Usa: come cambia il movimento pacifista
Come già ai tempi della guerra del Vietnam, anche in occasione dei bombardamenti sull’Afghanistan, i vertici dei sindacati americani hanno espresso il loro pieno appoggio all’appello bellicista della Casa Bianca. Con l’Iraq, invece, hanno capito che era meglio prenderne le distanze. Si riannodava così quel malsano cordone ombelicale che negli ultimi cinquant’anni della storia statunitense ha legato quasi indissolubilmente le fortune dell’establishment sindacale a quello dei governanti di turno. Ma in quegli stessi anni, come del resto oggi, esisteva anche un movimento operaio parallelo a quello istituzionale, formato dalle sue sezioni periferiche e di base, e quindi più vicino alle preoccupazioni e ai bisogni dei propri iscritti.
I LAVORATORI
Fu proprio alle metà degli anni ‘60 che un gruppo di questi militanti, riunitosi a Detroit, diede vita al movimento “Sindacati per la pace”, perché, come veniva ricordato, “la guerra significa che i lavoratori devono non solo dare il maggior contributo in vite umane, ma anche sopportare in misura rilevante il suo onere finanziario”. Quasi quarant’anni dopo, la situazione si è ripresentata negli stessi termini. La propaganda del governo ha nei fatti oscurato i problemi che interessano le classi socialmente più deboli, maggiormente esposte ai venti gelidi delle politiche economiche dei newcons (neo conservatori). Lo stesso New York Times, già al tempo della crisi afghana, aveva denunciato che “con l’aumento della disoccupazione e i costi sempre più elevati delle case, le città sono state invase da una nuova improvvisa ondata di senzatetto. I ricoveri sono presi d’assalto, un sempre maggior numero di persone dorme per terra nei precari centri adibiti ai servizi sociali, vive in macchina o passa la notte per strada”. Ecco i “danni collaterali” della guerra, le sue incontestabili ricadute interne. Questo perché i fondi delle spese militari vengono prelevati dai programmi per la salute mentale, per l’educazione, per la sanità, da quelli per l’assistenza agli anziani, o per l’edilizia pubblica. E intanto l’IBM, la General Motors e la Ford possono beneficiare di 70 miliardi di dollari di sgravi fiscali. Non c’è quindi da meravigliarsi, allora, se alla vigilia della manifestazione mondiale per la pace del 15 febbraio 2003, oltre 100 sindacalisti in rappresentanza di 76 strutture di base, regionali e nazionali, riuniti a Chicago, a nome di circa due milioni di iscritti abbiano deciso di costituire l’Us labor against the war (Uslaw) per mostrare la netta opposizione della worker class alla guerra in corso.
GLI STUDENTI
La popolazione studentesca, ed in particolar modo quella dei campus universitari, ha assunto da subito un atteggiamento duramente critico verso le scelte del presidente, anche se non rappresenta più la punta di diamante dell’opposizione alla guerra, come lo fu negli anni ‘60 contro l’intervento Usa in Vietnam. Mentre i settori più politicizzati della massa giovanile si sono riconosciuti nella galassia no-global<, a cominciare da Seattle (1999), gran parte nelle nuove generazioni è invece apparsa più defilata in occasione delle mobilitazioni popolari anti guerra che si sono via via succedute in questi ultimi tre anni. Tale atteggiamento trova forse la sua ragione sia nel fatto che negli Stati Uniti la leva militare non è più obbligatoria, e quindi non colpisce più i giovani, sia che sono stati proprio gli studenti delle scuole medie superiori e delle università, soprattutto tra gli iscritti alla facoltà di lettere, gli specializzandi in economia e commercio, e i cadetti dei Rotc (Reserve Officers’ Training Corps), cioè dei corsi premilitari di base per ragazzi, ad essere maggiormente influenzati da quella cultura militarista e neoliberista che ha ripreso vigore negli anni ‘80 con la presidenza Reagan.
LE MINORANZE ETNICHE
L’attuale peace movement sembra non essere in grado di coinvolgere in modo deciso e permanente la comunità degli afro-americani. Anche se, paradossalmente, i ghetti black e brown rappresentano i luoghi in cui i funzionari del governo riescono a reclutare i giovani, soprattutto tra le classi più povere, da inviare nei vari fronti di guerra. Ci sono comunque dell‘eccezioni, come è il caso della Racial Justice 9-11: People of Color Against the War, un‘associazione che si batte contro le manifestazioni di “razzismo quotidiano”, e che nello stesso tempo si oppone alla politica estera di Bush. Oltre agli afro-americani ci sono altre comunità che oggi possono vantare un forte presenza numerica e una certa influenza politica: questo è il caso dei latinos. Poi c’è la minoranza formata da cittadini mediorientali. Scorrendo l’elenco dei morti in Iraq riportati da alcuni siti statunitensi, scopriremo molti cognomi di origine spagnola e araba. Si tratta di comunità che, come quella mediorientale, dopo la distruzione delle Torri Gemelle e l’approvazione del Us Patriot Act (vedi dossier MO, 2/2002), vivono una condizione di estrema insicurezza che li porta, anche per questo, a partecipare ad azioni di protesta contro le azioni repressive della polizia, le discriminazioni sul posto di lavoro, o il degrado urbano e dei servizi sociali fondamentali.
LE DONNE
Tra le maggiori componenti del dissenso culturale e politico, non si può non ricordare il movimento delle donne, attivo oramai da più di un secolo, sui temi cari alla politica femminista. Se nel decennio a cavallo degli anni ‘60 e ‘70 abbiamo incrociato figure di spicco come quella di Barbara Deming, scrittrice, poetessa, attivista dei movimenti antinucleari, antirazzisti, pacifisti e nonviolenti, oggi, del nuovo peace movement, possiamo trovare associazioni come la Women’s Peace Vigil, che si riconosce nella rete United for Peace and Justice. O le organizzazioni femministe della sinistra liberal, come la National Organization for Women (Now), che condivide con altri gruppi radical e antiliberisti la lotta contro la guerra e il patriarcato, cioè le due facce della stessa medaglia.
LE CHIESE
Come è nella tradizione della cultura religiosa statunitense, le varie Chiese (da non confondere con i neo fondamentalisti cristiani o con le sette tele- evangeliche), ricoprono un ruolo di particolare rilievo nel movimento pacifista odierno. I vescovi e i laici cattolici, così come il clero della Chiesa episcopale, i quaccheri, i mennoniti e il sinodo presbiteriano, hanno assunto posizioni politicamente molto avanzate contro la violazione dei diritti umani compiute all’estero dalle truppe americane, o di dura critica verso la crescita vertiginosa delle spese militari a scapito dei servizi di pubblica utilità .
Le Chiese, così come molti gruppi ecclesiali di base, rappresentano sul piano ideologico una componente non radicale, eppure, per la sua forte spinta etica, molto attiva. In essa la pratica della disobbedienza civile e dell’azione diretta nonviolenta non è appannaggio dei soli laici, ma anche dei religiosi/e. Un episodio per tutti: il 25 luglio del 2003 sono state processate e condannate dalla Corte federale di Denver, nel Colorado, tre suore domenicane, perché il 6 ottobre dell’anno prima erano penetrate in una base nucleare, avevano segnato col loro sangue delle croci su di un missile e lo avevano preso a martellate con l’intenzione di renderlo inutilizzabile (vedi l’articolo di Alfredo Turco su questo dossier). Una storia che ha illustri precedenti, come quello del gesuita Daniel Berrigan che insieme ad altri uomini e donne (i “nove di Catonsville”), durante la guerra in Vietnam, si presentò all’ufficio di leva di Catonsville, nel Maryland, portò via i registri di leva e diede loro fuoco. O i “quattordici di Milwaukee”, tra cui alcuni sacerdoti e suore cattoliche, che avevano distrutto alcuni documenti all’interno di un ufficio di reclutamento. Anche l’uso del sangue umano in simili azioni non è nuovo: già nel 1981 un gruppo di donne lo mise in atto, cospargendo del proprio direttamente i muri di cinta del Pentagono.
LE RETI
Lo choc rappresentato dall’11 settembre, ha indubbiamente creato non pochi problemi all’interno delle varie associazioni o gruppi tradizionalmente impegnati sul fronte della pace. Infatti, anche una parte della sinistra statunitense accettò e sostenne all’inizio la scelta presidenziale di dare una risposta militare all’attacco terroristico. Personaggi come Richard Falk e la redazione del quotidiano progressista The Nation avevano definito l’intervento afghano una “guerra giusta”. Da qui forse la difficoltà di organizzare un’opposizione sufficientemente ampia oltre che immediata a tale atto. Il 13 ottobre 2001 - sei giorni dopo l’inizio dei bombardamenti -, i manifestanti convenuti a Copley Square, New York, non superavano le 1000 - 2000 persone. Chi invece ha cercato di rispondere da subito all’ondata di patriottismo bellico che cresceva nel Paese, è stata l’International Answer (Act Now to Stop War and End Racism). Dell’Answer attualmente fanno parte 11 organizzazioni. Con un’altra associazione, la Not In Our Name (Nion), nell’estate del 2002, ha avviato una campagna di massa: “impegno a resistere” (pledge of resistance).
Poi c’è la United for Peace and Justice (Ufpj), di orientamento socialista, ma interessata alla costruzione di un movimento culturalmente e idealmente molto più ampio. Ne fanno parte circa 200 organizzazioni, soprattutto sindacali e religiose. Oltre a ciò, si devono annoverare aggregazioni di centinaia di gruppi locali, di più vecchia o recente costituzione, formatisi su temi non solo o esclusivamente pacifisti. Tra questi vale la pena ricordare United for Peace, coalizione che raggruppa più di 100 piccole associazioni e comitati di base e su cui convergono l’antiliberista Global Exchange, di San Francisco, una delle anime di Seattle.
LE ASSOCIAZIONI
La novità più originale è forse rappresentata da un movimento che ha fatto dell’uso di internet il suo principale strumento politico. Si tratta di MoveOn. Partito con la raccolta di 250mila firme sotto una petizione anti-Clinton promossa da due imprenditori informatici di Berkeley circa tre anni fa, dall’ottobre del 2002 fino all’attacco contro l’Iraq, il suo tam-tam informatico ha fatto sì che quasi ogni settimana, cortei di 2-300mila persone sfilassero per le strade di San Francisco, Los Angeles e Washington.
Un’altra associazione di notevole interesse è quella di cui fa parte un gruppo di familiari delle vittime dell’11 settembre: si tratta di September Eleventh Families for Peaceful Tomorrows. Costituitasi per volontà di 80 parenti di altrettanti morti delle Torri, vuole rappresentare quella parte delle vittime del terrorismo che rifiutano la strumentalizzazione del loro dolore da parte del governo, e che vogliono spezzare la terribile sequenza violenza-ritorsione-violenza attraverso l’uso di metodi nonviolenti. Secondo questi principi, un gruppo di aderenti a Peaceful Tomorrows è partito alla volta dell’Afghanistan subito dopo l’inizio dei bombardamenti americani. La stessa cosa è avvenuta per l’Iraq, dove alcuni membri dell’organizzazione si sono recati lì per dire alle vittime di questa nuova guerra, che non tutti gli americani erano a favore della “punizione armata”. Sempre Peaceful Tomorrows sta sviluppando in tutto il Paese una vasta campagna per chiedere alle autorità un’indagine aperta, completa e obiettiva sui fatti dell’11 settembre. Tra i gruppi nati dopo l’inizio del conflitto iracheno, va annoverato anche il Military Families Speak Out, che coordina un migliaio di famiglie di militari inviati al fronte; il 20 marzo di quest’anno hanno manifestato a Washington per chiedere il ritiro delle truppe.
I COMUNI PER LA PACE
Un’altra esperienza di tutto rilievo è stata indubbiamente quella dei Comuni per la pace. Gruppi ed associazioni di cittadini hanno chiesto ed ottenuto che le amministrazioni di circa 200 città e contee, grandi e piccole, da Chicago a Los Angeles, da Filadelfia a Detroit, ecc., in rappresentanza di 30 milioni di abitanti, mettessero ai voti e approvassero altrettante risoluzioni contro la guerra, da inviare poi al presidente e al Congresso. Per la prima volta negli Stati Uniti delle istituzioni amministrative locali hanno assunto l’impegno di farsi portavoce di un’istanza squisitamente politica. C’è stato un unico precedente: quello di alcuni consigli di circoscrizione e municipali, oltre che di 11 Stati dell’Unione, che nel 1982 avevano appoggiato l’appello del movimento Freeze per una moratoria della produzione di ordigni e degli esperimenti nucleari.
I VETERANI
Per concludere questa rapida carrellata sulle principali realtà che compongono l’arcipelago arcobaleno made in Usa, vorremmo ricordare due movimenti a loro modo “atipici”, ma non per questo meno importanti.
In primo luogo le associazioni dei veterani di guerra: la maggiore di esse, la Vietnam Veterans Against the War conta circa 30mila iscritti ed ha assunto una ferma posizione contro l’attacco militare all’Iraq, mettendosi alla testa del raduno non autorizzato di New York del 15 febbraio del 2003. L’ultima nata è l’Iraq Veterans against the War, che si va ad aggiungere alla più vecchia Veterans for Peace.
Poi c’è il “movimento virtuale” di cui fanno parte quei 600 soldati Usa che sono stati inviati sul campo di battaglia ma che non vi sono mai arrivati: svaniti nel nulla, eclissati. O di coloro che “conosciuta” la brutalità della guerra, una volta in patria, vogliono farsi riconoscere lo status di obiettori di coscienza per non dover ripartire.
LA PACE È PATRIOTTICA?
Il monopolio informativo e quindi, attraverso di esso, la forte manipolazione dell’opinione pubblica statunitense, non hanno avuto ragione della crescita, dell’estendersi e della durata di questo nuovo movimento. Indubbiamente, i fatti dell’11 settembre avevano creato non pochi problemi a coloro che si opponevano già da tempo alla nuova strategia imperiale di Bush. Un patriottismo aggressivo si era mescolato con l’autentica commozione per le vittime dell’eccidio, l’orrore con l’incredulità. Per molti quell’evento rappresentò la fine dell’innocenza degli Usa, e la sua entrata nel mondo, come una sua parte.
Restava però vivo, nel discorso pubblico americano, l’orgoglio nazionale e l’idea di un’America “come il Paese della libertà” che nei momenti più critici della sua storia, riesce a pervadere gran parte dell’opinione pubblica, anche quella più progressista. La gestione politica dell’immaginario collettivo sottoposto al trauma dell’11 settembre, è stata reputata dai mass media necessaria alla ricostruzione di uno dei miti fondativi degli Usa: l’invulnerabilità del Paese, cioè della sua indiscussa ed indiscutibile alterità/superiorità economica, politica, militare e morale, che l’evento delle Torri Gemelle ha traumaticamente distrutto. Forse definitivamente. Tanto che possiamo dire che quell’orgoglio nazionale di cui accennavamo più sopra, sta cambiando di segno; siamo davanti ad un altro tipo di patriottismo, quello pacifista.
“La pace è patriottica” sta scritto su uno dei cartelli portati durante la manifestazione del 20 marzo scorso, a Kansas City. È lo svelamento di un’identità “altra” in formazione, una sorta di “controriforma” di quella religione civile rappresentata da tempo immemorabile dal patriottismo guerriero della tradizione yankee.
Come ha sostenuto un vecchio storico radical, Howard Zinn, “se il patriottismo fosse definito non come cieca obbedienza a chi ci governa, non come sottomessa devozione a bandiere e inni nazionali, ma piuttosto come amore per il proprio Paese, per i propri concittadini (in tutto il mondo), come lealtà ai principi di giustizia e di democrazia, allora esigerebbe che disobbedissimo a coloro che ci governano quando violano tali principi”. E non solo negli Stati Uniti.
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