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Annuario della pace 2004

Vita da mercenario

30 novembre 2004
Carlo Gubitosa

Criminali, avventurieri o semplici professionisti? La figura dei "soldati in affitto" è avvolta da un alone di mistero e da una fitta coltre di pregiudizi.
Dalle informazioni raccolte da Peter Warren Singer (Soldati in affitto, pubblicato su “Internazionale” n.536,23/29 aprile 2004) si sa che:
– 15mila dipendenti di imprese private sono attualmente presenti in Iraq con un ruolo rilevante nelle missioni militari;
– 30% di riduzione del numero di militari statunitensi presenti in Iraq rispetto a quelli impiegati nella guerra del 1991;
– si stima che dai 30 ai 50 soldati delle compagnie private siano stati uccisi in combattimento dall’inizio delle recenti operazioni militari in Iraq;
– 6 miliardi di dollari - valore dei contratti stipulati dalla compagnia militare privata Halliburton, l’ex-ditta del vicepresidente Usa Dick Cheney;
– 1 milione di dollari all’anno - somma spesa per le azioni di lobbying sui politici dalla Dyncorp, società militare privata della Virginia che ha ottenuto il 96 per cento delle sue attuali commesse grazie al governo federale statunitense;
– 39,2 milioni di dollari - valore dei contratti ottenuti dalla Erinys, una compagnia nata dopo i bombardamenti sull’Iraq, per l’addestramento dei paramilitari messi a guardia dei giacimenti di petrolio.

Per capire meglio cosa si nasconde dietro il fenomeno complesso degli eserciti privati, impiegati per difendere il petrolio o i convogli umanitari a seconda del committente, la cosa migliore è rivolgersi ai protagonisti diretti di questo mondo.

Dopo la sua esperienza nell’esercito regolare, oggi Guido T. è un professionista nel settore dell’addestramento privato e ha deciso di raccontare i retroscena del mestiere di mercenario. La prima impressione che dà a chi lo incontra è quella di un uomo atletico ma non ‘pompato’, con un fisico asciutto e poco appariscente, tutto il contrario dei palestrati con collo taurino che interpretano il ruolo dei soldati di professione nelle produzioni hollywoodiane.
Guido dipinge il mestiere di mercenario con i colori del grigio, con un equilibrio che prende le distanze dal bianco dell’eroismo e dal nero dei crimini di guerra per restituire la reale dimensione di una ‘professione’, al di là dei suoi eccessi. Dal suo punto di vista l’esistenza di compagnie militari private non è un male in sé, ma lo diventa nel momento in cui i servizi di queste aziende vengono impiegati per soddisfare interessi politici, finanziari e criminali che non hanno nulla a che vedere con la ‘democratizzazione’ e la lotta al terrorismo. A lui abbiamo chiesto di illustrarci una ‘terza prospettiva’, diversa da quella del pacifista convinto e del militarista acritico.

Perché hai scelto di diventare un combattente professionista? Quali sono le ragioni che ti hanno spinto a lavorare per molti anni imbracciando un fucile?
Le motivazioni politiche o ideologiche non c’entrano, io sono semplicemente una persona a cui piace l’adrenalina, mi piace sentirmi vivo. Oggi ho cambiato mestiere perché mi sento più tranquillo e ho cominciato a dare valore ad altre cose nella vita, ma quando avevo 22-23 anni mi piaceva sentire l’adrenalina scorrere nelle vene. Per un ragazzo far parte delle forze d’élite è il massimo, è come guidare una formula uno, c’è lo stesso gusto del rischio e di fare una cosa ai massimi livelli.

Qual è stata la tua esperienza professionale nel settore militare pubblico e privato?
Ho lavorato due anni in Colombia, sono stato anche in Somalia e in Egitto a lavorare come sommozzatore, ho lavorato in Marocco e conosco bene i Paesi arabi, in Sudan ho lavorato come operatore per le piattaforme petrolifere e dopo aver trascorso un periodo di studio in California sono tornato in Italia per svolgere attività di addestramento privata, con periodici rientri negli Usa per corsi di pilotaggio avanzati. In particolare, in Colombia ho potuto constatare che c’è un ampio spettro di agenzie che operano sul territorio, perché la situazione si presta perfettamente: ci sono la guerriglia, i paramilitari, i narcotrafficanti, la Cia, l’esercito regolare, le oligarchie, latifondisti con eserciti privati e altro ancora.

Che significato ha per te la parola ‘mercenario’?
Per i giornali la parola ‘mercenario’ è una parola ad effetto, è una parola che viene utilizzata proprio per attirare l’attenzione e suscitare nell’immaginazione del lettore il pensiero di operazioni nella jungla fatte da persone impiegate per assassinare qualcuno a pagamento. In realtà la parola mercenario indica semplicemente una persona che riceve un salario per svolgere attività in cui si utilizzano armi da fuoco, e quindi questa parola vuol dire tutto e niente dal momento che può indicare sia le persone che fanno scorta armata agli operatori umanitari, sia chi fa la guardia alle piattaforme petrolifere, sia i veri e propri killer a pagamento, che oltre ad essere mercenari sono anche criminali e assassini.

Spesso si fa distinzione tra soldati regolari ‘buoni’ che si occupano del peacekeeping rispettando le convenzioni di Ginevra, e mercenari ‘cattivi’ che agiscono senza regole per interessi oscuri. Ma è proprio vera questa distinzione? Ci sono stati dei casi in cui anche gli eserciti regolari sono stati inviati in Paesi esteri per perseguire interessi privati?
Io sono stato quattro mesi impiegato alle operazioni in Somalia, realizzate dall’Italia a partire dal febbraio del 1993, la famosa Operazione Ibis di peacekeeping. Oggi nessuno sa o ricorda perché siamo andati a fare quel tipo di operazione. La motivazione ufficiale riguardava la gestione di un vuoto di potere, del caos e dell’anarchia creati in Somalia dai cosiddetti warlords, i signori della guerra. Ma quella situazione non era nuova, in Somalia la legge del più forte regnava da decenni. Possono dire quello che vogliono, ma l’operazione in Somalia è stata realizzata per il controllo del traffico delle armi, per recuperare il controllo su una situazione e su un mercato che erano sfuggiti di mano a causa delle eccessive pretese dei warlords. La cosa che mi fa più piacere è pensare che la mia squadra non si è mai macchiata di nessun tipo di azione assurda come quelle del carcere di Abu Ghraib, o le torture portate a termine dagli stessi soldati italiani in Somalia. Le guerre rivelano il meglio e il peggio degli uomini, e noi siamo stati fortunati in questo senso.

Il sequestro degli ostaggi italiani ha portato alla ribalta l’esistenza delle compagnie militari private, sulle quali si è detto tutto e il suo contrario. Dal tuo punto di vista quali sono i veri problemi relativi al cosiddetto ‘business della sicurezza’?
Le compagnie militari private agiscono in uno spettro vastissimo, che va dalla scorta alla Ong fino al consulente strapagato dell’emiro arabo. Negli Stati uniti queste agenzie esistono da molti anni, e hanno fatturati eccezionali. Quello che mi ha dato più fastidio è la sorpresa, lo stupore dell’opinione pubblica nello scoprire l’esistenza degli ‘eserciti privati’. Le agenzie di sicurezza esistono da più di vent’anni, e vengono impiegate in qualsiasi luogo del pianeta. In una zona di guerra gli eserciti regolari non forniscono sicurezza alle aziende o alle organizzazioni non governative, ed è qui che nasce il business del settore privato. Certo, in queste cose ci sono anche giochi sporchi, ma anche in questo caso non c’è nulla di nuovo e nulla di sorprendente: è notorio che in Colombia la Cia gestisce una quota di narcotraffico attraverso gruppi paramilitari che realizzano per suo conto un lavoro di intelligence e di raccolta informazioni. Possibile che nessuno si sia mai chiesto da dove arrivano i soldi delle armi e del narcotraffico? Con quei soldi la Cia paga chi svolge per suo conto il lavoro di raccolta informazioni, e nel frattempo porta avanti anche il business della droga. Ma da qui a dire che tutto il settore militare privato agisce nell’illegalità ce ne corre. Il vero problema non è scoprire l’acqua calda degli eserciti privati, ma scandalizzarsi sulle versioni ufficiali date dai politici riguardo alla presenza italiana in Iraq. È quello lo scandalo: raccontare una realtà che non esiste, riempiendosi la bocca di parole come democrazia, libertà, parlamento, pieni poteri agli iracheni. È questa è la vera cosa che dovrebbe scandalizzare, non l’esistenza degli operatori privati di sicurezza.

Con l’abolizione della leva obbligatoria e il fiorire delle compagnie militari private, c’è il rischio che la sicurezza dello Stato venga in qualche modo ‘privatizzata’?
Il rischio di una privatizzazione degli eserciti esiste di sicuro, ma rientra in un processo economico più generale che va in quella direzione, nel senso che se io sono un soldato di un certo tipo, e nell’esercito guadagno poco, chi me lo fa fare di rimanere nelle forze armate dello Stato? Io naturalmente rassegno le dimissioni e vado in una agenzia privata, dove prendo dieci volte tanto e rischio ancora meno, perché almeno per il momento i professionisti delle compagnie militari private non vengono impiegati in operazioni di guerra frontale.

Per quanto riguarda il recente intervento in Iraq, credi che l’impiego di eserciti privati e le enormi risorse investite in quell’azione siano state pilotate da esigenze geopolitiche e finanziarie simili a quelle che hanno guidato le operazioni in Somalia?
Quello che accade in Iraq è sotto gli occhi di tutti, qualsiasi persona che abbia un po’ di sale in zucca capisce cosa si nasconde dietro la parola democrazia. La vera democrazia deve nascere dal popolo e non si può esportare. Una Nazione potente come gli Stati uniti ha bisogno del petrolio, non può farne a meno, perché senza petrolio collasserebbe. Io ho vissuto negli Stati uniti, ho fatto anche addestramento, e lì le famiglie usano quotidianamente macchine che fanno solo quattro chilometri con un litro, quindi per loro il petrolio è fondamentale. Su questa guerra hanno detto di tutto, ma in realtà è proprio un problema di controllo del blocco mediorientale dal punto di vista degli oleodotti. Questo è comprensibile, perché gli Stati uniti sono un impero, e nel corso della storia tutti gli imperi hanno perseguito i loro interessi usando qualsiasi mezzo a loro disposizione.

Credi che le torture nel carcere di Abu Ghraib siano state un episodio a sè stante relativo ad alcuni soggetti problematici oppure il sintomo di un problema più ampio?
In una struttura militare non accade niente per caso. Sono tutte cose pianificate, nessuno muove un dito senza ordini dall’alto. Un conto sono le cose che io teoricamente non potrei fare dal punto di vista delle leggi e degli accordi internazionali, e un conto sono invece le cose che vengono comunque fatte in un contesto di guerra. Oggi in Iraq non vige il diritto internazionale, ma le regole decise dalle forze occupanti e dalla guerriglia. Da questo punto di vista bisogna distinguere l’azione delle Forze italiane da quella di altre truppe presenti sul territorio: io sono sicuro che gli italiani stanno rispettando le regole di ingaggio, non avrebbe senso mandarli a sparare a vista come fanno gli americani. In Iraq chissà quanta gente è stata ammazzata anche per divertimento, ma non da soldati italiani. Poi tutto dipende anche dall’equilibrio del singolo individuo e dal livello dell’addestramento ricevuto: Full metal jacket insegna quali possono essere gli effetti negativi del lavaggio del cervello che si subisce durante il corso marine, un addestramento che incide a livello profondo nella psiche. Le forze speciali, invece, vengono addestrate in modo diverso, e non si trasformano in macchine da guerra disumanizzate ma in professionisti che sanno gestire in modo efficace situazioni di crisi anche grazie ad una grande stabilità psicologica. I fanatici nelle forze speciali non sono ammessi, l’elemento delle forze speciali è esattamente l’opposto del fanatico: sono uomini a cui è richiesto un alto grado di capacità critica e un equilibrio assoluto eccezionale. Tra i soldati è un altro discorso. Se parliamo dei marine, se parliamo dei paracadutisti, allora lì si trova di tutto: il fanatico, il neonazista, il frustrato. Ed è da questo ambiente che nascono le torture, gli abusi, le violazioni delle convenzioni internazionali.

Quindi la differenza tra un soldato e un criminale di guerra sta tutta nel livello di preparazione ricevuto?
È una questione psicologica: il soldato delle forze d’élite, delle forze speciali, è un individualista, una persona che ritiene a tutti gli effetti di essere il migliore nel suo campo, e che ha superato selezioni molto severe. A differenza della truppa addestrata solo al combattimento, ai membri delle forze speciali si richiedono caratteristiche di freddezza, di resistenza psicofisica e di intelligenza che non sono doti comuni. Chi vive al di fuori del mondo militare è convinto che le forze speciali siano quelle più ciniche, dal grilletto facile e con il maggiore disprezzo per la vita; ma chi conosce da vicino la realtà di guerra sa che gli abusi, le violenze e le torture nella maggior parte dei casi sono compiuti da soldati e da truppe con un basso livello di preparazione e di specializzazione. Il problema non è la devianza di poche ‘teste calde’ dei reparti scelti, ma le scelte politiche che portano ad avere soldati più o meno preparati all’interno delle truppe. Tutti i massacri che avvengono durante le operazioni militari vengono compiuti da questi personaggi con uno scarso equilibrio e un basso livello di addestramento, e sempre per carenza di comando. Se il comandante ha le palle il soldato non muove un dito, e se è una persona integerrima i soldati si comportano in modo integerrimo. Se i soldati hanno sopra di loro una scala gerarchica marcia si scatenano, se invece abbiamo buoni comandanti avremo buoni soldati. È molto delicato portare in zona di missione comandanti senza carisma o che non sanno comandare, perché poi sul teatro delle operazioni c’è il rischio che la legge del più forte sostituisca la catena di comando, e un soldato con più carisma, più forte, più violento, può avere la meglio su tutti. In ogni caso gli eserciti rispecchiano anche la società da cui provengono, e per quanto riguarda l’esercito statunitense sappiamo bene che proviene da una società abbastanza tarata geneticamente, molto triste dal punto di vista intellettuale, e quindi ci sono persone che vanno nell’esercito per trovare un’alternativa, una possibilità di carriera, come ad esempio la soldatessa Lynndie England del carcere di Abu Ghraib: glielo si legge in faccia che è proprio una povera disgraziata, una ragazzotta abituata a crescere senza valori.

Ma non è un po’ troppo comodo nascondere tutte le responsabilità individuali dietro un cattivo addestramento?
L’addestramento ha una grande influenza, ma non può diventare una scusa: sono comunque le persone a decidere delle loro azioni. Io sono comunque responsabile delle azioni che compio, e devo agire in base ai miei valori. Personalmente non avrei mai potuto compiere azioni come quelle fotografate ad Abu Ghraib; ma una ragazzotta di provincia americana del Kentucky, abituata a vivere nella tristezza e nello squallore più assoluti, dopo che nel corpo dei marine le hanno lavato quel poco di cervello che le rimaneva, aveva un sorriso vuoto di fronte alle vittime delle sue torture, un sorriso che non ispira paura ma trasmette squallore. Le responsabilità comunque, vanno anche al di là della sfera individuale. Quella ragazza non era in grado di rapportarsi con quello che stava facendo, e ha le sue colpe perché come persona deve cominciare a stabilire quelli che sono i valori delle cose; ma c’è anche una colpa del comando, perché non si muove mai niente se il comando non lo vuole.

Quale sarebbe la tua reazione se ti offrissero di lavorare in Iraq?
Se io oggi fossi ancora in servizio attivo e mi dicessero di andare a combattere in Iraq, direi assolutamente di no. Il rischio deve essere supportato da qualcosa di concreto, bisogna chiedersi per chi e per cosa si rischia la vita, e in Iraq c’è gente che muore per arricchire quattro riccastri, e questo non ha senso. Che senso ha dare la vita per arricchire la famiglia Bush che è già ricca di suo? Di fronte a queste situazioni deve entrare in gioco una capacità critica che purtroppo non tutti hanno. C’è chi si nasconde dietro la retorica del patriottismo per dare un senso alle proprie azioni, ma la realtà è un’altra, e cioè che vai a morire per niente. Davanti alla tragedia di Nassiriya è mancata molto la pietà e l’umiltà, nessun politico ha avuto il coraggio di dire che quelle morti erano evitabili, e che il governo ha deciso di mandare lì quei ragazzi per interessi economici grossi, probabilmente qualche commessa a livello di pozzi petroliferi.

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