Verso il People’s Peace Summit di Gerusalemme, 8 e 9 maggio
50 anni quest’anno, un passato giovanile sui sentieri più impegnativi del mondo, dal Machu Pichu, ai Monti Appalachi, al Nepal, Maoz Inon era già discretamente famoso in Israele prima del 7 ottobre, come imprenditore di successo nell’ambito del turismo convenzionalmente definito ‘religioso’ e che lui aveva ribattezzato come “turismo di pace”: l’opportunità di attraversare territori da sempre contestati. Iniziata nel 2005 con una prima bellissima struttura a Nazareth, la sua offerta si era ampliata in vero e proprio network di ostelli nel nome di Abramo, che le tre religioni monoteiste hanno in comune.
Fino a quella mattina del 7 ottobre, quando l’impossibilità di raggiungere per telefono i genitori che vivevano in un Kibbutz a poca distanza dal muro di Gaza, gli aveva fatto temere il peggio – e la conferma gli arrivò poche ore dopo, con il ritrovamento dei loro corpi carbonizzati dentro la casa che i militanti di Hamas avevano colpito con un razzo la mattina.
Lungi dal cedere alla disperazione, o alla pulsione di vendetta, Maoz Inon ha fin da subito scelto il perdono, come ha raccontato in una quantità di interviste rintracciabili on line. In particolare alla BBC: quando in lacrime descrive il suo dolore non solo per la perdita di un padre e di una madre amatissimi, entrambi impegnati nella pace, ma anche per il bagno di sangue che inevitabilmente seguirà.
Ed è in quel preciso momento che Maoz promette a sé stesso, ai suoi genitori, al mondo intero, che dedicherà ogni sua energia, capacità, risorse, nella ricerca di una pace… possibile. E così sarà: insieme al palestinese Aziz Abu Sarah, anche lui imprenditore nello stesso ambito del turismo ‘di pace’, comincerà una serie di pubblici incontri, che dalle Nazioni Unite a Ginevra, alla partecipazione ai Ted Talks di Vancouver, li vedranno approdare il 18 maggio scorso alla famosa Arena di Pace di Verona, con Papa Francesco nel ruolo di testimone di quel loro abbraccio che ha commosso il mondo intero.
Meno di due mesi dopo, eccoli protagonisti, il 1° luglio scorso, di un’altra Arena di Pace a Tel Aviv, quando in migliaia, e nell’arco di un’intera giornata, hanno riempito gli spalti del Menorah Stadium con un evento dal titolo It’s time che Pressenza ha raccontato in più di un articolo.
Pensavamo si trattasse di un’iniziativa estemporanea. Capiamo ora che era solo la prima, importante tappa di un percorso che solo pochi mesi dopo (metà dicembre) si sarebbe rinnovato in una lunga marcia fino ai confini di Gaza, con il coinvolgimento delle stesse organizzazioni che già avevano contribuito al successo del Menorah-Event di Tel Aviv e che ancor più numerose si ritroveranno nel People’s Peace Summit di Gerusalemme, l’8 e 9 maggio prossimi.
Abbiamo raggiunto per telefono Maoz Inon, per capire come si è arrivati a simili risultati. E quali saranno i possibili sviluppi in futuro.
Il People Peace Summit dimostra semplicemente l’esistenza di un ampio Campo di Pace in Israele: una coalizione di ben 60 organizzazioni come Combatants for Peace, Standing Together, Women Waging Peace e molte altre, che dimostrano la diversità, la forza e la visione che tutti insieme possiamo offrire. Abbiamo pianto molto per tutte le sofferenze che si sono verificate per troppo tempo, ma non ci siamo arresi. Saremo in grado di radunare una folla enorme, di amplificare le nostre voci, di dimostrare che siamo un movimento e che esiste un’alternativa a questa guerra infinita. Abbiamo diversi dipartimenti responsabili del programma e, sebbene io sia tra i leader di questa coalizione, non so esattamente cosa accadrà in quei due giorni. Il programma è in via di definizione. Posso solo dirvi che l’intera prima giornata sarà dedicata a seminari, conferenze, musica e anche tour in diverse località della città. Volevamo davvero concepire questo incontro come l’espressione della società civile in tutte le sue manifestazioni. Mentre i nostri politici ci offrono solo guerra e vendetta, noi diciamo che un’alternativa esiste, e che siamo in grado di crearla. La situazione purtroppo sta degenerando, le circostanze non potrebbero essere più difficili, nessuno dei nostri compagni palestinesi potrà partecipare, perché l’IDF non lo permetterà… ma voi, noi, tutti insieme, abbiamo il potere di fare la pace. Questo Summit della Pace dimostrerà che un Campo di Pace esiste, anche se non siamo ancora la maggioranza. Sessanta diverse organizzazioni che si uniscono a questo progetto sono un’indiscutibile realtà.
Come siete riusciti a metterle tutte insieme, nonostante le loro differenze in termini di identità, pratiche, strategie?
Dopo aver perso i miei genitori il 7 ottobre, ho ricevuto tantissimi messaggi di condoglianze e tra questi quello di Aziz Abu Sarah, che ora considero un fratello; è stato così toccante e importante che abbiamo deciso di lavorare insieme su questo percorso di pace, di renderlo una priorità, una sorta di missione. Sono entrato a far parte di Interact, l’organizzazione che Aziz aveva fondato vent’anni fa, e insieme ci siamo chiesti se la nostra esperienza di imprenditori potesse essere utile.
E funziona? In queste circostanze di impunità e disumanizzazione, di fronte alle quali ci sentiamo impotenti, la pace può essere raggiunta seguendo una sorta di tabella di marcia?
Questo è ciò in cui crediamo: anche il conflitto più irrisolvibile può essere affrontato all’interno di un progetto basato su cinque passaggi principali. Primo: come trasformare un sogno in realtà, e non importa se sarà nel campo sociale, nella società civile o negli affari… devi avere quel sogno, che la pace prevarrà, in Italia come in Terra Santa, come in tutto il mondo. Poi dobbiamo metterci d’accordo sui nostri valori comuni: uguaglianza e dignità per tutti, fine dell’occupazione, riconoscimento reciproco, riconciliazione e guarigione, queste sono le condizioni preliminari per un quadro di sicurezza che possa durare.
Poi dobbiamo costruire una coalizione che rifletta il consenso su questi valori comuni nel concreto, perché nessuno può realizzare i propri sogni da solo. E abbiamo raggiunto questo obiettivo: questo Summit della Pace a Gerusalemme, che stiamo organizzando insieme a sessanta diverse organizzazioni, dimostra l’esistenza di un forte movimento pacifista in Palestina e Israele, che sono sicuro esiste anche in Italia e in tanti altri angoli d’Europa. L’unico problema è come renderlo visibile, più forte ed efficace, dotato di legittimità, in grado di assumere un ruolo-guida. Solo per fare un esempio: all’inizio di aprile siamo stati a Londra, dove abbiamo avuto incontri di alto livello a Westminster, e abbiamo incontrato i leader religiosi delle comunità musulmana, cristiana ed ebraica, in particolare il vescovo Anthony Poggo, del Sud Sudan, che molto presto diventerà il rappresentante della Chiesa anglicana in Vaticano.
E non potrò mai dimenticare quel momento potente all’Arena di Verona, lo scorso 18 maggio, con la benedizione di Papa Francesco: un momento, un abbraccio tra me e Aziz, che è stato trasmesso da tutti i canali del mondo! Un risultato importante di quell’incontro con il Papa dello scorso maggio l’abbiamo verificato subito dopo, al vertice del G7 in Puglia, dove l’importanza dell’attivismo per la pace da parte della società civile israelo-palestinese è stata menzionata nel documento conclusivo.
Dopo l’incontro con Papa Francesco a Verona, che è stato un evento così trasformativo per noi, abbiamo parlato con diversi leader spirituali, rabbini, imam, che ci hanno aiutato a capire che coloro che hanno la capacità di cambiare la nostra sofferente umanità, giocano nel campo dell’immaginazione, o in ciò che chiamiamo aspirazioni; il campo politico è una conseguenza.
Quel titolo brevissimo, It’s now, cosa significa esattamente?
La gente pensa che la sicurezza possa essere raggiunta solo con la forza e spendendo di più in armi. Si sbaglia. L’unica strada per la sicurezza è attraverso il dialogo, la diplomazia, l’ascolto, lo sforzo di capire l’altra parte oltre che la propria. E per questo abbiamo bisogno di un cambiamento radicale nella politica. Il mondo sta investendo più che mai in macchine di distruzione, l’unica cosa che gli “amici” di Israele ci stanno mandando sono le armi, e il risultato è la carneficina che vediamo. Se solo il 10% dell’intero budget mondiale per la sicurezza potesse essere investito nel dialogo e nella riconciliazione… Per questo, dobbiamo creare una volontà politica, dobbiamo lavorare insieme, forgiare insieme una nuova visione, sostenerci a vicenda, e non solo qui, tra Israele e Palestina, ma anche in Europa, dove la pace è stata raggiunta dopo quei terribili spargimenti di sangue che sono stati la prima e la seconda guerra mondiale. Sono perfettamente consapevole del dibattito in corso in Europa in questi giorni, degli slogan allarmanti per il riarmo… Ma vorrei farti notare che l’8 maggio, il primo giorno del nostro vertice sulla pace a Gerusalemme, segnerà quest’anno l’80° anniversario del giorno, nel 1945, in cui la seconda guerra mondiale si è conclusa in Europa.
Ecco perché abbiamo scelto It’s now come titolo per il nostro vertice a Gerusalemme. Perché il momento è ora: se vogliamo scegliere la pace, se vogliamo mantenere seriamente la promessa di impedire questa escalation verso una terza guerra mondiale, il momento è ora. E non riesco a immaginare un posto migliore di Gerusalemme per rinnovare questa promessa per l’intera umanità.
In una recente intervista ad Al Jazeera hai annunciato l’intenzione di creare un nuovo partito che potrebbe essere pronto per le prossime elezioni in Israele, in rappresentanza di questo Campo di Pace e con candidati sia israeliani che palestinesi. Puoi dirci qualcosa di più?
Abbiamo diversi progetti e questo è solo uno di essi. Alcuni progetti si concentrano sulla formazione, altri sulla riconciliazione o su soluzioni concrete, come nel caso di Land for All o The Geneve Initiative… La diversità è la nostra forza, purché condividiamo gli stessi valori. Tra questi vari progetti, alcuni membri della coalizione stanno lavorando all’idea di questo nuovo partito che vedrà la partecipazione paritaria di palestinesi e israeliani, per le prossime elezioni che probabilmente si terranno nell’ottobre 2026.
C’è già un nome per questo partito? E tutte le sessanta organizzazioni coinvolte nel Summit per la Pace condividono questo progetto?
Non tutte sono d’accordo sulla necessità di questo passo istituzionale; alcune considerano più importante il loro lavoro sul campo, ma nel complesso c’è consenso sul fatto che per essere efficaci, per puntare a un vero cambiamento, il confronto può avvenire solo a livello parlamentare. È chiaro che la maggioranza della gente vuole che questa guerra finisca. Ci è stata imposta sulla base della vendetta, della paura, dello spargimento di sangue che esige di nuovo vendetta, ma sappiamo che non è questo che la gente vuole. Speravamo che i nostri politici sarebbero stati in grado di scegliere una strada diversa, ma poiché non sta accadendo ora tocca a noi immaginare come farlo e trasformarlo in realtà.
In un mondo che quest’anno ha contato ben 56 conflitti in tutto il mondo (il numero più alto dalla seconda guerra mondiale), possiamo sperare che questo Peace Summit a Gerusalemme contribuisca al rilancio del movimento per la pace a livello internazionale?
Stiamo assistendo alla crescita delle autocrazie in tutto il mondo: Erdogan, Trump, Putin, Orban non rappresentano la maggioranza della popolazione, ma solo una parte che fa più rumore delle altre. Facciamoci sentire anche noi! Non credo che siamo una minoranza, penso che siamo un bel po’, ma molti di noi sono scoraggiati e silenziosi. Dobbiamo sostenerci a vicenda e uscire dal silenzio in cui a volte ci troviamo confinati. Dobbiamo superare le polarizzazioni che troppo spesso intrappolano le nostre migliori energie e andare avanti, agire, pensare, tutti insieme, verso l’obiettivo più importante che è fare la pace, sapendo che la pace si fa sempre con il nemico, la pace è ciò che viene dopo anni di guerra. E nel farlo non possiamo dimenticare tutte le altre crisi che ci vedono in pericolo: oltre alle guerre, soffriamo di una crisi politica, e i risultati sono sotto gli occhi di tutti; soffriamo di una crisi economica, che avvantaggia i ricchi mentre i poveri diventano sempre più poveri; e, ultima ma non meno importante, c’è la crisi ambientale, che colpisce tutti noi, abitanti di questo pianeta.
Ciò di cui abbiamo urgente bisogno è una visione olistica di tutti questi problemi e delle possibili soluzioni, e per questo abbiamo bisogno di una coalizione più ampia possibile e dotata di visione. Lo status quo mondiale sta chiaramente collassando, ciò che abbiamo provato finora non funziona più e quindi diciamolo: basta così! Dovremmo anche assumere un ruolo di leadership spirituale, ma non possiamo aspettare l’arrivo di un profeta, non abbiamo tempo per il prossimo Messia o per qualche angelo che possa salvarci. Ognuno di noi deve diventare un Messia, un profeta, un angelo annunciatore. E sono convinto che accadrà; l’unica domanda è quante vite innocenti dovranno ancora essere sacrificate. Ecco perché diciamo: It’s now, È ora. Perché coloro che ancora pensano che nessuna guerra busserà alla loro porta si sbagliano. Chiunque in Europa, o in qualsiasi altra parte del mondo, pensi che la guerra possa riguardare solo gli israeliani e i palestinesi, o coloro che vivono in Ucraina o in Congo… si sbaglia.
E’ venuto il momento di svegliarsi e di reagire: per porre fine a questo bagno di sangue e tutti insieme contribuire a una pace che possa durare.
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