Aspetti psicologici dell'impegno nonviolento
1. Premessa
Rispetto ad altre forme di impegno culturale, politico o sociale, la scelta della nonviolenza ha, secondo la nostra interpretazione, alcune caratteristiche peculiari:
a) si fonda sulla ragione e non sull'entusiasmo: naturalmente valorizza le emozioni ma sempre ricondotte ad un impegno critico;
b) implica una limpida rigorizzazione del ragionamento e della condotta: richiede una severa coerenza intellettuale e morale, e quindi necessariamente anche una grande capacità di ascolto ed una incondizionata disponibilità ad apprendere;
c) non offre garanzie né consolazioni: né certezze di vittoria o di salvezza, né autorità ed automatismi che fungano da cinture di sicurezza; tuttavia, facendo appello a un forte sentimento di integrità personale intimamente connesso al più vasto slancio di solidarietà e di riconoscimento della comune umanità, consente di gestire le ansie e relativizzare gli scacchi in una più profonda ed insieme più ampia prospettiva di impegno orientato al bene comune ed all'affermazione della propria dignità (bene comune e dignità personale intesi come un inscindibile insieme);
d) propone un impegno di lotta che non terminerà che con la morte: ma questa lotta (contro l'ingiustizia, contro la violenza, contro la menzogna; e quindi: contro la sofferenza, contro il male, contro la morte stessa) è ineludibile, ed è coessenziale alla nostra vita di senzienti e pensanti;
e) impone quindi una dialettica tra coscienza e mondo esterno (naturale e culturale) particolarmente impegnativa: ad ogni passo chiede di assumere responsabilità, di giudicare, e quindi di agire; ad ogni passo ci impone un difficile confronto tra libertà e regole, tra creatività e necessità, tra dovere morale e condizioni (e codificazioni) date.
In breve, la scelta della nonviolenza richiede studio, preparazione, addestramento, disponibilità a soffrire, saldezza nel perseverare in ciò che è giusto ad una analisi onesta, e saldezza nel perseverare in una condotta costantemente benevola, leale e responsabile anche di fronte a condotte scorrette, inique e violente da parte di altri. Infine richiede altresì una ridiscussione costante della propria condotta ed una continua reinterpretazione e reinvenzione di regole, orizzonti, abitudini, percorsi di ricerca; rileggendo incessantemente la propria esperienza così come faceva Gandhi che non casualmente intitolò la sua autobiografia “storia dei miei esperimenti con la verità”.
2. Una sintetica definizione preliminare
2.1. Per nonviolenza intenderemo qui un insieme di valori morali, di tecniche di lotta e di proposte politiche organizzate in una coerente, seppur aperta e sperimentale, teoria-prassi.
2.2. Definiamo tale teoria-prassi col termine di nonviolenza, ed usiamo tale grafia per distinguerla dalla mera assenza di violenza (la quale assenza di violenza è peraltro concettualmente una nozione assai ambigua e sfuggente, e praticamente una condotta semplicemente impossibile) ed indicarne invece la natura positiva e l'impegno attivo; col quale termine di nonviolenza traduciamo due distinti termini gandhiani: ahimsa (che potremmo tradurre liberamente come ripudio della violenza, opposizione alla violenza; che designa la nonviolenza dal punto di vista concettuale, come valore morale e come oggetto logico-ontologico); e satyagraha (che potremmo tradurre liberamente come forza della verità o anche adesione alla verità; che designa la nonviolenza dal punto di vista operativo e metodologico, come campo di condotte empiriche, di tecniche pratiche, di orientamenti strategici; ma anche come inveramento effettuale di una scelta morale che per esser tale non può restare inoperante nel mero ambito teoretico ma richiede di essere realizzata ed autenticata in un impegno personale immediato, politicamente ed esistenzialmente qualificato).
2.3. La nonviolenza così definita si fonda su un ragionamento, una scelta e una condotta improntati a responsabilità, verità, amore, apertura all'umanità.
2.4. La nonviolenza così definita si caratterizza per alcuni precisi princìpi: rifiuto di uccidere e di provocare lesioni fisiche; rifiuto della menzogna; rifiuto di commettere ingiustizia, di subire ingiustizia, di collaborare con l'ingiustizia; coerenza tra mezzi e fini; esemplarità della condotta e coscienza del costante riflesso educativo dei nostri atti; compiere solo quelle azioni su cui si possa fondare la civile convivenza.
2.5. La nonviolenza così definita si realizza nel conflitto (e non nella quiete); nella comunicazione (e non nella solitudine); nella trasformazione (né nella conservazione, né nella distruzione); i tre termini indicati: conflitto, comunicazione, trasformazione, costituiscono per la nonviolenza una necessaria unità.
3. Scelte morali e coesione psicologica
Poiché la nonviolenza è eminentemente opposizione all'ingiustizia, chi la sceglie sa di impegnarsi in una lotta consapevole e quindi intransigente, meditata e quindi assai impegnativa sotto molti profili.
Occorre dunque che chi abbraccia l'impegno nonviolento sia cosciente che ciò implica che dovrà sostenere il peso psicologico di una scelta di lotta che può esporre a molti rischi, a condizioni di solitudine e di incomprensione; che impone la rinuncia a vari privilegi, e implica la possibilità di trovarsi in condizioni di difficoltà.
Occorre quindi avere la capacità di una adeguata elaborazione dei sentimenti a queste situazioni esistenziali e sociali connessi; la capacità di una adeguata gestione dell”ansia; la capacità di efficacemente esercitare il controllo e l'incanalamento costruttivo dell'aggressività; un atteggiamento non represso e non repressivo.
E' ragionevole che prima ancora di impegnarsi nella lotta nonviolenta si sia riflettuto su tutto ciò e si sia realisticamente valutata la propria disponibilità e capacità a tutto ciò.
4. La nonviolenza in quanto comunicazione
La nonviolenza è eminentemente comunicazione; questo implica:
a) il riconoscimento dell'altro, il puntare sulla sua umanità;
b) interpretare la lotta come disvelamento, cooperazione, atto di amore al bene e all'umanità;
c) antiautoritarismo ed antidogmatismo, ovvero atteggiamento critico ed autocritico, contestazione radicale del “principio d'autorità” (anche verso se stessi).
5. La scelta nonviolenta nel vivo del conflitto
La nonviolenza si realizza esclusivamente nel conflitto, essa valorizza il conflitto e dove occorre lo suscita. La nonviolenza non è passività, fuga, quieto vivere; essa è azione, impegno, responsabilità di fronte alle sfide e agli appelli che la realtà pone. L'amico della nonviolenza porta nel conflitto convincimenti profondi, obiettivi ponderati, capacità operative concrete. Questo implica:
a) vivere positivamente la scelta del conflitto;
b) la consapevolezza che l'azione nonviolenta è sempre anche educazione (ed autoeducazione),
c) la capacità di ridefinire i problemi;
d) la capacità di far evolvere le situazioni e i conflitti;
e) la capacità di ascolto e cooperazione anche con l'avversario rispetto a fini sovraordinati che entrambe le parti condividono o apprezzano;
f) la capacità di contestualizzazione di princìpi, analisi, scelte.
Con particolar riferimento a se stessi, tutto questo implica inoltre:
g) rifiuto della subalternità e del vittimismo;
h) essere consapevoli della propria forza che è inerente alla propria integrità (ovvero alla propria onestà intellettuale e morale);
i) capacità di mantenere costantemente l'iniziativa.
Con particolar riferimento alla controparte tutto quanto precede implica altresì:
l) non minacciarne l'annientamento in quanto essere umano;
m) offrirgli sempre una soluzione onorevole del conflitto.
Con particolar riferimento al rapporto tra antagonisti nel conflitto:
n) percepirlo e presentarlo anche come occasione di incontro;
o) costantemente mirare ad umanizzare la relazione attraverso un forte impegno comunicativo e propositivo;
p) percepire e presentare il rapporto non in termini di esclusione e di annullamento dell'altro, ma di compresenza e di impegno comunque comune, evidenziando che un conflitto è sempre anche un atto cooperativo, e che le sue dinamiche sono congiuntamente costruite dalle parti;
q) puntare con la propria azione alla più ampia corresponsabilizzazione possibile;
r) saper sempre distinguere l'oggetto contro cui si combatte dalla persona o le persone con cui si combatte, e prefiggersi costantemente un rapporto costruttivo con la parte avversa, riconoscendone le ragioni, offrendo proposte di onesto e valido compromesso, non schiacciandola mai in situazioni insostenibili e senza alternative;
s) mirare costantemente a ridurre la violenza, a ricercare terreni di intesa, a costruire rapporti di fiducia.
6. Valori e comportamenti nonviolenti
a) La noncollaborazione con l'ingiustizia: che della proposta nonviolenta è la chiave di volta, infatti l'idea centrale della nonviolenza come forma di lotta contro l'ingiustizia è che il potere ingiusto per realizzare il suo dominio ha bisogno della complicità o almeno della passività delle sue vittime; il primo passo della presa di coscienza e della lotta nonviolenta è appunto la rottura della complicità, la cessazione della passività dinanzi all'ingiustizia.
b) La nonuccisione e il rifiuto di provocare lesioni fisiche agli avversari: tale scelta ha spesso anche l'effetto di ridurre la violenza del'avversario, e comunque costituisce già essa sola una rilevante umanizzazione del conflitto e riduce consistentemente la violenza complessiva indicando concretamente altresì una diversa e più civile gestione del conflitto.
c) La nonmenzogna: essa è ugualmente fondamentale, ed implica altresì il rifiuto del segreto, della sorpresa, del sotterfugio; è eminentemente democratica, rinforza la nostra autorevolezza morale, favorisce la costruzione della fiducia (e incidentamente ci mette al riparo dai provocatori).
d) La coerenza tra mezzi e fini: ribaltando la massima secondo cui il fine giustifica i mezzi, la nonviolenza afferma che i mezzi violenti corrompono anche i fini migliori; è di grande efficacia la similitudine gandhiana per cui tra mezzi e fini intercorre lo stesso rapporto che tra il seme e la pianta.
e) Il principio responsabilità: ognuno deve sentirsi responsabile di tutto; ognuno deve avere a cuore le sorti di tutti; ognuno deve sentire la solidarietà con l'umanità intera; ognuno deve agire in modo che la sua condotta e la logica che la ispira possa essere ripetuta e riutilizzata in ogni circostanza analoga ed essere sempre moralmente valida (e possa quindi, per così dire, essere istitutiva di una legislazione universale, echeggiando la formula kantiana).
f) Ogni azione è anche educazione: quindi ogni azione deve essere motivata, comprensibile, coerente con il fine del riconoscimento e della promozione della dignità umana.
7. Dialettiche della nonviolenza
La nonviolenza come tanta parte della cultura contemporanea richiede la capacità di fronteggiare situazioni caratterizzate da indeterminazione, contraddizione, complessità; richiede quindi un atteggiamento critico e creativo.
In particolare a noi sembra che l'adesione alla nonviolenza implichi altresì la capacità di sostenere psicologicamente una scelta che ha caratteristiche esistenziali fondamentalmente connotate da duplicità e dinamismo, e richiede pertanto un notevole “spirito di finezza”, ovvero una duttilità ed un'attenzione, un atteggiamento di apertura e di interpretazione, che è del tutto incompatibile con atteggiamenti rozzi ed autoritari, prepotenti o servili, predicatòri e dogmatici. La nonviolenza è rivoluzione aperta, e richiede una personalità ironica e paziente, serena e tenace, combattiva ed antiautoritaria. Indichiamo qui di seguito alcuni profili psicologici implicati dalla scelta dell'impegno nonviolento:
a) rinnovamento, ma anche ritrovamento;
b) rottura, ma anche fedeltà;
c) apertura, ma anche approfondimento;
d) ricerca, ma anche saldezza;
e) responsabilità come impegno personale nella dimensione collettiva;
f) dialettica tra coscienza (come autonomia morale e responsabilità personale) e legge (come regole sociali);
g) essere ad un tempo dei persuasi (è la bella formula di Aldo Capitini) ed insieme dei perplessi (è la non meno bella formula di Norberto Bobbio).
8. Un problema persistente: la violenza
Ovviamente la nonviolenza si contrappone alla violenza, ribadirlo è fin tautologico.
Ma questo non risolve tutti i problemi, poiché la violenza è comunque una realtà, ed il lottare contro di essa implica evidentemente un certo grado di esercizio della forza, che intende certo essere anche persuasiva, ma che nondimeno è altresì coercitiva. Inoltre non è banale porre il problema che se il fine della nonviolenza è quello di contrastare la violenza, ovvero di ridurla per quanto possibile, ciò implica necessariamente non una sorta di astensione assoluta dall'azione, ma agire nel modo più radicalmente contrario alla violenza, ovvero nel modo più efficace e coerente possibile.
Qui si aprono numerosi problemi degni di discussione, su cui ha spesso particolarmente insistito nelle sue fini e rigorose analisi Giuliano Pontara, ma che nessuno dei grandi protagonisti delle lotte nonviolente ha mai eluso, da Gandhi a Lanza del Vasto, da Aldo Capitini a Martin Luther King, da Danilo Dolci a Lorenzo Milani, a molti altri. Le impostazioni sono state molto varie, e le risposte anche. A titolo d'esempio e per un primo accostamento rinviamo a Gandhi, Teoria e pratica della nonviolenza, Einaudi, Torino; e ad AA. VV., Violenza o nonviolenza, Linea d'ombra, Milano.
9. Un'ipotesi etico-politica
9.1. Il nostro approccio alla nonviolenza non è di tipo essenzialista, o metafisico; non implica un fondamento religioso o ontologico. Il nostro, quello che qui proponiamo, è un approccio meramente razionale. Naturalmente altri studiosi e soprattutto molti attivisti della nonviolenza, hanno approcci diversi, in cui il riferimento religioso o metafisico è assolutamente determinante. Il nostro apporccio è più modesto e limitato; tuttavia proprio per questo esso presenta forse il vantaggio di essere più agevolmente discutibile -ed eventualmente accoglibile- in quanto non presuppone l'accettazione di questioni di principio talmente cruciali, peculiari e impegnative per cui diviene impossibile addivenire ad un accordo se si muove da diverse posizioni filosofiche, religiose, politiche, esistenziali. Abbiamo la presunzione di ritenere che l'approccio da noi proposto consente di discutere la nonviolenza a partire da posizioni anche molto diverse e -ciò che più conta- mantenendole (ovviamente, con la nonviolenza arricchendole ed eventualmente approfondendole qualora essa venisse accolta ed integrata nel proprio sistema di idee generali); abbiamo la speranza che l'approccio da noi proposto sia compatibile con diverse posizioni religiose (ateismo compreso), con diverse posizioni politiche (nell'ampio campo che va dal liberalismo al comunismo, dalle varie proposte democratiche, personaliste, socialiste, fino all'anarchia), con diverse posizioni filosofiche e morali (gli studi di Giuliano Pontara, in particolare, hanno apportato decisivi contributi in questo ambito).
9.2. Detto questo, vorremmo tuttavia aggiungere due specificazioni ulteriori che in qualche misura contribuiscono a fondare il nostro approccio, che proponiamo come ipotesi di lavoro ma alle quali almeno noi siamo molto legati, e che sono le seguenti:
a) un'etica della felicità sobria;
b) un fondamento gnoseologico fallibilista.
9.2.1. La prima, un'etica della felicità sobria: è resa particolarmente necessaria dalla consapevolezza ecologica; dall‘esigenza di una giusta ripartizione delle risorse e dalla cognizione della loro scarsità ed esauribilità; dall'impegno al riconoscimento ed alla promozione dei diritti umani per tutti gli esseri umani. La scelta della nonviolenza non è una scelta masochista, ma di liberazione; la sua prospettiva è la felicità umana per quanto essa sia realizzabile nel quadro di una condizione biologica caduca e peritura. La felicità possibile e generalizzabile è una felicità sobria, e quindi saggia, rispettosa degli altri e della biosfera, conviviale, accogliente, sollecita, sensibile.
9.2.2. Il secondo, un fondamento gnoseologico fallibilista: che è indispensabile cuore della democrazia: la coscienza della nostra fallibilità è l'assioma su cui fondiamo il nostro atteggiamento razionale e ragonevole tanto in ambito teoretico quanto in ambito pratico, nella logica, nella morale, nella politica; senza questa consapevolezza non si dà democrazia, non si danno piene libertà, non si danno uguaglianza e diversità. La pretesa di infallibilità è sempre antiscientifica, immorale, antidemocratica, totalitaria; coercitiva e coatta sul piano della psicologia come su quello del diritto, sul piano sociale come su quello esistenziale; essa lede radicalmente lo sviluppo della cultura e la civile convivenza, e denega la dignità personale. Poiché nelle aree culturali di prevalente riferimento per le persone maggiormente impegnate per la pace e la liberazione frequentissimamente dominano visioni del mondo chiuse, rigide, con pretese onniresponsive, ci permettiamo di insistere energicamente su questo punto: il nesso tra libertà e fallibilità, la necessità di un approccio fallibilista (non ci dilunghiamo oltre rinviando piuttosto al brillante agile libro di Dario Antiseri, Liberi perché fallibili che segnaliamo in bibliografia).
10. Per l'approfondimento, una bibliografia essenziale
10.1. Per un percorso minimo
- Giuliano Pontara, La personalità nonviolenta, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1996 (particolarmente il capitolo secondo);
- Dario Antiseri, Liberi perché fallibili, Rubbettino, Soveria Mannelli 1995;
- Alberto L'Abate (a cura di), Addestramento alla nonviolenza, Satyagraha, Torino 1985.
10.2. Per un approfondimento più rigoroso
- Gene Sharp, Politica dell'azione nonviolenta, tre volumi, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1985-1997;
- Immanuel Kant, Critica della ragion pratica, disponibile in varie edizioni;
- Paul Watzlawick, Janet Helmick Beavin, Don D. Jackson, Pragmatica della comunicazione umana, Astrolabio-Ubaldini, Roma 1971;
- Theodor W. Adorno, Minima moralia, Einaudi, Torino;
- Giovanni Jervis, Manuale critico di psichiatria, Feltrinelli, Milano, più volte ristampato;
- Günther Anders, Tesi sull'età atomica, Centro di ricerca per la pace, Viterbo 1991;
- Hans Jonas, Il principio responsabilità, Einaudi, Torino 1993;
- Franco Fortini, Una voce: comunismo, Centro di ricerca per la pace, Viterbo 1990;
- Primo Levi, I sommersi e i salvati, Einaudi, Torino, più volte ristampato.
11. Appendice prima.
Una caratterizzazione della personalità nonviolenta (da Giuliano Pontara)
Nel secondo capitolo che ha lo stesso titolo dell'intero volume La personalità nonviolenta, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1996, Giuliano Pontara evidenzia dieci qualità di quella che definisce la “personalità nonviolenta” (contrapposta alla “personalità autoritaria”), qualità che così elenca e descrive: 1. Il ripudio della violenza (su cui svolge un'analisi molto fine ed articolata che qui non possiamo adeguatamente riassumere ma alla quale rinviamo anche perché è assai caratteristica del modo di argomentare dell'autore); 2. La capacità di identificare la violenza (ovvero di riconoscerla anche laddove si presenti mascherata o cronicizzata; “la capacità di individuare la violenza a tutti i livelli, da quello personale a quello istituzionale, da quello individuale a quello strutturale, da quello internazionale a quello intergenerazionale. Altrettanto importante è la capacità di individuarla in tutte le forme che essa può assumere, e non soltanto in quelle più appariscenti della violenza armata”); 3. La capacità di empatia (ovvero di identificazione con gli altri e in primo luogo con quelli che soffrono di più); 4. Il rifiuto dell'autorità (“una persona nonviolenta ritiene che la responsabilità per quello che fa non può essere addossata ad altri… fa dunque propria la massima di don Milani: l'obbedienza, in quanto tale, non è una virtù”); 5. La fiducia negli altri (che si contrappone alla logica militare: “Uno dei principi fondamentali della nonviolenza prescrive di impostare la conduzione di un conflitto in modo tale da fare appello ai lati migliori di coloro che ci si trova di fronte come oppositori, usando tecniche di lotta volte ad ingenerare in un numero sempre maggiore degli individui che costituiscono il gruppo oppositore una crescente fiducia nei confronti del gruppo nonviolento. Si tratta di un continuo tentativo di sostituire la spirale della sfiducia, propria della logica della violenza, con la spirale della fiducia); 6. La capacità di dialogare, ovvero la disposizione al dialogo (qui Pontara svolge una efficace perorazione in favore del principio fallibilista, di cui riportiamo ampi stralci: “Un assunto che soggiace alla disposizione al dialogo è l'accettazione del principio del fallibilismo. Questo principio ci dice che siamo tutti esseri mortali con poteri di conoscenza limitati onde nessuno può mai dirsi sicuro che quello che in un certo momento crede essere vero, in effetti sia tale: può benissimo darsi che sia falso. Il fallibilismo vale in primo luogo nel campo della scienza. Ma vale ugualmente nel campo delle credenze etiche. I nostri giudizi morali possono infatti essere distorti dai nostri piccoli interessi egoistici, o fondati su ipotesi empiriche false o su informazioni incomplete. Possono anche essere fondati su assunti di valore che non abbiamo visitato criticamente o tali per cui se esaminati criticamente saremmo stati disposti ad abbandonare. (…) Il fallibilismo in etica è profondamente compatibile con l'avere delle profonde convinzioni morali (…). Un individuo fornito di una personalità nonviolenta… non vorrà escludere a priori la possibilità di aver lui torto e l'avversario ragione. Per questo egli rifiuta metodi di conduzione dei conflitti che comportano la distruzione dell'avversario (…). Il fallibilismo abbraccia anche le credenze religiose ed essere fallibilista in religione è pur sempre compatibile con l'avere una profonda fede religiosa (…). L'interiorizzazione del principio del fallibilismo è dunque uno dei migliori vaccini contro tutte le forme di fanatismo…; è altresì fondamentale per il buon funzionamento delle istituzioni democratiche e costituisce un grande incentivo alla tolleranza (…). Il fallibilismo vale nei confronti di tutti i giudizi, anche quelli in cui si articola il fallibilismo stesso: non possiamo escludere che la credenza stessa per cui siamo tutti fallibili in effetti sia falsa. Ben poco però induce a credere che tale essa sia. Il contrario del fallibilismo è il dogmatismo”); 7. La mitezza (che ovviamente si armonizzi con le altre qualità indicate); 8. Il coraggio; 9. L'abnegazione; 10. La pazienza.
12. Appendice seconda.
Alcuni schemi da Pat Patfoort
Pat Patfoort, biologa e antropologa, nel suo libro Costruire la nonviolenza, La Meridiana, Molfetta 1992, offre alcuni schemi che di seguito riportiamo con qualche minima abbreviazione, semplificazione e modifica (ovviamente senza entrare qui in una discussione di merito).
12.1. Scheda su atteggiamenti assunti nel conflitti: atteggiamento consueto o primitivo, ovvero violento (A); atteggiamento degno dell'uomo ovvero nonviolento (B):
I. A: reazione viscerale, impulsiva, inconscia, spesso più diretta; B: reazione di tutto l'essere umano, viscere, ma anche intelligenza, cuore, coscienza che mirano a controllare le emozioni. Spesso più indiretta (lungo termine).
II. A: superficiale; B: profondo.
III. A: dà importanza ai valori esteriori; B: dà importanza ai valori interiori.
IV. A: sfiducia o fiducia cieca; B: fiducia, comprensione, rispetto dell'altro, capacità di perdonare, amore verso il prossimo.
V. A: diretto all'interesse individuale, interesse personale; B: diretto all'interesse comune delle parti, solidarietà.
VI. A: norme; B: coscienza, senso critico, consapevolezza, senso di responsabilità, creatività.
VII. A: ricette; B: soluzioni ad hoc.
VIII. A: centralizzazione; B: decentralizzazione.
IX. A. il conflitto è un processo negativo (crea tensioni e stress, distruttivo per il rapporto, il risultato è la cosa principale, si cerca la parte colpevole, si rimane impantanati nel passato); B: il conflitto è un processo positivo (metodo vissuto positivamente, costruttivo per il rapporto, il processo è importante quanto il risultato, cercare di capire ciò che è successo, guardare al futuro).
X. A: il tempo necessario prima sembra insufficiente, dopo sembra eccessivo, si è inconsapevolmente dominati dal tempo; B: il tempo necessario è affrontato con pazienza, vi è un controllo consapevole del tempo.
XI. A: abuso di potere, forme negative di potere; B: uso del potere, forme positive di potere.
XII. A: forme esteriori di forza, mancanza di fiducia in se stessi; B: forza interiore, fiducia in se stessi, umiltà.
XIII. A: mancanza di comunicazione o comunicazione poco chiara, pregiudizi; B: comunicazione chiara.
XIV. A: critica negativa, distruttiva; B: affermazione positiva più comunicazione concernente le difficoltà del rapporto (critica costruttiva).
XV. A: migliore/peggiore; B: differente.
12.2. Scheda su alcuni concetti aventi contenuti differenti nelle relazioni umane consuete (A), e nelle relazioni umane ispirate alla nonviolenza (B):
- autocontrollo: A. soppressione delle emozioni; B. espressione razionale delle emozioni in modo diverso;
- autorità: A. prendere, domandare; B. ricevere;
- comprensione: A. accordo; B. accettazione, consapevolezza;
- concessione: A. ci si avverte come perdenti, la parte incolpata; B. accettazione;
- pazienza: A. passiva, di attesa; B. attiva, costruttiva;
- potere: A. dall'esterno; B. dall'interno;
- spontaneità: A. immediata e frutto di reazione emozionale; B. comunicazione aperta, non corrotta;
- verità: A. fede cieca; B. fede consapevole, cosciente.
13. Appendice terza ed ultima.
Alcuni stralci dall'introduzione di Liberi perché fallibili di Dario Antiseri
Riportiamo qui qualche brano dall'introduzione (pp. 9-10) del libro di Dario Antiseri, Liberi perché fallibili, Rubbettino, Soveria Mannelli 1995. Ma consigliamo vivamente di leggere tutto il libro (peraltro breve e brillante). Segnaliamo anche un libretto di estratti popperiani curato sempre da Antiseri: Karl R. Popper, Come controllare chi comanda, Ideazione, Roma 1996; e l'assai utile più ampia antologia sempre per le cure di Antiseri, Karl R. Popper, Logica della ricerca e società aperta, La Scuola, Brescia 1989.
“C'è un'infinità di cose che noi non conosciamo; quello che conosciamo lo conosciamo tramite teorie scientifiche smentibili e attraverso teorie filosofiche criticabili (…). I nostri progetti nascono e crescono nell'incertezza, e -a motivo delle inevitabili conseguenze inintenzionali delle azioni umane intenzionali- possono addirittura risolversi in esiti contrari alle intenzioni di chi ha progettato.
(…) Ora, però, siccome vivere è risolvere problemi, diventa chiaro che, se noi vogliamo risolvere i problemi, è necessario che gli altri siano liberi di proporre le loro alternative, liberi di avanzare le loro critiche, liberi di portare l'attenzione sugli esiti inattesi anche dei migliori progetti e di costruire progetti alternativi; se vogliamo che i problemi vengano risolti è necessario che gli altri -tutti gli altri- siano liberi di porre in azione le loro conoscenze…
(…) Il politeismo delle visioni del mondo e dei valori sta a base della società aperta.
Siamo, dunque, liberi. Condannati ad essere liberi perché ontologicamente ignoranti.
La negazione della libertà, per altro verso, ha sempre un fondamento gnoseologico: la presunzione fatale di sapere, magari in modo assoluto e certo, quale sia il vero Dio; di conoscere i fondamenti incontrovertibili dei valori ultimi; di possedere il criterio per stabilire quale sia la società perfetta; di conoscere le leggi ineluttabili della storia umana nella sua totalità; di sapere quali siano i bisogni essenziali degli altri, la loro felicità.
La presunzione della nostra ragione è la via della schiavitù. La consapevolezza della nostra ignoranza è la base della nostra libertà. E liberi sono solo gli individui, giacché nel mondo ci sono solo individui: solo l'individuo pensa, solo l'individuo ragiona, solo l'individuo agisce. E le nostre azioni hanno effetti intenzionali ed esiti inintenzionali. Non ci è possibile nascondere le nostre paure, le nostre esitazioni e le nostre vigliaccherie più o meno grandi sotto la maschera di «azioni» di enti collettivi come la classe, la nazione e il partito. Ad agire sono soltanto gli individui. Responsabili siamo, dunque, solo noi”.
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