedio.
Che orizzonte possibile vedi?
Ormai gran parte del mondo chiede il riconoscimento dello Stato palestinese. Forse, solo forse, se esercitassimo ancora più pressione potremmo essere in grado di cambiare qualcosa. Per esempio, dall’Italia proviene il 3,5% delle armi di Israele. Nel momento in cui la spedizione di armi si fermerà si fermerà anche la guerra. Nel momento in cui la guerra si fermerà potremo raggiungere un accordo per gli ostaggi e il cessate il fuoco. Nel momento in cui ciò accadrà il dilemma è chi prenderà la sovranità sul territorio palestinese. Credo che nel mondo ci sia un ampio sostegno a favore dell’Autorità Palestinese. Dovremo muoverci affinché l’OLP prenda la sovranità e ricostruisca Gaza e Gaza e la Cisgiordania siano nuovamente unite sotto lo stesso potere politico.
Dobbiamo cercare di raggiungere una soluzione diplomatica che garantisca sicurezza, uguaglianza, prosperità e autodeterminazione per tutte le persone che vivono in Palestina.
Perché chiami genocidio quello che sta succedendo a Gaza?
Molti ricercatori lo chiamano così. Io parlo di genocidio alla comunità internazionale perché la situazione è disperata e non si può restare a guardare. Il silenzio è complicità. Vorrei che le persone della sinistra internazionale e le persone nel mondo in generale non pensassero alla situazione in Palestina in termini di sostegno di una delle due parti, perché la soluzione è la liberazione, non è una bandiera su una montagna di cadaveri.
Voglio invitare le persone a capire la drammaticità della situazione, anche utilizzando il termine genocidio, ma allo stesso tempo rivendico obiettivi concreti e attuabili che migliorerebbero effettivamente la vita delle persone che vivono in Palestina. La liberazione per me è elettricità per i miei amici, è libertà di movimento, è vivere liberi da questi governi fascisti. Liberazione per me significa non dover entrare nell’esercito per avere una vita normale.
Come possiamo appoggiare Mesarvot?
Dobbiamo rompere il silenzio e condividere le nostre storie. Per questo possiamo utilizzare anche i social media. E’ importante stimolare il dibattito e parlare ovunque della situazione in Palestina..
E’ importante far sentire la voce degli israeliani contro il sionismo, per avere un quadro completo di ciò che sta realmente accadendo e ricordarsi che tutti noi siamo parte della storia, e sta a noi lottare per la pace.
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