La Croce Rossa Internazionale ha preso le distanze da quella italiana
Il commissario della Croce Rossa Italiana, Maurizio Scelli non perde occasione di attaccare i pacifisti. «Li avrei voluti vedere a Falluja e non a Piazza Venezia» ha detto in questi giorni, ma è un ritornello che sentiamo continuamente e che comincia a diventare irritante. Tre considerazioni «pro veritate».
La scelta della Croce Rossa Italiana (Cri) di andare in Iraq sotto protezione militare è una grave violazione del codice di condotta della Croce Rossa. E non è una violazione minore: se la separazione degli operatori umanitari dalle truppe armate viene meno cade anche la loro sicurezza, di tutti ed in tutto il mondo. Questo gli abbiamo contestato oltre al non essersi sottratto dal fare da foglia di fico ad un governo che, appoggiata una guerra basata sulla menzogna, ha inviato truppe sotto un pretesto umanitario. Questo comportamento, se fosse seguito dalle altre agenzie umanitarie annullerebbe la stessa esistenza di uno spazio umanitario. Per fortuna così non è: la Croce Rossa Internazionale, ad esempio, ha preso le distanze da quella italiana. Affermo ciò con il massimo apprezzamento nel contempo per medici ed infermieri della Cri che, come altri, rischiano quotidianamente. Ma il problema rimane.
In Iraq i pacifisti ci sono, attraverso le Ong, che non sono cosa diversa dal movimento per la pace. A Falluja abbiamo consegnato medicinali già l'8 aprile, ed abbiamo continuato, distribuendo 90.000 litri di acqua al giorno. Non è nostro stile farlo con le troupe al seguito. Le Ong italiane hanno realizzato interventi in Iraq nel campo sanitario, dell'acqua, dell'educazione, della sicurezza per oltre 6 milioni di euro, raggiungendo centinaia di migliaia di beneficiari in tutto il paese. In Iraq c'eravamo anche prima, quando 22 milioni di iracheni erano condannati dall'embargo. I pacifisti erano anche, come ci ricorda dolorosamente la scomparsa di Tom Benettollo, in Jugoslavia, a Sarajevo, in Kossovo, quando si mettevano le basi per la tragedia che ne è succeduta. Nell'indifferenza di tutti. I pacifisti sono in Africa, in Sud America, in Asia, dove guerre dimenticate, debito estero, «aggiustamenti strutturali», politiche commerciali condannano a morte milioni di persone. Ma trovano anche il tempo di andare in piazza.
Dov'era Scelli quando milioni di persone nel mondo si adoperavano per impedire la guerra, e non solo con manifestazioni, ad esempio quando le agenzie dell'Onu e la Croce Rossa Internazionale mettevano in guardia sulle conseguenza umanitarie dell'attacco militare? Non vorrei che Scelli scambiasse gli effetti con le cause: curare le vittime delle guerre è dovere di solidarietà, ma non basta a costruire la pace. Bisogna impedire la moltiplicazione delle vittime prodotta dalla guerra. E la guerra si evita cambiando le politiche che la generano. Questo fanno i pacifisti tutti i giorni, anche, ma non solo, nelle piazze. Ma lì Scelli non lo abbiamo visto. Forse in questo caso è «neutrale».
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