Odessa non può nascondere le ferite della guerra, anche se la vita va avanti
È la ferita più evidente della guerra a Odessa e tra poco sarà completamente cancellata perché, come insegna la Storia del Ponte di Mostar, o la vicenda di Notre Dame di Parigi, ma anche il Campanile di Venezia, che fu abbattuto da un fulmine, noi umani siamo piuttosto bravi a ricostruire; è una sfida a cui non ci sottraiamo mai.
Purtroppo siamo molto più bravi e veloci a distruggere e se le cattedrali si possono ricostruire, lo stesso non vale per le vite spezzate; occorre molto più tempo per lenire, curare e rimarginare completamente le ferite nell’anima di chi ha perso un padre, un fratello, un marito, un amico o un compagno.
La strage voleva rendere impossibile la convivenza e provocare il terrore e la fuga dei sopravvissuti e così in gran parte è accaduto. Il rogo della Casa dei Sindacati ha funzionato, come a suo tempo le stragi pianificate a Sarajevo.
Secoli di convivenza distrutti in pochi giorni; mi chiedo quanto tempo servirà per ricostruire un tessuto umano e sociale ulteriormente lacerato dalle ferite di anni di una guerra che da “civile” è diventata parte della cosiddetta “guerra mondiale a pezzi” dello scacchiere della geopolitica internazionale.
A Odessa ci sono importantissimi musei; forse il più famoso è il Museo delle Arti Occidentali e Orientali nato nel 1923, in epoca sovietica, per dare una collocazione all’ingente e inestimabile quantitativo di opere d’arte sequestrate nelle ville della ricchissima e cosmopolita alta borghesia locale nei primissimi anni della Rivoluzione del 1917.
Il museo è aperto, anche se le finestre sono sbarrate da tavole di legno sistemate a scopo protettivo. Ovviamente le opere più pregiate (quadri di Caravaggio, Guercino e Rubens) non sono esposte, ma conservate al sicuro in qualche magazzino.
La stessa cosa mi capita nel Museo Archeologico, nato per esporre preziosi rinvenimenti dell’antica colonia greca sul Mar Nero e del Tempio di Achille, ma che ha notevolmente ridotto lo spazio espositivo. Mi fa da guida una giovane e appassionata archeologa.
Sotto al monumento dedicato a Puškin trovo un anziano che ha voglia di parlare.
“È Puskin?” chiedo per avere conferma.
“Sì, un grande poeta e romanziere, ma un russo. Dicono che la sua statua non dovrebbe stare qui.”
“È terribile la guerra” gli rispondo.
“Già, è terribile, ma lei da dove viene?”
“Dall’Italia.”
“Oh, un italiano!“ Mi sorride, mi stringe la mano e sparisce.
Su un muro sono attaccati moltissimi disegni: mi sembrano intrisi di propaganda di guerra, ma due in particolare si distinguono: uno è la rivisitazione di un quadro di Chagall, con un missile in arrivo che guasta l’atmosfera romantica, mentre nell’altro una madre cerca di proteggere il figlio dagli orrori della guerra.
Appena arrivo alla scalinata Potëmkin, mi rivedo sul cellulare la famosa scena della feroce repressione e della carrozzina in caduta libera del film del 1925 “La corazzata Potëmkin” di Sergej Mikhajlovič Ėjzenštejn. All’improvviso il silenzio viene rotto dal suono sinistro di una sirena. Nessuno in verità appare turbato a sentire questo spettrale lamento e la vita continua a scorrere; io entro in un bar affollato a prendere un caffè.
Attratto da musica tzigana la sera mi fermo a cenare con birra e kebab. La musica si alterna ed è la volta di struggenti canzoni patriottiche.
Quattro ragazzi di una ventina di anni sono seduti nel tavolo accanto al mio e bevono birra cazzeggiando tra loro. Sorridono gentili alla ragazza che prende le ordinazioni, poi due di loro si alzano per andare in bagno. Saltellano sulle grucce: il primo ha una gamba sola e al secondo manca il piede. Mi giro e vedo che anche il terzo ha una gamba sola. Il quarto è seminascosto in un angolo e distolgo subito lo sguardo poiché non vorrei essere indiscreto.
Penso ai tanti guerrafondai di casa nostra, impegnati ad alimentare la guerra, invece che a fare il possibile per fermarla: avrebbero mandato al macello i loro figli? Se sì, sarebbero dei pessimi padri, ma forse dei veri patriarchi, pronti ad immolare i propri figli al moloc della guerra.
È tempo che si fermi questa inutile e insensata carneficina e che si inizi a curare qualche ferita. Di armi ne sono arrivate di ogni tipo e fin troppe; pensiamo piuttosto a costruire la pace e iniziamo ad inviare arti artificiali di ultima generazione a chi li ha persi.
A casa sto per bere un bicchiere d’acqua; per scrupolo invio un messaggio alla ragazza che gestisce le camere. “È potabile l’acqua del rubinetto?“
La risposta arriva immediata: “No, prima devi bollirla.”
Questa è la guerra: armi super tecnologiche e poi devi far bollire l’acqua del rubinetto come secoli fa o come nei Paesi più poveri e disperati del pianeta, perché il sistema idrico non regge più. Già sei fortunato a stare qui a Odessa, perché l’acqua in bottiglia la trovi in vendita ovunque, mentre in questo stesso momento a Gaza si inizia a morire di sete, perché l’acqua potabile non c’è e l’acqua salmastra non può essere depurata dai desalinizzatori resi inservibili.
La mia camera è calda e accogliente e ora da fuori arriva solo il silenzio più assoluto.
La guerra si è fermata per la notte santa?
Forse, allora evitiamo che riparta e che la tregua di fatto diventi un Cessate il fuoco concordato, primo passo verso una pace autentica che richiederà tempo e pazienza, perché si deve costruire tra nemici che fino ad un attimo prima si sparavano addosso.
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