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Pensieri sulla guerra

Riflessioni sui tempi presenti
10 novembre 2004
Carmine Ferrara

Mi è capitato di leggere osservazioni sulla guerra, nel senso universale del
termine, secondo cui essa è nata con l’uomo e scorre nel sangue di ogni
essere vivente sul pianeta. Da quando si formarono le prime tribù, i
primissimi villaggi della preistoria, la guerra ha rappresentato lo
strumento più potente di difesa. Ma la costruzione di un assetto militare
nelle comunità primitive ebbe un senso solo dal momento in cui, causa danni
provocati dagli agenti atmosferici, restavano danneggiati i propri raccolti,
e per rimediare alle perdite la popolazione decideva di attaccare i villaggi
limitrofi per rubarne le ricchezze. Fu solo successivamente che la guerra
divenne strumento di conquista territoriale e di egemonia
politico-economica. In molti sostengono che gli animali stessi affrontino la
vita quotidiana sempre sull’onda della guerra, della violenza. Eppure
esiste, in verità, una profonda differenza tra la società di oggi e quella
degli uomini primitivi, così come esiste una diversità profonda tra noi e
gli animali. Nel primo caso la differenza sta in millenni di storia, di
esperienza sociale dell’uomo. Millenni in cui non si è capito che le ragioni
di non conflittualità tra i popoli non sono da ricercarsi nel contesto
politico, sociale, economico di un paese. Non esistono guerre giuste o
sbagliate, perché prima di ogni altra cosa, il principio su cui deve
fondarsi una società civile è quello della fratellanza. Questo principio, al
contrario di quanto pensino le autorità politiche di tutto il mondo non va
reso, promulgato, diffuso con interventi politico-militari, perché è un
principio che alberga nel senso stesso che ciascuno di noi ha della vita.
Ciò vuol dire che il senso di pace e giustizia sociale non devono essere
emanati quali regole della convivenza, ma devono scaturire spontaneamente
dal profondo degli uomini, in ogni momento della giornata, in qualsiasi
intervento, azione si possa intraprendere. Le leggi, la politica non
sopprimeranno il male che c’è negli uomini, potranno solo oscurarlo,
nasconderlo, ma prima o poi un rovesciamento della situazione si avrà e si
tornerà alla guerra. Dunque se la politica non può svolgere in questo un
compito efficace, come agire? Occorre un costante processo di
sensibilizzazione delle masse. La storia ci ha spesso insegnato quanto la
folla sia suscettibile, quanto poco basti per trasformare estremismi
politici in interventi bellici, talvolta una frase pronunciata da un grande
leader, un discorso, un libro. Procedere con la diffusione culturale dei
principi suddetti è il metodo giusto di azione. Il che non significa credere
in un mondo immaginario, inesistente, né avere in mano le chiavi del
successo, del mondo perfetto. Io sono del parere che una sola battaglia
fermata vuol dire centinaia di morti in meno, vuol dire rendere consapevoli
le genti che vivere la pace non è un sogno, ma una realtà. Da ciò è evidente
quanto io creda nelle manifestazioni di piazza, quanto ritenga significativi
i movimenti di pacifismo dei nostri giorni. Essi non sono certamente
soluzioni immediate, né è giusto che lo siano. Questo perché manifestare in
piazza il proprio dissenso contro la guerra non vuol dire provare a bloccare
istantaneamente le ostilità nel mondo, non vuol dire avviare un piano
diplomatico che risolva le questioni, come molti politici pensano,
significa invece sviluppare una mentalità, creare una coscienza volte ai
valori della pace e della buona convivenza; significa scrivere
indelebilmente nella storia il dissenso personale alla violenza nel mondo;
significa educare se stessi e le generazioni future a credere in un mondo
diverso.
Nell’era della comunicazione la diffusione di idee, opinioni ed altro ha
assunto potenzialità smisurate. Basti pensare al ruolo che la televisione
riveste nella nostra società. Essa ha influenzato, condizionato, nel bene e
nel male, diverse generazioni. Un giovane che oggi accende la tv, cosa ha da
imparare? Senza neppure accingermi a questa risposta cerco di arrivare al
punto della situazione. Se gli stessi personaggi politici del panorama
nazionale, diversi giornalisti, uomini di spettacolo esprimono giudizi
incerti sulla guerra, se essi per primi sono incapaci di credere fermamente
nel concetto di pace, quale può essere l’influenza su milioni di spettatori?
La realtà che i mass-media ci presentano è una realtà travisata, falsata,
quasi inesistente. Non è difficile rendersene conto. Mentre da mesi va
avanti la “commedia televisiva” sulla campagna elettorale di Bush e Kerry,
mentre Rumsfeld riflette su quali fantomatiche cause della guerra possano
illudere i cittadini; mentre egli stesso ci mostra alternatamente due volti
di questa guerra, prima affermando un rapido successo delle forze militari
statunitensi, poi riducendosi alla constatazione di impossibile
completamento dell’opera… mentre vanno in onda, dicevo, queste sceneggiate
sul panorama internazionale, in quei luoghi, in Iraq, muoiono e restano
ferite persone, si assiste quasi quotidianamente a rapimenti di soldati,
volontari, si violano ogni momento i principi della Dichiarazione Universale
Dei Diritti Umani. Ovvio che le mie considerazioni non vogliono sminuire il
ruolo comunque indispensabile della politica sul piano internazionale per la
lotta al terrorismo. Ma le sue funzioni devono necessariamente abbracciare
strategie culturali. Dunque ribadisco l’importanza dell’opinione pubblica,
delle manifestazioni di piazza in cui si ritrovano ideali che sembravano
essere svaniti e lo ribadisco sulla base di una convinzione: anche alle
soglie di un mondo che è cambiato una politica senza ideali non è politica.
Inoltre tutto ciò richiede una presa di coscienza del piano formativo ed
istruttivo di tutti i paesi del mondo. Vanno, infatti, educati i
giovanissimi, nelle scuole e nei luoghi di formazione adolescenziale,
educati secondo i precetti del vivere nella solidarietà verso il prossimo,
nella fratellanza, educati ai valori dell’antirazzismo, della pace,
dell’uguaglianza tra i popoli. I ragazzi devono conoscere le realtà in cui
vivono, avere la possibilità di formarsi un giudizio critico su ciò che
accade in altre parti del mondo, cose in cui la tv oggi, ribadisco, non è di
alcun aiuto. Senza inoltrarmi sul tema di cui sopra, mi accingo a discutere
di un altro pensiero letto di recente. Opinione di qualche giornalista è che
l’uomo non possa sottrarsi alla guerra, così come gli animali che di guerra
vivono, perché essi stessi, gli uomini voglio dire, sono, in fondo, animali.
Ma un uccello che mangia un insetto, il leone che afferra la gazzella non
sono atti di guerra. Sono azioni che rispondono all'istinto di
sopravvivenza, ed è diverso. E' diverso perché è proprio in questo che
l'uomo si distingue dall'animale. Un atto di violenza diventa guerra se
c'è coscienza di tale atto. L’animale non sa che uccidere è un atto
immorale. L'uomo lo sa, e quando uccide, non sempre lo fa perchè risponde
ai suoi istinti, lo fa per ragioni politiche, religiose, economiche, questo
è il punto della situazione. Quando l'uomo compie un atto di violenza e lo
fa nella presa di coscienza dell'ingiustizia che ne è alla base, allora
l'atto diventa guerra.

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