Sudan, una pace tormentata
Nel 2004 il Sudan è tornato ad essere, ancora un volta, una fra le situazioni di crisi politica ed “emergenza umanitaria” più gravi nel mondo. Eppure quest’anno rischia di essere ricordato come l’anno della pace, l’anno della firma di quel ‘pezzo di carta’ che dovrebbe porre fine a oltre 20 anni di guerra civile.
Darfur
“L’emergenza umanitaria” è quella del Darfur, la terra dei fur (ma anche dei masalit e degli zaghawa, per citare solo due degli altri gruppi etnici presenti nell’area) ai confini con il Ciad.
Il Sudan ha 30 milioni di abitanti ed è grande otto volte l’Italia: il più vasto Paese d’Africa. In questo immenso territorio proprio il rapporto tra il centro - rappresentato dalla capitale Khartoum - e le diverse periferie - a sud, a ovest e anche a est - è uno degli snodi principali per analizzare la tormentata storia recente del Paese.
Tra maggio e giugno Mukesh Kapila, coordinatore degli aiuti Onu in Sudan, definisce quella del Darfur “la più grave crisi umanitaria al mondo”, e per Ramiro Lopes da Silva, direttore del Programma alimentare mondiale (Pam) in Sudan, la situazione diventa “ogni giorno sempre più critica e il peggio deve ancora venire”.
Ad alcuni tra gli osservatori più attenti e costanti degli avvenimenti sudanesi può forse apparire un amaro paradosso questo regolare ritorno di carestie e malattie che costituiscono “l’emergenza umanitaria” (basti ricordare l’estate del 1998). Ma se un emergenza è ciclica, rimane ancora tale o forse si dovrebbe parlare di una debolezza strutturale della società e del territorio, la cui causa prima non può che essere una ventennale guerra civile? In ogni caso il Sudan rimane uno degli esempi più illuminanti in Africa, e forse nel mondo, della commistione tra “emergenza umanitaria”, guerra civile, congiunture internazionali.
Nonostante la Fao avesse previsto per il 2004 un raccolto record di cereali (oltre l’80% è sorgo), il 63% in più dell’anno scorso e il 47% oltre la media degli ultimi 5 anni, circa 3 milioni e 500mila sudanesi avranno bisogno di cibo: il tutto è causato, direttamente o indirettamente, dai conflitti in corso.
A fine giugno Emma Bonino scriveva sul “Corriere della Sera”: “Dopo mesi di totale indifferenza - dovuta anche all’assenza di immagini provenienti dal teatro della crisi, ad ulteriore conferma di quanto i regimi autoritari siano diventati maestri in questo settore - le istituzioni internazionali ed i governi si stanno muovendo, anche se troppo tardi [...]. Per mesi e mesi si è traccheggiato, si è perso tempo, si è creduto a vere e proprie menzogne sulla reale situazione nel Darfur, non si è voluto vedere quanto stava accadendo, esattamente come è avvenuto in occasione di tanti illustri precedenti di genocidi e massacri avvenuti sotto gli occhi della comunità internazionale”. L’ex commissaria europea per gli aiuti umanitari continuava: “È in corso un’altra guerra ‘etnica’ ed è urgente condannare con voce univoca il comportamento del regime di Khartoum, obbligandolo a garantire ai convogli umanitari il pieno accesso alle vittime e a favorire il cessate-il-fuoco nella regione, nonché a imporre sanzioni esemplari nei confronti di coloro che si sono macchiati, anche come mandanti, dei terribili massacri indiscriminati e degli stupri di massa che sono stati materialmente compiuti, nella più totale impunità, dai guerriglieri Janjaweed, le milizie armate e finanziate dal governo”. La conclusione? “Occorre agire subito, anche se nel Darfur non ci sono i cameraman della Cnn”.
A maggio il mensile “Le monde diplomatique”, ripreso in Italia dal quotidiano “il manifesto”, pubblicava un dettagliato articolo di Jean-Louis Péninou sugli antefatti della crisi del Darfur, dove si sostiene che “in pochi mesi i conflitti tribali che da vent’anni scandiscono l’attualità del Darfur si sono trasformati in una cruenta guerra civile” e si offre una spiegazione dell’origine del conflittualità locale: “Al centro e al sud, lontano dalle zone più irrigate, convivono tribù pastorali e popolazioni contadine che regolarmente si scontrano, soprattutto quando le piogge si fanno rare. Il Darfur conta numerose tribù. Tutte sono musulmane, ma l’arabo è la madrelingua solo per una minoranza di darfuriani. Le tribù ‘arabe’ o definite tali dai loro avversari sono in genere nomadi, dedite all’allevamento di cammelli a nord e di mucche a sud. In alcuni casi anche le tribù ‘africane’ si dedicano alla pastorizia, ma il più delle volte lavorano la terra.
In ogni modo a Khartoum tutte queste tribù sono considerate con disprezzo. La cronaca del Darfur è quella di conflitti fra allevatori, alla ricerca di acqua e di pascoli, e contadini che proteggono i loro campi e i loro miseri beni. In questo Paese povero di risorse, completamente privo di infrastrutture e lasciato all’abbandono, l’esplosione demografica (la provincia conta 6 milioni di abitanti, il doppio rispetto a venti anni fa) ha reso più violenta la competizione per l’acqua e lo spazio [...]. Dalla grande siccità e con la carestia della metà degli anni Ottanta il Darfur è in crisi”.
Eppure la guerra in Darfur era iniziata da tempo. Nel febbraio 2003 il Fronte di liberazione del Darfur (Fld), guidato da Abdel Wahid Mohamed Ahmed Nur, inizia la rivolta armata contro il governo centrale di Khartoum; si trasforma in Esercito di liberazione del Sudan (Als) e si allea al Movimento per la giustizia e l’uguaglianza (Mje) che combatte poco più a nord.
L’esercito di Khartoum non riesce a contrastare la rivolta, e sempre più si affida alle milizie Janjaweed, che saccheggiano i villaggi, uccidono civili e violentano sistematicamente le donne. Si calcola che in 16 mesi tra 700mila e un milione di civili siano stati costretti ad abbandonare case e villaggi (la popolazione complessiva del Darfur è stimata tra i 6 e i 7 milioni di sudanesi); tra questi circa 100mila hanno attraversato il confine per rifugiarsi in Ciad, a volte portando con sé le mandrie di cammelli e capre. La frontiera tra Ciad e Sudan è lunga quasi 600 chilometri, impossibile controllarla tutta: i profughi passano alla spicciolata, e talvolta anche le bande che combattono al di qua e di là del confine. Il flusso di profughi sembra essersi rallentato a maggio in seguito alla terra bruciata compiuta dalle milizie: molti villaggi del Darfur sarebbero ormai abbandonati e o distrutti.
Il Darfur è una regione agricola (anche se il nord Darfur è desertico e tutto il territorio è stato colpito più volte dalla siccità) dove i contadini talvolta si definiscono ‘africani’ in contrapposizione agli allevatori ‘arabi’. I conflitti tra allevatori e contadini, in particolare per l’accesso ai pozzi e il controllo delle risorse idriche, sono endemici e antichi come il tempo. Oggi però gli abitanti locali (in buona parte di etnia fur) corrono il rischio di essere sottoposti a una sorta di pulizia etnica da parte delle milizie ‘arabe’. L’Alto commissariato per i rifugiati (Acnur) parla di “crimini di guerra e crimini contro l’umanità”; e persino Kofi Annan ha ipotizzato “il rischio di genocidio”.
Per Amnesty International uccisioni, stupri, sequestri, incendi di villaggi e saccheggi intendono “umiliare la popolazione civile, distruggere la vita comunitaria e spopolare il territorio”. Per Human Rights Watch “il governo sudanese è responsabile di pulizia etnica e di crimini contro l’umanità. Nel Darfur vige il terrore”.
Musulmani contro musulmani dunque, in quello che rischia di diventare l’ulteriore dimostrazione che il centro del problema della guerra civile in Sudan è la questione politica, la condivisione del potere e della ricchezza, il rapporto potere centrale/periferia: non solo e non tanto lo scontro tra nord arabo e musulmano contro sud africano e cristiano, come altri osservatori invece continuano a sottolineare.
Tra fine giugno e inizio luglio il Darfur è stato luogo di visite illustri. Il segretario generale dell’Onu, Kofi Annan, il 1° luglio da un campo profughi vicino a el-Fasher, capitale del Darfur del nord, dichiarava: “Il governo deve domare le milizie Janjaweed e non combattere al loro fianco”. Il numero uno dell’Onu aveva appena incontrato il governatore del nord-Darfur, Mohammad Osmane Kibir, insieme al ministro degli Interni sudanese, Abdel Rahim Hussein.
Negli stessi giorni era in Sudan anche il segretario di Stato americano Colin Powell, che in un colloquio con il presidente sudanese Omar el Beshir ha esposto le tre priorità degli Usa: frenare l’offensiva delle milizie Janjaweed; consentire agli operatori umanitari di potere lavorare nella regione; avviare negoziati con i due gruppi ribelli.
Pochi giorni prima aveva visitato la regione il presidente della Commissione dell’Unione africana, Alpha Oumar Konaré, esprimendo la consapevolezza da parte di tutti gli Stati africani della gravità della crisi.
Eppure per quasi due mesi Khartoum aveva bloccato l’accesso agli aiuti: secondo alcuni operatori umanitari 350mila persone rischiano di morire di fame e malattie entro la fine dell’anno. La storia recente del Sudan ha dimostrato sia che simili ecatombi sono sempre possibili nel Paese, sia che i numeri dei disastri umanitari sono stati, talvolta anche in buona fede, spesso strumentalizzati. È forse opportuno dunque prendere tutte le cifre relative a sfollati, rifugiati e vittime con una certa prudenza.
Uno dei motivi del ritardo con cui la comunità internazionale ha manifestato la propria preoccupazione per ciò che accadeva in Darfur è forse anche l’attesa e la speranza della firma di un trattato di pace globale nel Paese.
La pace
Il 26 maggio il Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite ha diffuso un comunicato ufficiale nel quale si invita Khartoum a rispettare la promessa di disarmare le milizie Janjaweed e di migliorare le condizioni di accesso degli operatori umanitari nella zona. Nello stesso giorno venivano firmati a Naivasha (in Kenya) i protocolli di intesa relativi alla suddivisione del potere e la definizione dello status delle tre aree contese.
La guerra civile scoppiata nel 1983 tra governo centrale di Khartoum e Spla/Splm (Esercito/Movimento di liberazione popolare del Sudan) ha finora provocato, direttamente o indirettamente, circa 2 milioni di morti.
Durante i colloqui di pace iniziati nel 2003 e proseguiti nel 2004 John Garang, leader storico dell’Spla, e Omar el Beshir, già generale golpista e oggi presidente del Sudan, hanno trovato il modo di spartirsi il potere politico e quello economico (accordo del 7 gennaio). Dopo un periodo di definizione tecnica degli accordi di sei mesi inizierà una transizione di sei anni, in cui Beshir (o chi per lui) rimarrà presidente del Sudan e Garang vicepresidente. Nord e sud Sudan godranno di ampie autonomie all’interno di uno Stato unico: due sistemi bancari, due amministrazioni locali, due governi locali. Capitale rimarrà Khartoum, con la promessa che la legislazione islamica (sharia) non potrà essere applicata ai non musulmani. Un censimento di tutta la popolazione sudanese dovrà essere condotto entro la fine del secondo anno.
Nell’assemblea nazionale il 52% dei seggi verrà assegnato alla fazione governativa, il 26% all’Spla e il rimanente ad altri gruppi antigovernativi.
Una Commissione nazionale sulla terra gestirà la delicatissima questione della proprietà delle terre più fertili.
Nell’amministrazione civile nazionale almeno il 20% dei posti di lavoro e di responsabilità medio alta dovranno essere assegnati a gente del sud: questo limite minimo arriverà al 25% dopo cinque anni. Lingue ufficiali saranno l’arabo e l’inglese.
Assicurare “l’unità del Paese” e contemporaneamente rispettare e garantire la “diversità dei popoli sudanesi” sembra essere il compito più gravoso che aspetta i prossimi sei anni.
Per quanto riguarda le rendite petrolifere, esse dovranno essere suddivise a metà tra nord e sud (dopo aver lasciato il 2% del valore totale alle regioni produttrici) grazie al lavoro di una Commissione nazionale sul petrolio. Dal 1999, grazie anche agli investimenti cinesi, il Sudan è diventato un Paese esportatore di greggio: un oleodotto congiunge i pozzi a sud di Bentiu con Port Sudan sul Mar Rosso, e oggi la produzione si aggira sui 250mila barili/giorno, con possibilità di forti crescite. I contratti di sfruttamento del petrolio già esistenti non potranno essere rinegoziati, a tutela degli investimenti stranieri nel Paese.
Il 26 maggio si è raggiunto anche un accordo sulla gestione del territorio conteso di Abyei, definito un “ponte tra nord e sud”, sullo Stato del Blue Nile e sui monti Nuba, dove dal 2002 regge una tregua fortemente voluta dagli Usa che in parte è stata presa a modello per l’accordo di pace nel resto del Paese.
È ancora presto per analizzare e valutare nei dettagli gli accordi di pace: bisogna come minimo aspettare la firma definita di quell’accordo globale che tutti aspettano, e il periodo cosiddetto di pre-interim di definizione tecnica di alcuni dettagli.
Fin d’ora è però è possibile esprimere alcuni dubbi: fino a che punto potrà funzionare una pace basata sostanzialmente su un accordo di spartizione del potere (politico ed economico) tra due uomini, Bashir e Garang, e le rispettive cerchie di potere? All’interno delle loro stesse fazioni i due leader sono stati accusati più volte di metodi dittatoriali. La recente storia sudanese ci ha abituati ai più repentini e sconcertanti cambiamenti di alleanze; è cosi difficile prevedere fronde all’interno sia dell’Spla sia del Nc?
Gli esclusi dalla pace, al nord come al sud, come si comporteranno? Si accontenteranno di accaparrarsi le briciole del potere nelle competizioni elettorali o cederanno alla tentazione di prendere scorciatoie violente?
Chi pagherà la pace? Fino a che punto e con quale regolarità Stati uniti e Lega araba, per esempio, metteranno risorse finanziare a disposizione del Sudan per i prossimi sei anni?
E ancora: quello che sta succedendo in Darfur, l’ennesimo conflitto non risolto tra centro e periferia che si è trasformato in locale guerra civile, non poterebbe un domani essere un modello negativo e un arma di ricatto per altre regioni, al nord come al sud, che potrebbero sentirsi trascurate o addirittura discriminate tanto dal governo nazionale nella lontana Khartoum quanto dal governo locale del nord e del sud Sudan?
Sono domande ancora tutte aperte; le risposte sono talmente complesse e le conseguenze talmente rischiose da far sorgere il dubbio che chi ha deciso questa pace cercherà di rimandare a tempo indeterminato la fatica di trovare una soluzione.
Intanto a metà giugno il Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite ha inviato una missione in Sudan per decidere l’invio di caschi blu per mantenere la pace, mentre il vice presidente del Sudan nonché mediatore ufficiale per Khartoum, Ali Osman Taha, ha lasciato intendere che il prossimo agosto sarà firmato l’accordo globale di pace tra governo e Spla. Quante volte però fino ad ora simili ‘indiscrezioni’ sono servite solo a prendere tempo?
Articoli correlati
Spese militari, commercio di armi e campagne per il controllo degli armamenti
Un'anticipazione da "Fare pace: odio. Annuario geopolitico della pace 2007"24 dicembre 2007 - Giorgio BerettaVicenza contro la base: una prospettiva femminile
Un'anticipazione da "Fare pace: odio. Annuario geopolitico della pace 2007"24 dicembre 2007 - Antonella CunicoSud Africa, il prezzo della riconciliazione
Un'anticipazione da "Fare pace: odio. Annuario geopolitico della pace 2007"24 dicembre 2007 - Danilo FranchiUna striscia di futuro: storie di relazioni tra israeliani e palestinesi
Un'anticipazione da "Fare pace: odio. Annuario geopolitico della pace 2007"24 dicembre 2007 - Luisa Morgantini
Sociale.network