Percorsi verso corpi civili di Pace
Con la caduta del muro di Berlino nel 1989 e il disfacimento del "Patto di Varsavia" viene meno lo scontro tra blocchi contrapposti, ma si evidenzia una realtà fatta di conflitti regionali che, per continenti come l'Africa, hanno carattere endemico. I conflitti interni agli stati aumentano in modo significativo e portano alla progressiva disintegrazione delle identità statali. I civili divengono target delle operazioni. Anche gli operatori umanitari e civili divengono obiettivi militari.
Un dossier pubblicato da “La Repubblica” il 03 luglio 1999, dal titolo esplicativo "Le guerre nel tempo della Pace" evidenziava circa 30 Paesi in situazioni di guerra, guerriglia o forte violazione dei principali diritti umani. Se a questi aggiungiamo la guerra nella ex-Jugoslavia (Bosnia, Croazia, Kosovo), l'Irlanda del Nord, i Paesi Baschi e la Corsica, nemmeno l'Europa è immune dalla piaga della morte e conflittualità violenta.
Il mutato scenario internazionale è stato ulteriormente complicato dopo l’11 settembre 2001 dall’apparizione sulla scena mondiale del terrorismo e da un clima di paura irrazionale artificialmente alimentata che ha favorito il moltiplicarsi delle cosiddette “nuove guerre” e quindi il diffondersi di quelle che, in gergo umanitario, sono ben descritte con il termine di “emergenze complesse”. Con quest’ultimo concetto si vuole descrivere una crisi in un paese, regione o società dove vi è un crollo totale o comunque considerevole dell’autorità centrale, come conseguenza di un conflitto interno e/o internazionale.
Tale crisi richiede una risposta che vada oltre il mandato di capacità di una singola agenzia e/o programma nazionale o delle Nazioni Unite. Queste emergenze sono spesso aggravate da congiunture economiche sfavorevoli, povertà radicate, crescite demografiche incontrollate, calamità naturali.
Di fronte alla complessità delle “nuove guerre”, anche le risposte e contro-strategie di intervento della comunità internazionale non possono che divenire più articolate, multidimensionali, complesse. In una visione integrata della società che prevede allo stesso tempo pace e sviluppo, sicurezza e buon governo, la sfida più importante per la comunità internazionale è - accanto alla pacificazione intesa come fine delle ostilità aperte - ricostruire stabili entità politiche come presupposto indispensabile alla creazione di paci durevoli.
La riflessione nonviolenta è quindi giunta a definire una nuova modalità di intervento, sempre basata su metodologie nonviolente, che è centrata sull'intervento preventivo, di interposizione e post-conflitto attraverso forme di intervento civile organizzato da Ong (Organizzazioni Non Governative) ed altre forme, che cercano un progressivo coordinamento e già realizzano modalità di cooperazione fra loro e con le agenzie dell’ONU.
L’obiettivo è la creazione di Corpi Civili di Pace.
Ci preme chiarire subito un punto: la nonviolenza non rifiuta il conflitto, non lo nega e non lo vuole nascondere. Anche perché le dinamiche conflittuali sono spesso legate a dinamiche di crescita, di sviluppo di miglioramento, comunque sia di non omologazione all'esistente al "già visto".
La nonviolenza si propone di affrontare il conflitto con una filosofia diversa e con altri mezzi. La filosofia è quella del
Legislazione esistente e spunti giuridici
- Il 06 marzo 2001 è entrata in vigore la nuova legge n.64 di “Istituzione del servizio civile nazionale” che all’art.9 prevede la possibilità che il servizio sia svolto all’estero per < interventi di pacificazione e cooperazione fra i popoli, istituite dalla stessa Unione Europea o da organismi internazionali operanti con le medesime finalità (…) resta salvo quanto previsto dalla legge 230/98 >
Molto importante è la sentenza della Corte Costituzionale n. 228 del 2004 che ribadisce come il servizio civile volontario è una “forma spontanea di adempimento del dovere costituzionale di difesa della Patria” e quindi chi fa servizio civile volontario non può essere < scollegato > dalle tematiche della pace, dei conflitti e della loro possibile soluzione. Per noi ovviamente attraverso le metodologie nonviolente.
- L'11 maggio 2004 è stato insediato il COMITATO CONSULTIVO DELL'UFFICIO NAZIONALE DEL SERVIZIO CIVILE (UNSC) PER LA DIFESA CIVILE NON ARMATA E NONVIOLENTA, così come previsto dalla Legge 230/98 e dal regolamento dell'UNSC, DPR 28/07/1999 n. 352 art. 2. Il Comitato Consultivo DCNAN, costituisce un importante riconoscimento giuridico e istituzionale per la ricerca e la sperimentazione di forme alternative alla violenza per la soluzione-gestione-trasformazione dei conflitti. Il Comitato è formato da 16 componenti, di cui la metà molti vicini alle tematiche e ai gruppi dell'area nonviolenta.
Per la regione Emilia Romagna si evidenziano anche:
- la Legge Regionale sulla Pace del 24 giugno 2002 n.12 dal titolo “Interventi regionali per la cooperazione con i Paesi in via di sviluppo e i Paesi in via di transizione, la solidarietà internazionale e la promozione di una cultura di pace”,
- la Legge Regionale sulla “Valorizzazione del servizio civile” del 20 ottobre 2003 n. 20 che negli art. 1; 2 e 3 parla dei corpi civili di pace e all'art.9, punto 6 ribadisce che il servizio civile si può svolgere in missioni umanitarie e in ricerca e sperimentazione di forme di difesa civile non armata e nonviolenta.
Alcune esperienze di intervento civile in aree di conflitto
Le esperienze delle Organizzazioni non Governative, delle associazioni e del mondo civile nel campo degli interventi umanitari in aree di conflitto e attività di servizio civile all’estero sono numerose e in tutte le parti del mondo.
Le Organizzazioni italiane che più si sono distinte sono:
Associazione Papa Giovanni XXIII di Rimini, con l’Operazione Colomba e con i Caschi Bianchi (giovani in Servizio Civile) in Cecenia, Kossovo, Chiapas, Zambia, Tanzania, Congo, Timor Est, Albania, Croazia, Bosnia Erzegovina, Turchia;
Beati i Costruttori di Pace di Padova, con iniziative a Sarajevo, Mostar, in altre zone della ex-Jugoslavia, Kossovo e nella Repubblica Democratica del Congo;
Berretti Bianchi di Lucca, con missioni a Belgrado, Pristina (Kossovo), Iraq e in Palestina,
Caritas Italiana con i Caschi Bianchi in iniziativa soprattutto nella ex-Jugoslavia ed in Africa,
Gavci - CEFA di Bologna, con iniziativa in Africa e nella ex-Jugoslavia,
ICS (Consorzio Italiano di Solidarietà) di Genova, con iniziative in Albania, in Macedonia, in Kosovo, in Bosnia-Erzegovina e nella Repubblica Federale Yugoslava (FRY),
Pax Christi, Mir (Movimento Internazionale della Riconciliazione) e altre realtà con la “Campagna Kosovo”,
PBI (Peace Brigades International) di Vicenza, con iniziative in Guatemala, Salvador, Colombia, Sri Lanka.
Ci sono poi moltissime realtà più piccole sparse sul territorio nazionale che hanno operato nel settore della pace a diversi livelli e con diverse esperienze. Tutto questo a dimostrazione di una forte vivacità italiana in materia.
Non mancano esperienze europee di alto livello attraverso Ong, Federazioni di Ong, Servizio Civile di Pace, etc. in Francia, Austria, Germania, Spagna. A livello Europeo esiste inoltre una Piattaforma Europa per la Prevenzione dei Conflitti ed un Network Europeo per il Servizio Civile di Pace (EN.CPS).
Ricerca e formazione
Ovviamente vi sono anche delle realtà scientificamente preparate per dare la cornice teorica e di stampo universitario all’azione pratica. Alcune delle più importanti sono:
Centro studi di formazione sui diritti dell'uomo e dei popoli di Padova,
CSDC (Centro Studi Difesa Civile) di Roma e Perugia,
IPRI (Istituto Italiano di Ricerca sulla Pace) presso Centro Sereno Regis di Torino,
UNIP (Università Internazionale delle Istituzioni dei Popoli per la Pace) di Rovereto (Trento),
CISP ( Centro Interdipartimentale Scienze per la Pace) presso l'Università di Pisa.
Il percorso Accademico dei Corpi Civili di Pace si sostanzia, per il momento di 3 tappe:
Il Ministero dell’Università, nella Gazzetta Ufficiale del 19 ottobre 2000, classe ministeriale n.35, ha istituito il Corso di Laurea in Scienze Sociali per la Cooperazione, lo Sviluppo e la Pace .
L’Università di Firenze, grazie al prof. Alberto L’Abate, ha approvato il corso di laurea su “Scienze Sociali per operatori di Pace”, corso che si aprirà con l’anno accademico 2001-2002,
L’Università di Bologna, su indicazione della prof.ssa Anna Maria Gentili, si è indirizzata sempre sullo stesso tema anche se con un’accentuazione maggiore sul lato della Cooperazione e dello Sviluppo.
Da tutti questi elementi: legislativi, giuridici, esperenziali e formativi si ricava che la società civile è in grado di operare degli interventi umanitari e di pacificazione e tutela dei diritti umani in zone di conflitto. Emerge la consapevolezza che al necessario volontarismo ed alla capacità di improvvisazione, anche se animati da buona volontà, devono sempre più affiancarsi capacità professionali, conoscenze tecniche e formative adeguate.
Corpi Civili di Pace
A seguito dell'intuizione più alta del nostro secolo, quella cioè avuta da Gandhi nel voler risolvere i conflitti senza l'utilizzo della violenza e delle armi e nel rispetto della dignità e della vita della controparte, nascono filoni di pensiero e di azione che si contraddistinguono per un'elaborazione che porta negli anni '80 a formulare il concetto di Difesa Popolare Nonviolenta".
La DPN tentava di rispondere soprattutto alle richieste di sicurezza delle popolazioni minacciate da invasioni armate.
Ora però ci preme evidenziare alcuni contributi di teorici della nonviolenza.
Giovanni Salio -Nanni Salio- dell’IPRI (Italian Peace Research Institute) parla della Difesa Popolare Nonviolenta (DPN), sostenendo che questa non è qualcosa di già completamente realizzato, definito in ogni particolare, ma una ricerca, un processo in atto, ed è quindi inevitabile che si proceda lungo diverse linee di esplorazione, come d’altronde avviene in qualsiasi campo, compreso quello della difesa militare.
Vi sono due scuole di pensiero: la prima si concentra soprattutto, o esclusivamente, sul macro livello e considera la DPN soltanto come sostituto della difesa militare o, per usare un’espressione usata anche da Gandhi, come “equivalente morale della guerra”.
La seconda scuola, quella olistica, considera invece il termine DPN in un’accezione più ampia, come risoluzione nonviolenta del conflitto a più livelli, nella micro e nella macro realtà (anche come filosofia e stile di vita).
Giuliano Pontara dell’Università di Stoccolma si sofferma sul concetto di etica della responsabilità.
E’ convinzione assai comune che se una certa azione sia moralmente giustificata o no dipenda dall’essere o meno quell’azione conforme a certi principi morali, considerati validi indipendentemente dalle conseguenze cui l’agire conforme ad essi conduce.
E’ importante invece che questa concezione venga sostituita, o quanto meno affiancata, da un codice morale che metta in primo piano la responsabilità per le conseguenze cui le nostre scelte, sia livello privato individuale, sia a livello sociale e politico, conducono. Pontara chiama questa concezione “l’etica della responsabilità”.
Secondo l’etica della responsabilità dobbiamo quindi sempre agire in modo tale da produrre le migliori conseguenze possibili, basandoci su dei principi minimi, che hanno il grande pregio della reversibilità dell’azione.
In base all’etica della responsabilità il ricorso alla violenza è in via di principio giustificabile, in quanto non si può escludere a priori che in certe situazioni l’uso della violenza conduca a conseguenze migliori di quelle cui conduce ogni altra alternativa. In ogni caso però si può sostenere che di rado l’uso della violenza è effettivamente giustificato.
Antonio Papisca, dell’Università di Padova, propone come paradigma universale di riferimento i valori ed i principi del nuovo diritto internazionale, dei diritti dell’uomo e dei popoli: soluzione pacifica delle controversie; divieto dell’uso della forza; cooperazione internazionale; rispetto dei diritti umani in base al principio di interdipendenza e indivisibilità dei diritti civili e politici e dei diritti economici, sociali e culturali; autodeterminazione dei popoli; democrazia internazionale, intesa come partecipazione politica popolare ai processi decisionali delle istituzioni internazionali; ingerenza pacifica negli affari interni degli stati in materia di diritti umani.
Il riferimento centrale è la costruzione dell’ordine mondiale previsto dall’art.28 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo: “Ogni individuo ha diritto a un ordine sociale e internazionale in cui tutti i diritti e le libertà enuncianti dalla presente Dichiarazione possano essere pienamente realizzati.”
A fronte a questa nuova realtà, lo status e il ruolo dell’obiettore di coscienza deve acquisire un rilievo internazionale: egli infatti è titolare di un diritto innato, internazionalmente riconosciuto, quale quello della libertà di pensiero e di coscienza, di cui il diritto all’obiezione di coscienza è una articolazione (art. 9 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo del 1950 e l’art. 18 del Patto Internazionale sui diritti civili e politici del 1966).
Il riconoscimento è utile anche per creare forze di intervento non armato e nonviolento da utilizzare sia nell’ambito delle Nazioni Unite sia in ambito regionale.
Gene Sharp, dell’Università di Harvard (USA), propone di sostituire in un conflitto mezzi nonviolenti a mezzi violenti, consapevole che ciò non avverrà senza tenere conto dei motivi per cui le società mantengono i loro sistemi militari: infatti il bisogno di difesa è una necessità fondamentale di tutte le società.
Egli si distingue da molti che sostengono che si debba prima creare una società ideale per poter conseguire l’abolizione della guerra.
Esistono numerosi esempi di come i non-pacifisti siano riusciti in particolari conflitti ad abbandonare la violenza a favore dell’uso della lotta nonviolenta. La stragrande maggioranza di casi di lotta nonviolenta del passato ha avuto una base pragmatica, senza nessun tipo di convinzione nella nonviolenza etica o religiosa, o in altri tipi di rifiuto dottrinale dei mezzi violenti.
Sostiene quindi che gruppi umani o intere società possono consapevolmente decidere di usare metodi di lotta nonviolenti al posto di mezzi militari per difendersi, visto che è già esistita gente che ha praticato la nonviolenza per ragioni pragmatiche. E’ dunque possibile che, proprio nel mondo in cui viviamo, si verifichi un cambiamento da una difesa di tipo militare ad una difesa a base civile. In questo modo per intere società si aprirebbe la via che può portare all’abbandono della guerra.
Theodor Ebert, dell’Università di Berlino, parte dalla considerazione che non si può abolire una istituzione che agli occhi dei suoi difensori adempie una funzione necessaria, così come non si può offrire una istituzione funzionalmente equivalente a quella da abolire.
La maggior parte della gente si forma le proprie convinzioni di base riguardo l’impiego della violenza entro le mura domestiche, ed è esattamente là che si deve arrivare proponendo la soluzione nonviolenta dei conflitti, se si vuole riuscire ad eliminare la violenza.
Sono utili le task forces nonviolente?
Ebert ritiene sia importante istruire ed educare il maggior numero possibile di cittadini in modo tale che essi possano affrontare le nuove situazioni potenzialmente violente, che costituiscono una minaccia appena fuori casa.
L’uso dei molteplici metodi nonviolenti può essere appreso discutendo differenti scenari del conflitto ed imparandone le strategie (LEARNING GAMES).
Egli crede nella validità dello studio dei casi e nella loro descrizione in dettaglio.
La task force ed i volontari sono chiamati a formare una specie di muro vivente nonviolento intorno alle persone minacciate ed a formare dei gruppi di discussione per influire direttamente sui gruppi violenti.
La cosa più importante per il futuro è che si cominci un addestramento nonviolento con corsi particolari a seconda dei diversi compiti. La preparazione alla difesa civile di un giornalista sarà diversa da quella di un impiegato addetto alla distribuzione e raccolta delle tasse.
Jean Marie Muller, membro del “Movimento per un’Alternativa Nonviolenta”, parla di diversi argomenti collegati alla nonviolenza.
Un modo di intendere la democrazia ci porta a dire che “la democrazia è la legge del numero”, è il rispetto della legge della maggioranza: una volta che la maggioranza si fosse pronunciata, la democrazia consisterebbe nell’assoggettare la minoranza a tale maggioranza.
Ma esiste una seconda maniera di intendere la democrazia: quando si parla di un regime non democratico, si dice che esso non rispetta i diritti dell’uomo. E così si arriva ad una definizione di democrazia che non si riferisce più alla legge del numero ma al rispetto del diritto, al rispetto delle libertà e dei diritti individuali e collettivi dei cittadini e di tutti i cittadini. Rispetto della giustizia. Rispetto della libertà.
L’azione politica riguarda sempre la gestione dei conflitti: bisogna, allora, capire quali siano i mezzi per gestire i conflitti che restino lontani dalla logica della violenza e della guerra.
Vi sono due discorsi di Gandhi, che non sono opposti l’uno all’altro, ma che si situano su due registri differenti. C’è il discorso di Gandhi ai suoi compagni, alla sua comunità nel suo ashram, e sono coloro che condividono la sua fede nella nonviolenza. Evidentemente, a quel livello, tali discorsi legano la nonviolenza alla fede nella nonviolenza. Ma ci sono anche i discorsi di Gandhi alla tribuna del Congresso dell’India, essendo il Congresso dell’India l’organizzazione politica attraverso la quale Gandhi ha portato avanti la lotta per l’indipendenza dell’India. Egli afferma in molti dei suoi scritti: “Per me la nonviolenza è un credo, ma non ve la presento come un credo, ve la presento come una politica più efficace.”
Johan Galtung, dell’IPRI (International Peace Research Institute) di Oslo, comincia con il dare la definizione di conflitto: è opportuno, fin dall’inizio, distinguere tra conflitto, atteggiamento e comportamento.
Il conflitto vero e proprio è una incompatibilità fra scopi perseguiti da attori diversi: persone, gruppi o nazioni.
Lo stabilire che un sistema sociale in conflitto sviluppi necessariamente un comportamento ed un atteggiamento distruttivo, dovrebbe essere considerato come una ideologia piuttosto che una preposizione scientifica.
Galtung ha una considerazione positiva del conflitto: il conflitto è una sfida.
La teoria generale si legge nel modo seguente: la parte terza o le parti terze intercedono in favore dell’oppresso contro l’oppressore.
Alcune tesi.
La prima tesi: la nonviolenza non funziona là dove gli oppressi sono deumanizzati.
Tesi numero due: la nonviolenza ha funzionato dove si è formata una catena fra una parte degli oppressori con gli oppressi. L’intervento di parti terze particolarmente vicine all’oppressore contribuisce a indebolire l’oppressore.
Tesi numero tre: affinchè la nonviolenza possa funzionare bisogna costruire una catena fra oppresso e oppressori. Collegare le parti terze (interne od esterne agli oppressori) con gli oppressi.
Uno dei maggiori problemi nell’addestramento all’azione nonviolenta è accertare se vale la pena di combattere per una determinata causa.
Superare la paura è il primo problema ma la via per superare tale paura è riuscire a far sì che gli operatori si identifichino con la causa per cui stanno combattendo.
E’ quasi impossibile prevedere la via esatta della nonviolenza, anche perchè i governi sono diffidenti rispetto alla nonviolenza:
La conclusione è che siamo in un processo con una prospettiva di tempo molto lungo e allora bisogna continuare, continuare e continuare, senza aspettarsi gratitudine e ricompensa. Lo si fa perchè è la cosa da fare.
Corpi di pace non armati e nonviolenti
La proposta fatta da Alex Langer e ripresa dai suoi collaboratori, per la creazione di un “Corpo Civile di Pace Europeo”, che possa intervenire in situazioni di conflitto acuto, o per prevenirne l’esplosione, o per aiutare a trovare soluzioni accettabili alle parti in conflitto.
L’inefficacia dell’ONU è stata provocata dagli stati che dominano questa organizzazione che non danno alle Nazioni Unite nè i soldi, nè gli uomini necessari, nel tentativo di accreditare l’ipotesi che gli interventi di interposizione armata siano inadeguati e superati.
Studi recenti hanno confermato che gli stati intervengono direttamente quando sono in gioco i loro interessi vitali e fanno invece intervenire le Nazioni Unite, quando non hanno interessi diretti e/o quando rischiano di fare una brutta figura.
L’intervento degli stati viene di solito svolto in modi completamente diversi, ad esempio con aerei che bombardano “il nemico” dall’alto: intervento molto meno rischioso per la vita dei propri soldati. Ma le due diverse politiche strategiche (interposizione o intervento aereo) hanno anche una seconda implicazione molto importante.
L’interposizione non ha un nemico; o piuttosto, potremmo dire, il nemico è la guerra stessa che si cerca di fare finire. Ma per poterla portare avanti in modo valido è necessario che i due contendenti che si combattono siano convinti che l’interposizione non è a favore di uno dei due ma al di sopra delle parti, nel comune interesse di far cessare i combattimenti e di trovare una soluzione equa al conflitto, accettabile da ambedue i contendenti. L’intervento armato aereo ha invece bisogno di designare un nemico, di vedere tutte le colpe da una parte e sorvolare quelle dell’altra.
Malgrado le Nazioni Unite siano nate per fare la pace e non la guerra, il Consiglio di Sicurezza ristretto è formato da paesi (USA, Russia, Inghilterra, Francia, Cina) che dal 1985 al 1989 hanno venduto a paesi terzi ben l’85,6% del totale degli armamenti nel mondo.
La casistica degli interventi di interposizione nonviolenta o, almeno nonarmata, programmati e progettati dal 1932 al 1996 è interessante: 25 casi di intervento di questo tipo e 9 casi di progetti non realizzati , 6 casi spontanei conosciuti.
L’interposizione nonviolenta, di persone significativamente correlate ai due gruppi in conflitto, ha portato alla fine dei combattimenti ed alla ricerca di soluzioni negoziate. Altri interventi, programmati, di persone esterne al paese in cui avviene il conflitto, non hanno sempre dato risultati così evidenti ma hanno sicuramente salvato varie vite umane. Un esempio importante di questo viene dall’intervento delle Peace Brigades International, dai “Beati i Costruttori di pace”, dall'Associazione Papa Giovanni XXIII° di Rimini, dai Berretti Bianchi di Lucca, dal GAVCI di Bologna, dalla Comunità di Sant’Egidio di Roma, da Amnesty International, ecc.
L’efficacia dell’intervento non dipende solo dal lavoro in loco, ma dal sostegno in tutto il mondo di gruppi locali che si attivano a sostegno di quella iniziativa.
Gli esempi servono per dimostrare la possibilità di soluzioni nonviolente dei conflitti. Essi possono essere presi come modelli di azioni preventive di organismi più grandi
Il PEACEKEEPING delle Nazioni Unite ed il suo efficiente funzionamento sono oggi le sfide più importanti per le forze armate e per gli addetti alla politica estera dentro o fuori dell’Europa. Nello stesso tempo il ruolo potenziale dei civili nel prevenire o nel gestire i conflitti è tuttora grandemente sottostimato.
Il rapporto “Bourlange/Martin”, adottato dal Parlamento Europeo il 17 maggio 1995 nella sua sessione plenaria a Strasburgo, ha riconosciuto questo ruolo della società civile, affermando che “un primo passo verso un contributo nella prevenzione del conflitto potrebbe essere la creazione di un Corpo civile di pace europeo (che includa obiettori di coscienza), con il compito di addestrare osservatori, mediatori e specialisti nella risoluzione dei conflitti”.
PERCHE’ UN CORPO CIVILE DI PACE
I civili possono dialogare con più facilità, impressionano di meno dei militari, l’assenza di vincoli gerarchici facilita una maggior comprensione dei valori democratici.
I civili non minacciano l’orgoglio nazionale, la sovranità dei comandanti militari locali, dei capi milizia e dei leaders politici (non sono dei rivali). Inoltre possono agire più sommessamente, senza bisogno di apparati propagandistici.
ORGANIZZAZIONE
Costituito dagli stati membri dell’Unione Europea, con riferimento all’OSCE e all’ONU.
Il suo raggio d’azione sarebbe l’Europa, ma con possibilità di agire anche fuori dai confini europei.
Dovrebbe disporre di una sede centrale generale e di personale pienamente equipaggiato.
Dovrebbe essere costituito inizialmente da 1.000 persone (1/3 professionisti, 2/3 volontari).
COMPITI
Prevenzione (facilitando scambi e dialogo fra le parti in conflitto).
Rimozione (soprattutto degli elementi o delle situazioni che creano conflittualità).
Negoziazione (con autorità locali, con personaggi di spicco, con leaders locali, con i politici locali).
Promozione (del dialogo, dell’ascolto, della reciproca comprensione, della consapevolezza dei bisogni delle parti).
Denuncia (dei fautori della violenza o di crimini difronte alle autorità locali ed internazionali).
Sostituzione - solo su richiesta- (alle autorità o alla polizia locale).
Cooperazione (per provvedere ai rifornimenti e ai servizi, così come per alleviare le sofferenze dei civili. Ciò in collaborazione anche con le organizzazioni umanitarie).
Interposizione - solo su richiesta- (in caso di degenerazione violenta di conflitti, senza però imporre soluzioni alle parti).
RECLUTAMENTO PERSONALE
Il Corpo deve avere partecipanti di diverse nazioni, anche di membri delle nazioni in conflitto.
Uomini e donne dai 20 agli 80 anni.
Qualità dei partecipanti:
tolleranza, resistenza alla provocazione, educazione alla nonviolenza, marcata personalità, esperienza nel dialogo, propensione alla democrazia, conoscenza delle lingue, cultura, apertura mentale, capacità all’ascolto, intelligenza, capacità di sopravvivere in situazioni precarie, pazienza, non troppi problemi psicologici personali.
Da dove reclutarli:
- dalle ONG con esperienza diretta di prevenzione dei conflitti,
- dagli obiettori di coscienza,
- dai militari peacekeeping in pensione e da diplomatici,
- da rifugiati ed esiliati delle parti in conflitto.
ADDESTRAMENTO
Fondamentale. Tutti, volontari e professionisti, devono aver preso parte a programmi di addestramento, i trainers devono avere la possibilità di essere stagiairs in missioni per acquisire esperienza sul campo.
Prevedere formazione pratica (corsi sopravvivenza, lingua, storia, religioni, tradizioni e sensibilità della regione dove si va ad operare).
OPERAZIONI E LORO PREPARAZIONE
Le parti devono richiedere l’intervento e l’imparzialità è necessaria.
Necessario stabilire le condizioni di base, il mandato, il periodo, e il finanziamento.
In Europa operazioni gestite dall’OSCE.
Fuori dall’Europa dall’ONU.
FINANZIAMENTO
A carico dell’Unione Europea che, in una prima fase, dovrebbe prevedere finanziamenti per progetti pilota delle ONG.
RELAZIONE CON I MILITARI
I peacekeepers militari potrebbero fornire protezione ai partecipanti del Corpo.
Necessario collaborare costruttivamente.
CONCLUSIONE
Bisogna prevedere anche il fallimento di operazioni svolte dal Corpo. In ogni caso se il conflitto si trasforma in vera guerra, il Corpo deve essere evacuato (almeno i volontari).
Fondamentale collaborazione e consenso con comunità e autorità locali. Promuovere una politica premiale a livello internazionale per chi assume atteggiamenti e comportamenti virtuosi.
TAVOLA ROTONDA DI BRUXELLES (6/11/1995)
Arno Truger, responsabile dell’Austrian Study Center for Peace Conflict Resolution dell’Università di Stadtschlaining; Pertti Joenniemi, ricercatore del Center for Peace & Conflict Resolution di Copenaghen (Danimarca); David L. PhilipsErnst Gulcher, segretario dell’intergruppo del Parlamento Europeo su
Sono emerse due concezioni.
La prima è più prudente e cauta e si riassume nelle quattro condizioni necessarie per l’invio del Corpo in una zona di conflitto:
1) avere una forte autorità politica, diretta emanazione di un’autorità internazionale universalmente riconosciuta,
2) intervenire solo quando è ritenuto inevitabile,
3) intervenire solo per far rispettare la pace (peacekeeping) e non impegnarsi nel compito di imporre la pace (peaceenforcing) che deve essere riservato ad un intervento armato della comunità internazionale,
4) intervenire solo se invitati dai governi legittimi coinvolti nella guerra.
La seconda concezione, più vicina al sentire pacifista, si riassume nei seguenti punti:
a) il Corpo non deve essere gestito direttamente dagli stati, anzi deve farsi scrupolo di non favorire gli interessi politico-economici di nessuna potenza straniera, compresa quella della comunità europea,
b) deve essere espressione della democrazia dal basso e deve essere gestito dalle ONG; compito dell’autorità internazionale (ONU o Unione Europea) è quello di legittimare giuridicamente e di contribuire a finanziare queste forze di mediazione,
c) deve rigorosamente rinunciare alla violenza e sviluppare le iniziative di azione nonviolenta.
La discussione del corpo civile di pace nel contesto dell’Unione Europea non è solo un dibattito su ciò che l’Unione Europea dovrebbe fare e su quale tipo di risorse dovrebbe acquisire. E’ soprattutto qualcosa che fa parte della stessa natura dell’Unione Europea, su cosa essenzialmente sia l’Unione Europea.
Il supporto accademico è stato fornito dal Centro Studi Austriaci per la Pace e la Risoluzione dei Conflitti; dal Centro Europeo per il Common Ground e dall’Istituto di Ricerca sulla Pace di Tampere.
Altri punti emersi come Segreteria italiana della Difesa Popolare Nonviolenta sono:
1) funzioni raccordate con schema a tre vertici del triangolo: a) coordinamento internazionale, b) gruppi locali impegnati nei vari conflitti, c) presenze a lungo termine all’estero in zone a rischio (es.ambasciate di pace);
2) il Corpo deve essere gestito da un comitato misto in cui siano presenti ONG e rappresentanti istituzionali;
3) possono far parte del Corpo i maggiorenni di ambo i sessi, compresi gli obiettori di coscienza, i quali però non devono costituire la parte essenziale;
4) il Corpo dura un anno, di cui tre mesi sono dedicati alla preparazione: due mesi all’inizio, quindici giorni dopo il primo semestre, quindici giorni alla fine come verifica;
5) il Corpo deve essere strettamente collegato con le organizzazioni che sono impegnate nella mediazione dei conflitti a livello di previsione, prevenzione e soluzione. Non rientrano in questo novero le organizzazioni che si dedicano specificamente agli aiuti umanitari;
6) ai lavoratori che decidono di far parte del Corpo deve essere salvaguardato almeno il diritto al posto di lavoro;
7) il finanziamento del Corpo deve essere al 50% a carico della Comunità Europea e al 50% a carico delle ONG che ne hanno la responsabilità, come previsto dal progetto di Madame Cresson (risoluzione al Parlamento Europeo B4-1127/95). Potrebbe essere più valida una tripartizione: 33% a carico della Comunità Europea, 33% a carico delle ONG e 33% a carico dei singoli stati che verrebbero così a legittimare politicamente la Difesa Nonviolenta, obiettivo primario della Campagna Internazionale per la Legittimazione Politica della Difesa Nonviolenta promossa dall’organizzazione indiana “Cooperazione per la Pace”;
8) coloro che fanno parte del Corpo costituiscono le riserve con le quali è opportuno mantenere sempre i contatti. Le riserve dovrebbero rinforzare i gruppi locali impegnati nella mediazione dei conflitti del proprio territorio ed essere disponibili per eventuali missioni di interposizione nonviolenta all’estero.
IL SEMINARIO DI STADTSCHLAINING (AUSTRIA 16-18 FEBBRAIO 1996) E IL SEMINARIO DI VERONA SUL CORPO CIVILE DI PACE EUROPEO (VERONA 30 MARZO 1996)
Da queste ulteriori iniziative e da altri interventi su questo progetto sono emerse anche queste considerazioni.
Se la guerra è un problema della società, è logico che anche i rimedi, più che dallo stato, devono venire, in primo luogo, dalla società.
Finora, nella prassi politica, la strategia nonviolenta mal si distingueva da quella antimilitarista. E’ stata essenzialmente una strategia di contrasto più che di progettualità.
Nessuno è tanto ingenuo da ipotizzare un domani senza conflitti. In un processo di trasformazione il conflitto è una componente dinamica positiva. Compito della nonviolenza non è quindi eliminare il conflitto. Compito della nonviolenza è insegnare la soluzione nonviolenta dei conflitti. E qui necessita la progettualità.
L’Unione Europea, agli inizi del conflitto in ex-Jugoslavia, aveva creato la European Community Monitoring Mission.
Essa aveva come obiettivi originari il controllo delle tregue, la supervisione dello scambio dei prigionieri e l’applicazione delle sanzioni internazionali. Oggi si adopera per riportare le parti ad un unico tavolo negoziale, prevenire la ripresa delle ostilità e monitorare l’attuazione degli aspetti civili degli accordi.
La ECMM potrebbe essere il primo passo, con le dovute modifiche, per l’istituzione del Corpo Civile di Pace Europeo.
A livello Europeo il percorso di "avvicinamento" ai Corpi Civili di Pace è continuato con l'approvazione, nel febbraio del 1999, da parte del Parlamento Europeo di una Raccomandazione ai Paesi Membri per la costituzione dei CPCE.
A seguito di ciò poi si è tenuto un seminario a Bruxelles il 09 dicembre 1999 "Corpi Civili di Pace Europei, verso un'efficace politica dell'Unione Europea per la trasformazione dei conflitti", organizzato dall'Intergruppo iniziative per la Pace dei Parlamentari Europei e presieduto da Luisa Morgantini.
Di seguito riporto le motivazioni che hanno portato all'approvazione della Raccomandazione del Parlamento Europeo e un riassunto del testo.
IL CONCETTO DI UN CORPO DI PACE CIVILE EUROPEO (CPCE)
Introduzione
La nuova situazione di conflitto venutasi a creare alla fine della "guerra fredda" è stata caratterizzata da un numero crescente di conflitti intrastatali con sempre maggiori implicazioni internazionali di carattere politico, economico, ecologico e militare. Tale evoluzione ha portato ad una crescente necessità e legittimità di un intervento esterno, ponendo le organizzazioni internazionali come l'Unione europea (UE) di fronte a una sfida sempre maggiore . Tuttavia dato il carattere multiforme di questi conflitti, esse debbono affrontare il problema della loro comprensione e gestione. Si registra una mancanza di adeguati concetti, strutture, metodi e strumenti, (ivi compresi mezzi materiali e personale preparato). E' ovvio ormai che avvalersi unicamente delle risorse tradizionali associate alle strategie diplomatiche o militari non basta più. E' necessario pertanto un approccio globale inteso a creare la pace, che comprenda gli aiuti umanitari, la cooperazione allo sviluppo e la soluzione dei conflitti. Gli interventi debbono essere coordinati a livello internazionale; riferirsi ai bisogni della popolazione nella zona di conflitto; essere compatibili con la società civile e con gli altri attori sul campo; essere non violenti e distinti dalle azioni coercitive, flessibili e pratici; essere altresì in grado di contrastare fin dall'inizio l'escalation della violenza.
La relazione Bourlanges/Martin, approvata dal Parlamento europeo nella seduta del 17 maggio 1995, a Strasburgo, ha riconosciuto per la prima volta questa necessità affermando che "un primo passo per contribuire alla prevenzione dei conflitti potrebbe consistere nella creazione di un Corpo civile europeo della pace (che comprenda gli obiettori di coscienza) assicurando la formazione di controllori, mediatori e specialisti in materia di soluzione dei conflitti". Da allora, il Parlamento europeo ha ripetutamente confermato tale affermazione, da ultimo nella sua più recente relazione sull'attuazione della PESC. Nel frattempo è stato previsto di configurare il Corpo di pace civile europeo nel modo seguente:
Obiettivi
La principale priorità del CPCE sarà la trasformazione delle crisi provocate dall'uomo, per esempio la prevenzione dell'escalation violenta dei conflitti e il contributo verso una loro progressiva riduzione. In ogni caso, i compiti del CPCE avranno un carattere esclusivamente civile. Un particolare accento sarà posto sulla prevenzione dei conflitti, in quanto più umana e meno onerosa rispetto alla ricostruzione del dopoconflitto. Tuttavia, il Corpo potrebbe svolgere altresì compiti umanitari in seguito a catastrofi naturali. Il coinvolgimento del CPCE non dovrebbe limitarsi ad una data regione (per esempio Europa).
Il CPCE si baserà su un approccio olistico, che comprenderà inter alia sforzi politici ed economici e l'intensificazione della partecipazione politica e del contesto economico delle operazioni. Dal momento che gli sforzi intesi a trasformare il conflitto debbono riguardare tutti i livelli di conflitti che si protraggono nel tempo, il CPCE assumerà compiti multifunzionali. Esempi concreti delle attività del CPCE intese a creare la pace sono la mediazione e il rafforzamento della fiducia tra le parti belligeranti, l'aiuto umanitario (ivi compresi gi aiuti alimentari, le forniture di acqua, medicinali e servizi sanitari), la reintegrazione (ivi compresi il disarmo e la smobilitazione degli ex combattenti e il sostegno agli sfollati, ai rifugiati e ad altri gruppi vulnerabili), il ricupero e la ricostruzione, la stabilizzazione delle strutture economiche (ivi compresa la creazione di legami economici), il controllo e il miglioramento della situazione relativa ai diritti dell'uomo e la possibilità di partecipazione politica (ivi comprese la sorveglianza e l'assistenza durante le elezioni), l'amministrazione provvisoria per agevolare la stabilità a breve termine, l'informazione e la creazione di strutture e di programmi in materia di istruzione intesi ad eliminare i pregiudizi e i sentimenti di ostilità, e campagne d'informazione e d'istruzione della popolazione sulle attività in corso a favore della pace. Nulla di tutto ciò può essere imposto direttamente alle parti, tuttavia la loro cooperazione può essere agevolata attraverso il sostegno politico proveniente dall'esterno.
La riuscita nell'adempimento di questi compiti dipenderà dal grado in cui il CPCE sarà capace di migliorare le relazioni tra gli aiuti umanitari, il rafforzamento della fiducia e la cooperazione economica. Il sostegno a questi settori non potrà avere un risultato positivo se non sarà messo in relazione agli altri; per esempio il successo degli aiuti umanitari e la ricostruzione dopo una guerra dipendono dal grado di fiducia che viene a crearsi tra le parti belligeranti. La ricostruzione materiale ha pertanto il compito di coinvolgere i belligeranti in progetti comuni.
Il CPCE dovrebbe essere un organo ufficiale, istituito dall'Unione europea e operante sotto gli auspici della stessa. Con riferimento agli organi e agli Stati membri dell'UE, il CPCE dovrebbe garantire che
- i fondi dell'UE siano utilizzati per progetti compatibili con gli interessi dell'UE;
- il sostegno dell'UE sia reso visibile;
- gli Stati membri dell'UE siano sostenuti nella preparazione e nell'assunzione del personale delle missioni;
- il coordinamento tra gli Stati membri e gli altri attori beneficiari dei fondi per attività finalizzate alla pace sia agevolato e siano vietati i doppioni;
- i fondi dell'UE siano utilizzati in maniera efficiente.
Il CPCE opererà soltanto con un mandato sostenuto dall'ONU o dalle sue organizzazioni regionali: OSCE, OUA, OAS. Esso contribuirà a creare i necessari collegamenti tra le attività diplomatiche, da un lato, e la società civile, dall'altro. Quale organo a favore della pace, il CPCE svolgerà attività diverse da quelle svolte in tal senso in campo diplomatico. Le missioni del CPCE si baseranno sull'assenza di operazioni militari violente, su una specie di accordo di cessate il fuoco e sul consenso delle principali parti interessate. Quale organo ufficiale, il CPCE si distinguerà dalle ONG. Le sue attività si baseranno tuttavia su un'efficiente cooperazione con le ONG e rafforzerà e legittimerà il loro lavoro. L'attività del CPCE sarà strutturata ed organizzata indipendentemente dagli organi militari, pur basandosi sulla cooperazione con i militari laddove le missioni del CPCE coincideranno con le operazioni per il mantenimento della pace.
Personale e struttura
Il CPCE consisterà in due parti:
1. un nucleo costituito da personale qualificato a tempo pieno che svolgerà compiti di gestione ed assicurerà la continuità (vale a dire un segretariato con compiti di amministrazione e gestione, assunzione, preparazione, intervento, rapporto di fine missione e collegamento); e
2. un gruppo costituito da personale specializzato da destinare alle missioni (ivi compresi esperti, con
o senza esperienza, tuttavia perfettamente addestrati), chiamato a compiere missioni specifiche, assunto a tempo parziale o con contratti a breve termine in qualità di operatori sul terreno (ivi compresi gli obiettori di coscienza su base volontaria o volontari non remunerati). Il reclutamento si baserà su una rappresentanza proporzionale tra gli Stati membri dell'Unione europea.
Preparazione
Preparazione generale
Tutto il personale sarà preparato tenuto conto delle condizioni generali della missione (per esempio carenza di adeguate infrastrutture materiali, forti pregiudizi e sentimenti di ostilità, tendenza alla violenza, servizi sanitari inadeguati, sistemi di forniture che mettono a dura prova il personale e le sue capacità sociali, dovendo cooperare in uno scenario multiculturale alieno alla propria vita normale. La preparazione generale svilupperà le capacità di far fronte a condizioni estreme ed applicabili ad una vasta gamma di situazioni di conflitto. Avrà lo scopo di creare un terreno d'intesa comune che comprenderà l'apprendimento di un modo di comunicazione comune e fornirà un approccio generale per il personale dell'UE proveniente da esperienze professionali e culturali diverse, che gli consentirà di operare in paesi con popolazioni di diverse culture. Nel corso della preparazione generale, ai tirocinanti verranno impartite nozioni di base sulle attività intese a stabilire la pace e sulle organizzazioni interessate (ONU, OSCE, ONG).
Preparazione con riferimento alle funzioni
Dato che il carattere multidimensionale dei conflitti rende molto ardue la loro comprensione e gestione, le esperienze professionali debbono riferirsi alle strategie per la trasformazione dei conflitti e alle specificità delle varie funzioni da svolgere. Indipendentemente dalla missione cui il personale sarà assegnato, esso dovrà ricevere una preparazione specifica e circostanziata relativa alle funzioni da svolgere su almeno uno dei principali compiti della missione.
Preparazione con riferimento alla missione
Il personale della missione dovrà essere messo al corrente delle condizioni specifiche in cui verrà a trovarsi in talune missioni e delle particolari funzioni che dovrà svolgere. Si rende pertanto necessaria una preparazione con riferimento specifico alla missione da effettuare, sia prima dell'intervento che sul terreno.
Rapporto di fine missione
Il rapporto di fine missione è importante per il personale e per il CPCE per valutare e integrare le esperienze e per migliorare la preparazione e le operazioni sul terreno.
Assunzione
Al fine di garantire che venga assunto soltanto personale qualificato è necessario che il CPCE stabilisca:
a) una base generale di dati relativa al personale disponibile che comprenda organigrammi compatibili in tutti gli Stati membri e istituzioni di formazione dell'UE;
b) procedure generali di assunzione che consentano la trasmissione periodica di informazioni sul personale qualificato tra le istituzioni interessate; e
c) una base per l'assunzione negli Stati membri, tramite la pubblicazione dei vantaggi della partecipazione del CPCE agli sforzi intesi a creare la pace, e l'adozione di misure sul piano giuridico e finanziario per garantire la sicurezza del posto di lavoro e predisporre misure sanitarie in vista delle missioni.
Intervento
È necessario provvedere all'organizzazione dell'intervento conformemente al mandato di una data missione. Il mandato deve essere definito in termini chiari e fattibili con riferimento alle risorse disponibili. Si deve altresì provvedere all'equipaggiamento necessario, alla copertura assicurativa e all'organizzazione della dislocazione del personale.
Finanziamento
L'UE e i suoi Stati membri provvedono al finanziamento. Al fine di agevolare la creazione del CPCE in base alle risorse disponibili, da un lato, e far fronte all'insieme delle esigenze, dall'altro, è previsto un continuo ampliamento del CPCE, iniziando con un progetto pilota seguito da costanti operazioni di controllo e da adeguamenti perfettamente sintonizzati.
Quadro istituzionale
Il CPCE dovrebbe essere creato quale servizio specifico nell'ambito della DG I della Commissione, con un direttore generale responsabile nei confronti del Commissario per gli affari esteri e dell'Alto rappresentante della PESC che dovrà essere insediato tra breve presso il Consiglio. Onde garantire la sua necessaria flessibilità operativa sarebbe opportuno strutturarlo sul modello di ECHO.
Conclusioni
Il ruolo potenziale dei civili nel campo della prevenzione e della soluzione pacifica dei conflitti deve essere ancora valutato in tutti i suoi elementi. Al termine di una missione militare per il mantenimento della pace si registra spesso una recrudescenza del conflitto, in quanto le ragioni interne che sono state all'origine della violenza non sono state pienamente affrontate e risolte. La risposta militare, per quanto necessaria per porre fine al confronto violento, non è sufficiente a creare un'effettiva riconciliazione tra le parti. A tale riguardo, l'idea del CPCE dovrebbe essere presa in considerazione dall'UE quale ulteriore mezzo per accrescere e rendere la sua azione ancora più efficace. Agevolare il dialogo e ripristinare le condizioni di reciproca fiducia sono compiti troppo spesso trascurati che dovrebbero far parte di ogni missione di pace. Solo perseguendo un reale processo di riconciliazione si potrà raggiungere una pace durevole. La diplomazia civile, meno dura e più flessibile, dovrebbe essere usata per affiancare, continuare o concludere azioni militari per il mantenimento della pace. L'UE ha una straordinaria occasione di rafforzare la sua politica estera e di sicurezza comune creando un nuovo strumento pratico che potrebbe essere messo a disposizione delle parti belligeranti, prevenire l'escalation della violenza e apportare una soluzione pacifica alle crisi.
Bibliografia
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Per un percorso di autoformazione e formazione alla nonviolenza
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Riviste
- Altreconomia, piazza Napoli, 30/6 – 20146 Milano (http://www.altreconomia.it)
- Alfazeta, C.P. 475 Parma sud-Montebello- 43100 Parma.
- Azione Nonviolenta, via Spagna 8, 37123 Verona (an@nonviolenti.org)
- Carta, via Gran Bretagna, 18 - 00196 Roma (http://www.carta.org)
- CEM-Mondialità, viale San Martino 6/bis, - 43100 Parma.
- Internazionale, viale Regina Margherita, 294 00198 Roma (http://www.internazionale.it).
- Fogli di collegamento degli obiettori, via Scuri 1/c, - 24128 Bergamo.
- Mosaico di Pace, via M.D’Azeglio 46, - 70056 Molfetta, Bari (info@mosaicodipace.it).
- Qualevita, via Buon Consiglio 2, - 67030 Torre dei Nolfi, Aquila.
- Valori, presso Coop. Editoriale Etica, via Copernico 1, 20125 Milano (http://www.valori.it).
- Vita, via Marco D’Agrate, 43 – 20139 Milano (http://www.vita.it)
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- Associazione Obiettori Nonviolenti e Centro Eirene, via E. Scuri 1/c 24128 Bergamo (tel. 035/260073, fax 035/403220).
- Ass. Peace Brigades International (PBI), contrà Mure Pallamaio n. 57, 36100 Vicenza.
- Associazione per la Pace, via Salaria, 89 00198 Roma (tel. 06/8841958; fax 06/8841749).
- Beati i costruttori di pace (BCP), via Antonio da Tempo, 2 35139 Padova (tel.049/8070699; 049/7803370).
- Caritas – Progetto Caschi Bianchi: Alessio Inzaghi, 06-54192247,
- Coordinamento Nazionale OSM, c/o LOC Nazionale, via M. Pichi, 1 – 20143 Milano (tel. 02/8378817, fax 02/58101220).
- - Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII - Servizio Obiezione e Pace - ha Sede Centrale in via Calamino n.18 - 47854 S.Savino di Montecolombo (Rimini) Tel.0541/985750
Fax. 0541/985298 e-mail: odcpace@apg23.org
Operazione Colomba – Caschi Bianchi, Giovanni Grandi e Samuele Filippini, via della Grotta Rossa 6, 47900 Rimini (RN), tel.0541/751498/753619, fax 0541/751624.
- Corpo Civile Europeo di Pace e Centro Studi Difesa Civile, Davide Berruti – Alessandro Rossi c/o Assopace, via Salaria 89; 00198 Roma; tel.06/8841958; fax 06/8841749.
- Banca Popolare Etica S.c. a r.l., piazzetta Forzatè, 2 35137 Padova, tel.049/8771111; fax 049/664922.
- GAVCI,via Selva Pescarola, 24 40131 Bologna (tel. 051/6344671, fax 051/6344671).
- Associazione Berretti Bianchi, via F. Carrara 209, - 55042 Forte dei Marmi Lucca (tel. 0584/756758; fax 0584/735682).
- Lega Obiettori di Coscienza, via M.Pichi 1, - 20143 Milano (tel. 02/8378817).
- Movimento Internazionale della Riconciliazione (MIR), via S.Francesco de Geronimo 3, - Casella Postale AP 8, - 74023 Grottaglie TA, (tel./fax. 099/8662252, all’attenzione di Etta Ragusa).
- Movimento Nonviolento
(MN), via Spagna n.8 37123 Verona (tel.045/8009803, fax 045/8009212).
- Pax Christi, via Petronelli, 6 70052 Bisceglie (BA); tel.080/3953507; fax 080/3953450.
- Coordinamento Obiettori Forlivesi, presso Centro Pace via Andrelini 59, 47100 Forlì.
- Rete di Educazione alla Pace (REAP), stradone Farnese n.74, 29100 Piacenza (tel.0523/27288, fax 0523/457627). Si propone di coordinare tutti coloro che lavorano, in particolare, nelle scuole e nelle istituzioni educative.
- Servizio Civile Internazionale (SCI), via dei Laterani n.28, 00184 Roma (tel.06/7005367).
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