Verso il People’s Peace Summit di Gerusalemme, 8 e 9 maggio. Intervista ad Aziz Abu Sarah
Aziz aveva nove anni quando suo fratello maggiore Tayseer venne arrestato dall’IDF e portato in prigione. La detenzione durò un anno, ma poche settimane dopo il suo rilascio Tayseer morì per quelle che vennero diagnosticate come “lesioni interne”, in conseguenza delle botte subite dietro le sbarre. Una ferita mai guarita, nonostante siano passati tanti anni, alcuni dei quali all’interno del Parent Circle Families Forum, l’organizzazione israelo-palestinese che dal 1995 aiuta famiglie come quella di Aziz, Maoz e tanti altri che come loro hanno perso i loro cari nel conflitto, a stemperare il trauma della perdita mediante percorsi di autocoscienza di ammirevole coraggio e valore.
Ma ecco che in un recente post su Facebook quel dolore si ripresenta con una doppia foto: quella di lui accanto al fratello Tayseer, entrambi bambini, e quella del 17enne palestinese Walid, 63imo morto in una prigione israeliana dopo i fatti del 7 ottobre. E solo poche righe di accompagnamento, “alcune notizie colpiscono in modo particolare… da quando mio fratello Tayseer è morto 34 anni fa, per le torture subite in una prigione israeliana, ogni decesso in detenzione mi colpisce nel profondo. Come nel caso di questo ragazzo, Walid, di cui abbiamo appreso la morte per le solite ragioni: tortura come da routine, zero indagini, corpi a fatica restituiti alle famiglie, crimini che si ripetono nell’impunità…”
Ed è stato proprio sulla scia di questa perdita, che Aziz ha sentito l’esigenza di scrivere quel toccante messaggio di cordoglio a Maoz Inon, subito dopo la morte di entrambi genitori nel massacro del 7 ottobre. E è così che questa bella partnership di attivismo pacifista si è messa in moto nel segno proprio della fratellanza, il più delle volte insieme di fronte a platee importanti come sono stati i vari Ted Talks o l’Arena di Pace di Verona ospiti di Papa Francesco un anno fa, all’occorrenza da soli come sarà per la trasferta a Parigi di Maoz fra qualche giorno, ma sempre uniti nell’urgenza “di promuovere qualsiasi cosa sia possibile per cambiare la situazione”, e nella più ampia alleanza possibile con tante altre organizzazioni da tempo attive sullo stesso fronte.
In comune questi due pacifisti hanno anche un background come imprenditori nell’ambito del turismo cosiddetto “di pace” che Aziz Abu Sarah ha perseguito dopo un percorso di formazione alla George Mason University’s School for Conflict Analysis and Resolution, fondando una quindicina di anni fa la Mejdi Tours, specializzata in viaggi “socialmente consapevoli” in zone caratterizzate da una “doppia narrazione” (ovvero da un ex-conflitto che poi si è risolto) e sempre accompagnati infatti da due voci/guida. E quindi non solo il Medio Oriente, ma anche la Colombia, l’Afghanistan, prossime partenze nei Balcani e poi l’Irlanda. Una passione più che un lavoro, che spesso ha visto Aziz nel ruolo anche di giornalista (per National Geografic, vari programmi radio, + 972 e altre testate) e scrittore di libri.
E insomma un profilo professional-personale davvero ricco e interessante quello di Aziz Abu Sarah. Lo abbiamo raggiunto qualche giorno fa nella sua residenza nella Carolina del Sud, che alterna alla sua prima casa in Palestina.
Quando è nata l’idea di organizzare questo Peace Summit con così tante organizzazioni coinvolte?
C’è stato un momento, dopo il 7 ottobre e quando erano ormai da tempo in corso i bombardamenti, in cui si è tenuto un raduno di coloni a Gerusalemme: avevano già cominciato a razziare il cibo e gli aiuti diretti a Gaza, ma in quell’occasione il messaggio era chiaro: “Siamo qui e abbiamo intenzione di insediarci anche a Gaza”. Fu in quell’occasione che qualcuno fra noi lanciò l’idea di fare qualcosa, proprio nei termini che poi ha suggerito il titolo di quel primo grande evento allo Stadio di Menorah a Tel Aviv, It’s time, E’ ora di… reagire, rispondere in qualche modo. Come minimo per dire che esistiamo, che non proprio tutti sono favorevoli ai bombardamenti e alle uccisioni. E’ ora di uscire dal silenzio, far capire che non è vero quel che raccontano, è ora di contarci, mostrare che non siamo pochi. Eravamo infatti tantissimi quel 1° luglio che è stata la prima tappa di questo percorso.
E però eccoci a 18 mesi dal 7 ottobre e a meno di un mese dal vostro vertice di pace a Gerusalemme, a contemplare lo sterminio ben oltre le peggiori previsioni degli inizi, dopo che Trump e Netanyahu si sono incontrati nello Studio Ovale per confermare il business as usual. Impressionante la compresenza di queste due realtà così diametralmente opposte…
È per questo che stiamo mettendocela tutta perché il Peace Summit abbia il successo che merita, se non altro di partecipazione, speriamo anche di minima visibilità, con l’aiuto anche vostro. Perché non può arrivarci alcuna accettabile prospettiva dalle leadership che abbiamo. Quindi tocca a noi attivarci e fare qualcosa per contrastare questa deriva totalmente priva di alternativa. Ecco perché è importante unirsi e ribadire ciò in cui crediamo, indicare un’ipotesi di futuro, offrirci come esempio… perché quello che ci stanno vendendo, da sempre, è che palestinesi e israeliani non potranno mai vivere insieme, lavorare insieme, co-esistere insieme, è troppo pericoloso, un’inimmaginabile follia… E noi invece continuiamo a dire: non è vero, guardateci, siamo decine di organizzazioni israelo-palestinesi, stiamo dimostrando che ci sono varie possibilità di vivere insieme, lavorare insieme, raggiungere risultati insieme e che solo su questi basi potrà esserci un futuro per entrambe le nostre comunità.
Ultimamente hai sottolineato il decrescente favore nei confronti del conflitto in entrambi i fronti, soprattutto in Israele, dove solo una minoranza ormai sostiene la guerra a Gaza. Ma anche in campo palestinese, dove di recente si sono svolte proteste nei confronti di Hamas, variamente interpretate…
Ci sono stati dei sondaggi recentemente a Gaza, che sostengono un netto calo di popolarità nei confronti di Hamas, addirittura sotto il 10 %, che sarebbe incredibile ma non sorprendente, nelle circostanze ormai disperate in cui la popolazione di Gaza si trova costretta dopo il 7 ottobre. Al di là dei sondaggi, ho spesso occasione di parlare con conoscenti che vivono lì e capisco che il malcontento è reale. Al netto dell’avversione verso l’esercito e Israele, in molti ritengano Hamas responsabile delle condizioni in cui si trovano a vivere, senza alcuna protezione, senza più cibo, né acqua, né riparo, senz’altra prospettiva che sparire dalla faccia della terra. Hanno perso tutto, hanno perso la casa, hanno perso i familiari, ogni ospedale è stato bombardato… e però sarebbe una sciocchezza sostenere che Hamas è finito. Perché è proprio in queste circostanze di disperante assedio che la sua capacità di reclutare si riafferma, come è sempre stato in passato: quando hai perso tutto, la casa, i tuoi cari, qualsiasi ipotesi di futuro, non resta che l’illusione di difendersi combattendo, almeno per alcuni.
Per questo sosteniamo che Israele non potrà mai distruggere Hamas, perché sempre più persone si uniranno alle loro brigate in una realtà così estrema e infatti secondo una recente stima il numero di militanti attivi attualmente è lo stesso di un anno e mezzo fa, nonostante le perdite. E’ tempo di pensare seriamente a un’alternativa: dobbiamo dare alla gente la certezza di una soluzione politica, soprattutto dobbiamo al più presto mettere fine all’occupazione, ridare alla gente la libertà, la capacità di autodeterminazione. Senza queste minime condizioni di coesistenza, uguaglianza, giustizia, niente potrà finire Hamas.
Ci saranno voci palestinesi che rappresenteranno questa particolare complessità nel vostro Peace Summit? So che per molti sarà difficile partecipare di persona…
Qualche palestinese ci sarà anche di persona, senz’altro anch’io, altri ci saranno in collegamento. Non abbiamo ancora deciso che tipo di messaggio condivideremo, e se entreremo nei dettagli di valutazioni politiche. Come sai sono decine le organizzazioni che hanno aderito a questa proposta di Peace Summit e ciascuna ha una propria agenda.
Posso solo dirti quello che faremo noi, Maoz ed io, con la nostra organizzazione Interact International: continueremo a lavorare nella formazione, comunicazione, pubblica mobilitazione, come stiamo facendo da sempre e in sempre più stretta collaborazione con altre organizzazioni come Standing Together, Parents Circle e Combatants for Peace. Speriamo che tutto questo riesca a concretizzarsi in una proposta politica, un’esigenza che era già maturata prima del 7 ottobre, perché come sai le proteste contro l’attuale governo erano frequentissime. Ma già essere riusciti a mettere insieme una simile coalizione di sigle ed energie significa molto.
Esiste un movimento pacifista in Palestina? In Italia si ha l’impressione che si tratti di un orientamento più che altro presente in Israele…
Intanto capiamo che la parola pace non può avere lo stesso significato per entrambi i fronti del conflitto. Quando i palestinesi parlano di pace parlano di liberazione, uguaglianza, fine dell’apartheid e dell’occupazione, come è ovvio che sia, come lo stesso Gandhi perseguiva nel progetto di liberazione dal colonialismo: il metodo era la nonviolenza, ma gli obiettivi erano ben chiari e senza ombra di compromesso.
Un’altra cosa da ricordare è la struttura di potere che si riafferma in ogni circostanza: ciò che gli israeliani possono fare e ciò che i palestinesi possono fare è molto diverso, anche in termini di pacifismo. Ricordo le prime grandi manifestazioni che i Combattenti per la Pace, di cui sono membro, organizzarono nel 2006 o 2007, a Hebron, in Cisgiordania, e poi a Gerusalemme: migliaia di palestinesi, credo fossero 3.000 persone, vennero a Hebron e nonostante fosse una manifestazione pacifica l’esercito israeliano li attaccò con i lacrimogeni. Ben diversa l’accoglienza a Tel Aviv, il che dimostra la violenza istituzionalizzata e strutturale che interferisce nella dinamica del nostro movimento e che però dall’esterno non si riesce a percepire, per non dire dei media che si limitano a registrare, ma raramente coprono le notizie che arrivano dalla Palestina con la stessa attenzione riservata agli israeliani. Questo vale per i pacifisti, come per detenuti, ostaggi, vittime di attentati; la partita è sempre in nostro sfavore. Tutto questo conferma la tendenziale disumanizzazione nei confronti della Palestina, anche quando varrebbe la pena mettere in luce aspetti o personalità positivi. Anche le proteste delle scorse settimane contro Hamas a Gaza, il modo in cui è stata trattata la notizia non aveva nulla a che fare con la pace: è stato solo un modo per affermare l’impopolarità di Hamas, creando ulteriore polarizzazione.
Leggendo le tue note biografiche ho scoperto che qualche anno fa ti sei candidato per la poltrona di sindaco di Gerusalemme… ma non è andata molto bene.
Posso dirti che è stata l’esperienza che più di ogni altra mi ha fatto capire come le istituzioni internazionali solo in apparenza ci incoraggiano a fare qualcosa, ma poi non ci sostengono. Quando mi sono candidato a sindaco di Gerusalemme ho contattato tutti i rappresentanti che sono riuscito a raggiungere a livello europeo, chiedendo di contribuire alla fattibilità della consultazioni elettorale, perché a Gerusalemme sono pochissimi quelli che vanno a votare, per una serie di ragioni Molti neppure sanno di avere il diritto di voto, e il governo non ha alcun interesse a dire loro che invece ce l’hanno. Per non dire delle difficoltà logistiche: fino a pochi anni fa per raggiungere quei pochi seggi previsti in Cisgiordania era necessario superare non so quanti check points, lungo percorsi che richiedevano due o tre autobus. Puoi immaginare chi ha voglia di sobbarcarsi questo inferno. Nelle ultime consultazioni qualcosa è cambiato, ma per tornare alla mia storia, consapevole della quantità di fondi che l’Unione Europea spende in Palestina per cosiddetti processi di democratizzazione, mi sono rivolto alle istituzioni europee non certo per avere aiuto sulla mia campagna, ma per migliorare almeno un po’ la situazione sul terreno, con campagne di sensibilizzazione, interventi di facilitazione sul piano logistico… Diversi ambasciatori sembravano interessati, ma non è successo niente. Quando hanno cercato di dar seguito alle parole con misure concrete la risposta dei loro ministeri è stata: perché cambiare… Capisci, è qui il problema: nessuno vuole cambiare lo status quo finché non si rompe. Ora che tutto è in mille pezzi, nessuno sa cosa fare. Ma quando si presenta un’opportunità nessuno la prende in considerazione, a parte rari casi. Leggiamo sui giornali circa “il bisogno di leader palestinesi all’altezza della situazione”, ma poi nessuno farà nulla per aiutare questi leader palestinesi. Tutti a chiedersi dove sia il Nelson Mandela della Palestina, e questa è la domanda più offensiva, perché ci sono molti Nelson Mandela della Palestina, ma sono tutti in galera. Questa è l’ipocrisia che spesso trovo in giro per il mondo.
E quello che stiamo cercando di fare io e Maoz nelle nostre visite ai più alti livelli che riusciamo a raggiungere in giro per il mondo, è spingere i leader europei, americani, arabi e a livello globale a mettersi come minimo in ascolto e se possibile incoraggiare queste giovani leadership, e dare legittimità, sostegno, riconoscimento a queste voci. E’ questo il compito della politica, ed era quello che avrei perseguito se fossi diventato sindaco di Gerusalemme. Mi sono ritirato quando ho visto minacciate e aggredite le persone che mi stavano sostenendo e quando ho capito che la mia stessa vita era in pericolo. Ma è stato un incidente di percorso, che non mi ha impedito di continuare a fare le cose che avevo sempre fatto prima, nella consapevolezza che un’altra via è possibile. Come spesso dice Maon, Hope is an Action, la Speranza è Azione. E dipende da ciascuno di noi, da tutti noi e da ciascuno di noi, attivarci per il cambiamento.
Per saperne di più sul Peace Summit di Gerusalemme: https://www.timeisnow.co.il/new1-2
Per ulteriori informazioni o dettagli su come sostenere l’iniziativa: info@timeisnow.co.il
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