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Annuario della pace 2004

L’altro Israele dei refusenik

30 novembre 2004
Alessandra Garusi

Basta con gli omicidi mirati. Ventisette piloti riservisti dell’aeronautica israeliana, alcuni in servizio attivo e altri in pensione, in una lettera di protesta, hanno comunicato il loro “no” a compiere altre esecuzioni di leader palestinesi. La notizia è stata data il 25 settembre 2003 dal secondo canale della televisione commerciale. I piloti, tutti rigorosamente in divisa e di spalle, hanno ascoltato il loro portavoce leggere la lettera consegnata il giorno prima al generale Dan Halutz, capo dell’Air force: “Noi, piloti di notevole anzianità e tuttora attivi, ci rifiutiamo di compiere attacchi illegali e immorali, come quelli che Israele conduce nei Territori”. Le operazioni nei Territori, e in particolare gli omicidi mirati, sostengono i piloti ‘ribelli’, coinvolgono troppo spesso degli innocenti: “Noi, che siamo stati educati ad amare lo Stato d’Israele, ci rifiutiamo di prendere parte agli attacchi aerei contro centri abitati dalla popolazione civile”. Tra i militari che si sono esposti con questo documento, figura anche l’ufficiale Yiftah Spector, che fu alla guida di uno squadrone di aerei da combattimento durante la guerra del Kippur, nel 1973. Il rischio per lui come per gli altri ventisei – nel momento in cui fossero richiamati in servizio e si rifiutassero di attaccare i Territori – è il carcere militare.
La protesta dei piloti, la prima nella storia di Israele, ha scatenato durissime reazioni da parte del governo israeliano. Anche quella dei vertici militari non s’è fatta attendere. “È inaccettabile usare le proprie divise per perseguire un obiettivo politico come questo”, ha commentato Moshe Yalon, capo di Stato maggiore israeliano.
L’iniziativa ricorda il documento dei 52 riservisti dell’esercito (oggi diventati centinaia), che il 25 gennaio del 2002 spiegarono così sui quotidiani israeliani il loro rifiuto di prestare servizio nei Territori occupati: “Abbiamo visto con i nostri occhi il sangue versato da entrambe le parti. Il prezzo dell’occupazione nei Territori è la perdita del carattere umano dell’esercito dello Stato ebraico e la corruzione della società israeliana. Non siamo più disposti a dominare un altro popolo, a espellere, affamare, umiliare i palestinesi”.
Questo è solo l’ultimo capitolo di una lunga storia, quella dei refusenik (riservisti) israeliani. All’inizio, durante gli anni ‘70, nei primi anni dell’occupazione, erano pochissimi, poi furono pochi di più, poi una decina, poi una ventina. La guerra in Libano del 1982 diede l’avvio alla formazione di Yesh Gvul (“C’è un limite!”) e ora, con il sostegno di un gruppo politico organizzato, centinaia sono arrivati a rifiutare la partecipazione a quella che considerano una campagna criminale. Ad oggi sono 1.327 gli israeliani che hanno espresso il loro “rifiuto” a prestare servizio nei Territori occupati.
Una diserzione che non è rimasta impunita: dall’inizio dell’Intifada almeno 200 soldati e ufficiali, tra coscritti e riservisti, sono stati condannati a vari periodi di detenzione a seconda del loro grado di diserzione. Non pochi sono stati imprigionati più volte. Attualmente dietro le sbarre ci sono Haggai Matar, Adam Maor, Noam Bahat, Matan Kaminer, Shimri Tzameret, Yaniv Kellner, Daniel Tzal.
Di seguito due interviste, pubblicate anche sul sito internet www.peacereporter.net: al capitano Yonatan, uno dei 27 piloti “obiettori di coscienza”, ed a Yuval Lotem, 46 anni, tenente riservista che dal 1982 si rifiuta di prestare servizio nei Territori occupati.

Capitano Yonatan: sono sionista, ma dico basta agli omicidi mirati
nei Territori

“Tutto quello che stiamo facendo è per Israele, per il bene del nostro popolo. Non siamo contro il nostro Paese, ma solo contro le azioni fatte dal governo Sharon”. La voce del capitano Yonatan – uno dei piloti che, il 24 settembre 2003, in una lettera al capo delle Forze aeree israeliane, generale Dan Halutz, hanno pubblicamente annunciato l’intenzione di rifiutarsi di prendere parte a bombardamenti o agli “omicidi mirati” nei Territori palestinesi – arriva forte e chiara. Ci risponde al telefono portatile, pregando di omettere il suo cognome. Una preoccupazione, la sua, comprensibile, visto il clamore provocato in Israele dalla lettera e vista, soprattutto, la reazione del generale Halutz. “Tratteremo questi vigliacchi come meritano”, aveva detto stizzito. “Sono un cancro e non potranno certo rimanere nell’esercito“. Questo capitano di 32 anni, che da dieci fa il pilota in aeronautica, da quattro è nella riserva e dopo questo gesto potrà solo lavorare per compagnie civili (ha pagato con l’espulsione), racconta invece una storia diversa. Fatta di senso di responsabilità per le generazioni future. Di coraggio e di ottimismo.

Per quale ragione, ha deciso di sottoscrivere questa lettera?
Ho preso questa decisione perché come sionista, come capitano dell’aeronautica e come cittadino, ho sentito di avere un’enorme responsabilità per quello che il mio Paese sta facendo e per le generazioni future. Sono un giovane israeliano, poco più che trentenne, e la mia intenzione sarebbe quella di continuare a vivere qui, anche un domani. Devo assumermi quindi la responsabilità di come apparirà in futuro questo Stato. Non mi piacciono per niente le sue sembianze di oggi.

C’è stato un fatto, qualcosa o qualcuno che ha avuto un peso particolare in questa decisione?
Qualsiasi decisione che uno prende nella propria vita è il risultato di una catena di eventi. Abbiamo iniziato a pensare a questo gesto circa un anno e mezzo prima di quando poi l’abbiamo effettivamente messo in atto. Il punto era questo: volevamo rifiutarci di servire al di là della Linea verde (1967). Cioè niente più omicidi mirati nei Territori. Ho visto con i miei occhi che cosa è stato fatto, giorno dopo giorno, dall’aviazione e dall’esercito sul terreno. E, semplicemente, ai piloti firmatari è parso che fossimo in un vicolo cieco: continuando con azioni del genere non si arriva da nessuna parte. Molta gente in Israele non vuole vedere la realtà: chiude gli occhi di fronte al disastro che è già in atto. Per questo abbiamo deciso che era il momento di dare un segnale forte.

Quali sono state le conseguenze del suo gesto?
Siamo stati chiamati dal capo delle Forze aeree israeliane, generale Dan Halutz, il quale ci ha congedato. Di sicuro ciò si ripercuoterà pesantemente sulla nostra vita privata: ci guadagneremo da vivere volando per compagnie civili.

Gli israeliani hanno capito?
Solo in parte. È difficile che l’opinione pubblica israeliana comprenda e accetti la nostra scelta. Ma, dal nostro punto di vista, la situazione era ormai insostenibile.

Pensa che anche altri piloti sottoscriveranno questa lettera?
La reazione da parte dei vertici dell’aeronautica è stata durissima. E questo è dovuto, in parte, al fatto che temono un allargamento a macchia d’olio della protesta. Quindi penso che forse l’effetto vero si vedrà nell’opinione pubblica israeliana e nelle reazioni a catena all’interno dell’esercito – dalle unità da combattimento al gruppo unico d’élite e altri ancora – che si avranno nei prossimi mesi. Nell’aeronautica sempre più piloti si rifiuteranno di portare a termine gli omicidi mirati nei Territori; e questo rifiuto, alla fine, dovrà essere accettato, anche se non sono poi così sicuro che molti altri si uniranno a noi nel giro di poco tempo. Saranno tanti solo se riprenderanno gli attacchi massicci: nel caso il terrorismo palestinese si scatenasse di nuovo, questo produrrebbe una violentissima reazione da parte israeliana; e allora si dissocerebbero in tanti a Tel Aviv.

Ha un sogno, qualcosa che vorrebbe raggiungere nei prossimi anni?
Naturalmente, ce l’ho. Tutti ce li hanno... Ma in Israele la gente sta cominciando a perdere la speranza e anche la capacità stessa di sognare. La ragione per la quale ho fatto questo gesto è proprio perché voglio mantenere una visione ottimista della realtà. Il mio sogno è che il governo israeliano cambi radicalmente indirizzo politico, che esca dai Territori e smantelli tutti gli insediamenti. Penso che dobbiamo farlo comunque, senza esitazioni. Il cambiamento deve iniziare ora, soprattutto per le giovani generazioni che, dall’una e dall’altra parte, sono così emotivamente scosse, piene d’odio, da non sopportare più la vista del sangue. Il mio sogno è che gli israeliani possano vivere pacificamente accanto ai palestinesi. So che sto parlando di un giorno molto lontano; ma perché questo possa avverarsi in futuro, bisogna iniziare oggi. Il futuro può essere nerissimo, se il presente è drammatico.

Yuval Lotem: c’è un limite, anche all’obbedienza

Tenente riservista, Yuval Lotem, 46 anni, si rifiuta dal 1982 di prestare servizio nei Territori occupati. È uno dei nove soldati israeliani intervistati da Ronit Chacham nel suo libro, Rompere i ranghi. Essere refusenik nell’esercito israeliano (Fayard). La sua storia è stata raccontata anche da Peretz Kidron nel libro, Meglio carcerati che carcerieri. I refuseniks israeliani raccontano la loro storia (Manifestolibri).
Da dove nasce il suo rifiuto a prestare servizio nei Territori occupati?
Sono diventato un refusenik principalmente per egoismo: per poter continuare a guardarmi nello specchio. E, tuttavia, era dalla mia più tenera infanzia che sognavo di diventare un soldato. A scuola sognavamo di batterci e di poter dare la vita per il nostro Paese. In Israele, sin da bambini, si impara prestissimo che l’esercito ha sempre ragione, che gli arabi avevano sempre torto e che il mondo intero era contro di noi. Quindi, bisognava fare muro: difendersi senza porsi troppe domande. Non avevo che 16 anni nel 1973, ma già allora impazzivo all’idea di non potermi battere. Per poter prendere le distanze da uno stato d’animo del genere, ho dovuto aspettare i primi viaggi all’estero, dopo tre anni e mezzo di servizio militare. Non sono diventato un pacifista ma, nel 1982, sapevo che non avrei partecipato alla guerra in Libano. Non era una guerra di difesa. È allora che decisi di aderire a Yesh Gvul, un gruppo che si batte contro l’occupazione e raggruppa i soldati che si rifiutano di servire in un contesto repressivo. In ebraico, yesh gvul significa sia “c’è un limite” che “c’è una frontiera”. Intendiamo dire che c’è un limite all’obbedienza degli ordini, visto che le frontiere del nostro Paese definite prima della guerra del 1967 non sono in pericolo.

Di recente, 27 piloti della riserva israeliana hanno formalmente reso noto di non essere disposti ad eseguire in futuro “esecuzioni mirate” di militanti palestinesi nei territori. Qual è la sua opinione in proposito?
In genere, i soldati seguono gli ordini, il consenso. Avere invece gente così, che compia un passo di questo tipo, è importante. Sono sicuro che farà sì che altri si pongano il problema e facciano una scelta controcorrente. Questi sono piloti, persone professionalmente molto preparate, che amano il loro lavoro e lo fanno da una vita. Sono rimasto colpito, perché i firmatari di questa lettera rischiano parecchio: di perdere il loro posto, il rispetto e l’ammirazione almeno di una parte dell’opinione pubblica israeliana.

Non pensa che ci possa essere una svolta nella politica israeliana?
No. Siamo purtroppo ancora molto lontani da una cosa del genere. Solo un Primo ministro, per ragioni proprie, può imporre un drastico cambiamento di rotta. Ed è difficile che si faccia influenzare da un gruppo di piloti. Ma mostra un fenomeno che fino a poco tempo fa era quasi inavvertibile. Già 21 anni fa, quando durante la guerra del Libano si forma Yesh Gvul, c’erano stati dei piloti che si erano rifiutati di volare sopra Beirut. Oggi i piloti che hanno sottoscritto il documento sono 27. E, fra loro, c’è Yiftah Spector, un capo pattuglia durante la guerra dello Yom Kippur, nel 1973.

Il movimento dei refusenik avrà maggiori possibilità di incidere sulla realtà israeliana, se personaggi come Yiftah Spector daranno pubblicamente il loro appoggio?
Quello di Yiftah Spector è senz’altro un nome che avrà il suo peso in questa storia. Che un pilota provetto, con centinaia di ore di volo alle spalle decida di aderire, significa: combatti, accetti le regole di questo Stato, ma nello stesso tempo decidi che “c’è un limite” oltre il quale non è lecito andare.

I veri cambiamenti in Israele arriveranno in seguito a pressioni dell’esercito, o di parte di esso, piuttosto che per la volontà di leader politici?
In Israele, è in gran parte la gente comune a prestare servizio nell’esercito. Ognuno lo fa per tre anni e mezzo; e poi resta disponibile come riservista ogni anno per un altro mese. Quindi non si può dire che l’esercito sia un’entità a sé stante rispetto alla società civile e allo stesso mondo politico. Molti ex generali, a fine carriera, si mettono in politica. Non è un caso.

E tuttavia un movimento come quello dei refusenik appare molto distante dagli uomini dell’attuale amministrazione israeliana...
Quello dei refusenik rappresenta comunque una piccola minoranza. Anche in ambito politico si possono trovare dei leader con idee molto vicine alle nostre. Ma si tratta pur sempre di minoranze. E le minoranze sono presenti ovunque: dalla cultura all’esercito, alla società civile.

Qual è oggi la reazione dell’opinione pubblica israeliana e come è cambiata rispetto al 1982?
Per molto tempo, siamo stati considerati una specie di ‘quinta colonna’. Ci dicevano che eravamo un cancro dentro Israele. Le cose sono un po’ cambiate, ma per la maggioranza degli israeliani restiamo un’aberrazione. Mi ricorderò sempre la reazione di una giovane ufficiale donna, quando le dissi che non avrei prestato servizio nel carcere di Mejiddo (situato all’interno della Linea verde). Sapevo che là avrei trovato dei detenuti amministrativi, cioè dei palestinesi imprigionati senza processo anche per vari anni. Lei mi guardò stupefatta e mi disse: “Ma che ti prende? Siamo uno Stato democratico. Tutto quello che succede a Mejiddo, è conforme alla legge…”. Molti israeliani ritengono che coloro che non la pensano come loro siano degli antisemiti o degli ebrei affetti dalla sindrome dell’‘odio di sé’. Bisogna finirla con questa storia. Questo stato d’animo tribale mal s’adatta ad un Paese democratico come il mio. Io, voglio semplicemente che gli arabi sappiano che esiste un’altra voce in Israele.

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