Per un mondo migliore
PER I LETTORI
George W. Bush ha vinto. Questo è un fatto. Ha vinto nonostante un fuoco
di sbarramento forse senza precedenti nella storia del movimento progressista
moderno, e cioè nonostante sia stato bersagliato da ogni sorta di critica,
scandalo, fallimento, da proteste, film, documentari, scoop giornalistici, nonostante
milioni di attivisti nel mondo abbiano dato il meglio di sé per rendere
pubblica l’iniquità delle politiche neoconservatrici. Nonostante
tutto questo, e di più, egli ha vinto. Esattamente 30 anni fa, un altro
presidente americano fu costretto a dimettersi per molto meno. Richard Nixon
aveva tramato e mentito agli americani, G. W. Bush ha tramato, mentito, trascinato
il suo Paese in due guerre, causato la morte di almeno 104.000 persone, ha fallito
nell’intento di rendere l’America e il mondo più sicuri, è
implicato in scandali domestici colossali fra Enron e Halliburton, ed è
protagonista di un conflitto di interessi da far impallidire il peggior Berlusconi.
E ha vinto.
E mentre il Presidente americano trascina verso nuovi orizzonti
di impunità l’ideologia che sta così penalizzando la collettività
planetaria di uomini, donne, animali e piante, con danni forse irreparabili,
altri continuano a perdere: i poveri, l’ambiente, la pace, e la stessa
intelligenza umana. Continuano a perdere.
Ora, se questo, e la colossale mole di altre evidenze, non ci scuote, se non
è sufficiente a farci aprire gli occhi e ad ammettere che stiamo perdendo,
cosa altro lo farà? Stiamo perdendo, e riconoscerlo deve essere il primo,
traumatico passo che il Movimento deve fare per non soccombere per sempre.
Il documento che segue riconosce la vitale importanza dell’esistenza oggi
di un Movimento, identificato nelle rappresentanze riunitesi a Porto Alegre
e nei Social Forum, ma anche altrove nel mondo, capace di proporre modelli alternativi
di esistenza e di sviluppo umano. Tuttavia, io vedo il suddetto Movimento ricalcare
alcune delle modalità di azione che hanno portato altre esperienze, come
il Pacifismo o la lotta al Neoliberismo, al sostanziale fallimento di cui sopra.
Le righe che seguono vorrebbero essere un contributo affinché le falle
che si stanno aprendo nel grande vascello salpato da Porto Alegre non portino
al naufragio di un’altra grande, quanto vitale, speranza.
Nel 1869 nasceva il Mahatma Gandhi. Sono passati più di centotrent’anni
di Pacifismo attivo, attraversati da figure straordinarie come Bertrand Russell
o Martin Luther King, e da noi Aldo Capitini o Lorenzo Milani e gli altri che
li hanno seguiti.
Oggi il Pacifismo si fraziona in mille gruppi, decine di migliaia
di aderenti, infinite iniziative, che singolarmente hanno prodotto piccoli (grandi)
miracoli. Ma complessivamente il fallimento è devastante. Non si sono
fermate le guerre, le occupazioni, non si è bloccata una singola guerra
sporca, e il ricorso alle armi ha carattere di pandemia. Ma peggio, la spesa
militare mondiale sta rapidamente riguadagnando salute: aveva toccato nel 2001
gli 839 miliardi di dollari e dopo l’11 di settembre è destinata
ad aumentare vertiginosamente. Fra gli aumenti di spesa maggiori, oltre a quello
degli USA (48 miliardi di dollari previsti per l’anno fiscale 2003) c’è
quello dell’Africa, nonostante tutti gli appelli al contrario. Negli ultimi
dieci anni, a dispetto degli sforzi pacifisti, tutte le principali industrie
belliche hanno aumentato le vendite, fra cui si segnalano: Lockheed Martin da
16,7 a 18,6 miliardi di dollari — Boeing da 6,7 a 16,9 — BAE Systems
da 11,8 a 14,4 — Raytheon da 7,2 a 10,1 — Thales da 4,0 a 5,6. (1)
E ancora peggio: le guerre scoppiano con una facilità spaventevole, perché
si fanno e basta, che si tratti della Palestina, dell’Afghanistan, dell’Iraq
o della Costa D’Avorio non importa, con la scioccante aggiunta che oggi,
forse per la prima volta nella storia moderna, le grandi democrazie si possono
permettere di lanciare guerre in totale spregio delle loro stesse opinioni pubbliche,
come è stato il caso dell’occupazione dell’Iraq nel 2003 che
vide, anche fra i cittadini occidentali, ampie maggioranze contrarie. Mentre
scrivo, infuriano da 24 a 62 diverse guerre nel mondo, a seconda della definizione
che si dà di conflitto. L’11 di Settembre 2001 ha segnato la fine
dei residui di speranza, sicuramente per decenni a venire, nelle lotte ai conflitti
armati, nella battaglia contro la tortura politica, e nelle campagne per il
disarmo.
E’ imperativo a questo punto essere onesti con sé stessi: complessivamente, il Pacifismo ha fallito.
Nel 1818 nasceva Marx. Sono passati quasi 200 anni di critica moderna al capitalismo, alla sperequazione della ricchezza, allo sfruttamento del lavoro e dell’ambiente, e una parte del mondo ne ha certamente beneficiato. Ma nel 1975 Milton Friedman ed altri pensatori economici, su ispirazione di Friederich Von Hayek e sostenuti dalle fondazioni e/o lobbies che li finanziavano, hanno pensato bene di iniziare a smontare pezzo per pezzo centocinquant’anni di progressi e ci hanno scodellato il Neoliberismo. E’ l’ideologia del libero regno del mercato sulla società degli umani, che trovò subito una certa (anche se limitata) opposizione. Ma anche questa ha fallito e dopo ventinove anni di contestazioni il Neoliberismo ha vinto. Oggi, come mai prima, i lavoratori di tutto il mondo sono ostaggi di una bolla speculativa che sposta un trilione e mezzo di dollari al giorno (3 milioni di miliardi di lire) cancellando centinaia di migliaia di posti di lavoro in qualunque Paese le capiti a tiro, e che si fa beffe della volenterosa ma esile Tobin Tax. Infatti, il numero di disoccupati nel mondo ha raggiunto il livello record di 180 milioni, secondo l’ILO (2) Oggi il prodotto interno lordo dell’intero pianeta ammonta a 31,4 Trilioni di dollari annui (circa 63 milioni di miliardi di vecchie lire) e una manciata di istituti finanziari internazionali ne possiedono la metà (!), che equivale anche a più del doppio di quanto l’intero pianeta vende e acquista in un anno, e non esiste più governo che li possa fronteggiare. (3) Dopo decenni di mobilitazioni contro la fame nel mondo ancora abbiamo: 30 milioni di morti per fame all’anno — il debito dei Paesi poveri è cresciuto dal ’96 a oggi di 400 miliardi di dollari mentre la loro fetta di commercio estero si è ridotta del 40% - ogni 15 secondi un bambino muore per mancanza di servizi igienici - dal Summit di Rio a oggi il numero di poveri è solo cresciuto, e dopo il Summit sullo Sviluppo Sostenibile di Johannesburg, alla faccia di trent’anni di opposizione, il Neoliberismo ci ha riscodellato: 1) no alla punibilità delle corporazioni per danni all’ambiente, 2) solo impegni volontari delle multinazionali per il rispetto dell’ambiente e dei diritti dei lavoratori, 3) ulteriore spinta al nucleare e al petrolio nell’accordo finale, 4) nessun target fissato per le energie rinnovabili, neppure quell’1% proposto in un ultimo disperato tentativo dalla UE, 5) nessun aumento degli aiuti al Sud del mondo e nessuna nuova cancellazione dei loro debiti. (4) (5) Persino lo storico accordo del 31 luglio 2004 al WTO a Ginevra si è rivelato un inganno: annunciato come "una vittoria dei Paesi Poveri contro l’ingiustizia dei sussidi occidentali alla (nostra) agricultura e al (nostro) export.." esso è stato una beffa fraudolenta. Infatti la promessa riduzione americana del 20% dei propri sussidi all’agricoltura è solo teorica, poiché per lasciare i sussidi al livello di oggi è stato semplicemente alzato il tetto massimo consentito (49 miliardi di $ annui) così che una riduzione americana del 20% di quel tetto artificioso non intacca assolutamente quanto oggi percepiscono i contadini USA (23 miliardi di $).. così è per la UE, stesso trucco.
L’evidenza del fallimento su larga scala dell’opposizione al Neoliberismo è schiacciante, e la sua marcia inarrestabile è accompagnata dal tripudio dei nostri consumi. Infatti durante gli stessi ventinove anni di opposizione al mercato senza freni i nostri consumi sono raddoppiati: con una mano abbiamo tentato di frenarlo mentre con l’altra lo abbiamo ingrassato a dismisura. (6)
Tutto ciò è realmente accaduto purtroppo, a dispetto
di una colossale mole mondiale di manifestazioni, marce, sit-in, contestazioni,
iniziative culturali, pubblicazioni, reportage televisivi, occupazioni, disobbedienze
civili, e tant’altro. E’ imperativa qui una riflessione radicale sui
nostri metodi di lotta, cui accennerò più sotto.
A questo punto, immagino che a molti lettori il pensiero corra spontaneo al
Nuovo Movimento, e cioè al variegato popolo di Porto Alegre e dei Forum
Sociali mondiali, che è visto oggi come una grande svolta inedita, dove
riporre la speranza. E questa speranza riempie l’animo dei suoi sostenitori
con l’effetto inebriante di un miraggio, e il miraggio diviene certezza:
il mondo si può cambiare, un Altro Mondo è in Costruzione.
Sarebbe bello se fosse così, ma la mia sensazione è che anche
Porto Alegre sia destinato a un assai probabile fallimento, e per ragioni precise,
che formano il contenuto di questo scritto.
Prima di continuare, preciso, a scanso di fraintendimenti, che il Forum Sociale Mondiale e le sue mille derivazioni sono fenomeni di una importanza straordinaria, oserei dire imprescindibili per il nostro futuro, ma proprio per questo vanno tutelati con grande attenzione critica.
Una premessa.
Per cominciare, sottolineo che la presente realtà spazza via gli entusiasmi,
i buonismi, gli slanci egualitari, gli ottimismi e, permettetemi, gran parte
dei piani di riscatto mondiale lanciati da Porto Alegre, se solo la si vuole
vedere con occhi aperti.
Cosa stiamo cambiando? Forse il nostro mondo ricco e iniquo? Ma
guardiamolo: siamo una colossale struttura socio-economica che ha cementato
da millenni le sue abitudini nel vivere e nel dominare, ma che è soprattutto
caratterizzata da un tremendo conservatorismo, che abbraccia tutte le
sfere del nostro vivere, dai macro sistemi alle abitudini quotidiane dell’individuo,
fin nei dettagli più sciocchi, e tutto questo forma il più formidabile
muro di resistenza al cambiamento - combattiamo perennemente una guerra apocalittica
(sia in termini morali che per numero di vittime innocenti) per l’accesso
alle risorse che pretendiamo da secoli — le nostre economie, anche le più
forti, sono sempre sull’orlo del tracollo con la spada della recessione
che ci pende sul capo - la povertà è in aumento anche da noi ricchi
(come negli Usa o in GB o in Italia) — la nostra disoccupazione è
una cancrena mai sconfitta e sempre in crescita — l’accaparramento
dell’ energia che ogni giorno pretendiamo viene ormai fatto di routine
a colpi di missili Cruise — e la nostra gara per stare a galla nel club
dei Paesi ricchi richiede una assoluta spietatezza col resto del pianeta, perché
il nostro standard di vita non è negoziabile. Sono in guerra fra loro
i nostri ipermercati a colpi di offerte speciali, i nostri sindacati, i nostri
industriali, è guerra cercare un affitto decente, ottenere una TAC in
tempi utili a non morire, o ripagare i nostri mutui. In altre parole, noi occidentali
siamo 800 milioni di persone sempre più impaurite che difendono con unghie
e denti ciò che hanno ottenuto col sangue di miliardi di poveracci, i
cui fantasmi e i cui discendenti sempre più ci tolgono il respiro. Il
fatto è, ed è noto, che se si pretende uno standard di vita all’occidentale
su questo pianeta non ce n’è per tutti, e noi ricchi, che lo abbiamo
capito da un pezzo, abbiamo già scelto: soccombano gli altri, e non si
discute.
E il Movimento cambierà ciò? Vogliamo cambiare un mondo che è
in rapidissima evoluzione, dove tutto muta.. eccetto noi. Noi siamo statici,
fermi nelle stesse modalità di lotta di decenni fa, proprio mentre i
nostri avversari lavorano 24 ore su 24 con mezzi economici colossali e cervelli
fini, con strategie sempre nuove per rimodellare tutta la nostra esistenza,
e lo stanno facendo da 30 anni. E noi? E’ incontestabile che nel suo complesso
il Movimento fa sostanzialmente poche cose riconosciute, certamente utili, ma
di cui una ci assorbe il 90% dell’energia: manifestare.
Finora quello che il Movimento ha fatto è di lanciare un’utopia. Questa utopia è condivisa, nel senso di ‘messa in atto’, sul pianeta terra forse da qualche centinaia di migliaia di persone (che sappiamo esserci), ma per ciò che riguarda il consenso e soprattutto i comportamenti degli altri miliardi di abitanti, non sappiamo nulla, ma soprattutto loro non sanno quasi nulla o addirittura nulla di noi: l’Altro Mondo in Costruzione non è noto né condiviso dal 99,99% dell’umanità. Porto Alegre è ancora un'inezia della storia, non ce lo dimentichiamo mai, il cui potere rappresentativo è ancor meno definibile. La domanda è: chi esattamente rappresenta questo movimento?
Alla vigilia del G8 di Genova un comunicato di un Social Forum italiano recitava: "..noi ci facciamo carico delle istanze degli sfruttati e dei poveri della terra..". Ma di quali istanze si parla? I poveri della terra troppo spesso non hanno i mezzi né la ‘cultura’ per pensarle. Chiunque abbia fatto esperienza diretta nelle piantagioni di caffè della Tanzania, nelle raffinerie della Nigeria o fra i lustrascarpe di Santo Domingo sa che le parole sindacato, sicurezza sociale o sfruttamento occidentale lasciano i volti di chi ti ascolta indifferenti. E' la violenza profonda di secoli di indicibile miseria che muove le loro mani e che guida i loro desideri: mangiare, accaparrarsi tutto quello che si può, e domani, se possibile, di più. Punto.
Per noi le multinazionali del petrolio sono mostri, nelle baracche di Luanda o di Jakarta l'illusione è che la Total e la Exxon Mobil magari un giorno gli porteranno la luce elettrica, o chissà, forse anche il gas. A Luanda o a Jakarta pochissimi le contestano (quei pochi li conosciamo bene e sono degli eroi), e i dati ce lo confermano: la richiesta di energia crescerà del 40% nei prossimi 15 anni e i tre quarti di quella richiesta verrà dal Terzo Mondo. Vorranno soprattutto petrolio: nel 1972 le nazioni ricche consumarono il 75% del petrolio prodotto, quelle povere il 25%. Nel 2010, e cioè fra poco, le percentuali saranno 50% a 50%. Dal 1970 al 2010 gli Usa avranno registrato un aumento di consumo di petrolio del 42%; nello stesso periodo l'aumento di consumi per Cina e India sarà stato rispettivamente del 567% e 510%. (7) Da notare che a Johannesburg (WSSD del settembre 2002) sono stati proprio i delegati dei Paesi poveri ad appoggiare Usa, Giappone e OPEC nella soppressione dell’accordo per le energie rinnovabili; a Johannesburg i poveri chiedevano a gran voce "tecnologie per combustibili fossili". (8)
I poveri vogliono energia, ne hanno una sete infinita e ne hanno diritto oggi, e non fra trent’anni quando, forse, sarà disponibile l’idrogeno.
La nostra sostenibilità e le energie alternative sono belle cose, ma se un giorno, come sarebbe giusto, finalmente toccasse a loro poter volare per andare in ferie o accendere il forno a microonde o innaffiare il giardino o avere l'airbag nell'auto, mi chiedo se Porto Alegre, che oggi vorrebbe rappresentarli, sarà in grado di condurli sulla strada della moderazione dei consumi (e della non violenza nel difenderli). Dopo secoli di privazioni? Improbabile.
Ma le ragioni del fallimento annunciato di Porto Alegre stanno soprattutto altrove, e sono identiche a quelle che hanno contribuito a far naufragare sia il Pacifismo che la critica al Neoliberismo. Eccole.
L’ "Impero" lavora per noi. Noi lo finanziamo.
L’ "Impero" siamo noi.
Dal volume ‘Un Altro mondo in Costruzione’: "La disubbidienza
sociale deve essere riprodotta, magari in mille forme diverse... contro la violenza
dell’Impero, di chi comanda." Luca Casarini
Prima ragione. L’Impero siamo noi. Abbiamo sempre identificato i nemici da combattere - il capitalismo selvaggio, la politica ad esso asservita, il complesso militare industriale, le multinazionali, l’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO), il Fondo Monetario Internazionale (FMI), la Banca Mondiale (BM), il G8 ecc.- all’esterno di noi stessi, e gli puntiamo in dito contro mentre gli addossiamo la responsabilità per le ingiustizie del mondo. In ciò si denota un nostro bisongo personale e impellente di affrancarci dal ‘male’, di vederlo fuori da noi stessi e ben identificato in altri o altro, contro cui iveire e per cui sdegnarsi. Questo è non solo semplicistico, ma è soprattutto falso. Queste entità infatti siamo noi, poiché rappresentano noi, servono noi, garantiscono il nostro standard di vita, quello di tutti noi, e cioè degli 800 milioni di consumatori-elettori del Primo Mondo, a cominciare dal caffè che beviamo la mattina. E chi le comanda siamo sempre noi, col consenso che garantiamo loro anche se poi scendiamo in strada a contestarle.
Cito l’autorevole opinione di Joseph Stiglitz, l’ex capo economista della Banca Mondiale, secondo cui il vituperato Fondo Monetario Internazionale è sempre stato il braccio armato delle nostre banche di investimento nel Terzo Mondo. Gli fa eco Noam Chomsky: "Il FMI ha sempre garantito che gli investimenti occidentali ad alto rischio nel Terzo Mondo fruttassero alti profitti". (9) Ma quei profitti sono stati intascati soprattutto da noi, i milioni di cittadini/aziende/gruppi occidentali che sono la vera anima delle banche d’investimento. Quei profitti, in altre parole, hanno nutrito la nostra economia, dalla quale noi, seppure in diversa misura, abbiamo tutti attinto, che nessuno si escluda, e da cui attingiamo e attingeremo.
Ed è altresì noto come il FMI abbia lavorato sodo
per garantirci le cose anche più semplici. Chiunque di noi abbia mai
bevuto un caffè o indossato una maglia di cotone non può chiamarsi
fuori. E’ il Fondo Monetario che per decenni ha incoraggiato i Paesi poveri
a intensificare l’agricoltura da export, di cui caffè e cotone sono
due esempi, col miraggio di alti ricavi in moneta forte per le loro casse statali.
Questo ha portato quei Paesi a sottrarre terre all’agricoltura di sussistenza
(quella che produce cibo quotidiano) per piantarvi le cosiddette ‘commodities’
(caffè, cotone, semi oleaginosi ecc..). Risultato: i mercati sono stati
inondati da questi prodotti, il loro prezzo è crollato, i Paesi poveri
non hanno incassato quel che gli era stato promesso, e sulle nostre tavole o
nei nostri negozi appaiono caffè e cotone a prezzi contenuti (nonostante
il lucro dei vari intermediari e la speculazione delle Borse occidentali). Un
esempio recentissimo è quello del cotone: super produzione mondiale nell’anno
2001/02 con crollo del 35% dei prezzi sui mercati, e guai grossi per i Paesi
africani produttori. (10)
Dunque il Fondo Monetario siamo anche noi, tutti noi.
E lo stesso vale per il WTO. Un esempio fra tanti: chiediamoci
perché nelle Conferenze Ministeriali di Doha e Cancun sia gli Stati uniti
che l’Unione Europea hanno concesso quasi nulla sull’Agreement on
Agriculture (Accordo sull’Agricoltura, su cui non è stato concesso
alcunché neppure dopo). I Paesi in via di Sviluppo chiedevano che quell’accordo
fosse modificato al fine di obbligare noi ricchi a smantellare il sistema di
‘Protezione’ (il Protezionismo) che offriamo alla nostra agricoltura
(un miliardo di dollari al giorno di sussidi), poiché esso è causa
di orrenda povertà fra i contadini del Sud del mondo. La risposta non
va cercata nei corridoi del WTO a Ginevra o della UE a Bruxelles, bensì
fra i banchi frutta dei nostri ipermercati e soprattutto fra i nostri agricoltori,
che dal 1962 in Europa sopravvivono grazie a questo sistema. I nostri, noi,
ancora noi.
A Doha l’ Italia ha fatto muro perché i mercati tessili non fossero
più di tanto liberalizzati, e questo per proteggere non solo gli interessi
dei ‘padroni’ del made in Italy, ma anche dei loro lavoratori del
settore, operai, tecnici, autisti, che godono delle nostre protezioni doganali,
le quali però penalizzano drammaticamente gli sforzi di tanti artigiani
esportatori dei Paesi poveri. O noi o loro, e il WTO ha scelto noi.
Anche noi siamo il WTO. (11)
Sono questi due esempi del famigerato Protezionismo commerciale con cui i governi dei Paesi ricchi sostengono i propri mercati. Il nostro Protezionismo (per esempio, ogni anno 50 miliardi di dollari di sussidi per i combustibili fossili che consumiamo e, ripeto, 360 miliardi di dollari di sussidi per la nostra agricoltura) costa al Sud il doppio di quanto ricevono in aiuti. Con una mano gli diamo un pezzo di pane mentre con l’altra gliene togliamo due, e questo per ‘proteggere’ in nostri mercati, che sono i nostri posti di lavoro che sono la nostra economia. Noi, sempre noi.
I governi dei G8 sono giganti coi piedi d’argilla, arroganti
all’apparenza, ma dentro tremebondi all’idea di perdere i consensi
dei loro elettori, cioè noi. Sanno bene, i Bush, Blair, Putin, Chirac,
Berlusconi ecc., che dovranno continuare a garantirci: il consumo del 45% di
tutta la carne e pesce del globo — del 58% dell’energia disponibile
— del 74% delle risorse telefoniche — dell’84% di tutta la carta
— dell’87% dei mezzi di trasporto esistenti e l’86% dei beni
di consumo in generale. (12) In un mondo che sta esaurendo le risorse il loro
compito è duro, perché noi queste cose le diamo per scontate ogni
giorno, tutti noi, compresi quelli, come me, che poi lottano contro il Neoliberismo.
Le diamo per scontate ogni giorno, a scapito di miliardi di poveri, eppure sappiamo
bene (quasi tutti, ma non tutti) che per garantircele i nostri governi non si
fanno scrupolo di sganciare qua e là qualche bomba cluster o missile
Cruise. Scrive in proposito George Monbiot, uno dei più rispettati intellettuali
‘antagonisti’ del mondo: "Il nostro governo (britannico, ndr)
sembra aver calcolato che l’unico modo di ottenere l’energia per
permettere agli uomini e alle donne inglesi di rimanere sulle loro auto
è di assecondare gli Stati Uniti a qualunque costo."
Il G8, e la miseria creata nel Sud dalle sue politiche economiche e dalle sue
guerre tese all’approvvigionamento di quanto ho scritto sopra, siamo noi.
E qui, per essere più specifico, cito l’esempio dell’India
attingendo dalle ricerche di Vandana Shiva. La popolazione di questo Paese ha
pagato i seguenti prezzi per l’applicazione dei nostri dettami economici:
1) sono stati sprecati 1,37 miliardi di rupie nel tentativo di lanciare un’industria
nazionale della floricoltura da esportazione (che ne ha guadagnati solo 0,32)
— 2) è stata ridotta la sicurezza alimentare nazionale del 70% -
3) i laghi per l’allevamento intensivo di gamberetti da esportazione hanno
distrutto aree 200 volte più vaste, a causa della salinizzazione e dell’inquinamento
dei terreni; conseguenza ne è che per ogni posto di lavoro creato in
quel settore, 15 famiglie hanno perso il sostentamento — 4) nel caso degli
allevamenti di bestiame da export, per ogni dollaro guadagnato dall’India
ne sono stati persi 15, pagati dai contadini che non hanno più il letame
da usare come concime e come combustibile domestico (poiché le vacche
vengono macellate dopo pochi mesi), che devono essere rimpiazzati da concimi
chimici e combustibili fossili importati. Ora, chi li acquista quei fiori, quei
gamberetti, quella carne, pagati in India a prezzi bassissimi? Soprattutto noi
occidentali, è la risposta fin troppo ovvia. (13) Ma veniamo alle guerre,
il bersaglio che più accende gli animi dei Movimentisti.
Oggi, più che in passato, le guerre siamo noi, perché noi le ‘consumiamo’, proprio come un alimento. Esse, come è noto, inseguono il petrolio, e il petrolio noi.. ce lo mangiamo. Nessuno può chiamarsi fuori. Infatti, al contrario di quanto comunemente si immagina, i combustibili fossili disponibili non vengono risucchiati in prevalenza dal colosso industriale e militare del mondo tecnologico, che pure ne consuma una porzione, ma piuttosto dalle nostre bocche. Per produrre ogni singola caloria di cibo (soprattutto grano) che noi ingurgitiamo occorrono in media da una a dieci calorie di combustibili fossili. I cereali per arrivare sulla nostra tavola richiedono 4 calorie fossili per ogni caloria che ci dannno. La carne di manzo ne richiede 35 di calorie fossili per darne una a noi, quella di miale vuole 68 calorie fossili per ogni caloria alimentare che offre. Ogni innocente verdura che vediamo in vendita è all’apice di uno spreco incredibile di idrocarburi. Per lavorare e fertilizzare i campi dello Stato americano dello Iowa occorre ogni anno l’energia equivalente a quella di 4.000 bombe termonucleari, energia fornita interamente dal petrolio. Il globo consuma ogni anno 100 miliardi di Kilowatt, quasi tutti prodotti da combustibili fossili, e il 73% di questa energia va in agricoltura, luce domestica e trasporti, che tutti noi consumiamo. Un europeo medio necessita di 2.500 calorie alimentari al giorno, ma poi consuma 125.000 calorie di petrolio al giorno per vivere. Noi mangiamo e viviamo soprattutto di petrolio, siamo idrovore di idrocarburi, e lo siamo tutti, e tutti abbiamo vissuto fino ad oggi di ciò che le guerre ci hanno garantito. Le guerre ci ‘alimentano’, e noi ingurgitiamo.
Ma la cosa più eclatante è che nonostante il Neoliberismo ("l’Impero") non garantiscano a tutti noi occidentali lo stesso livello di agio e nonostante le nefandezze che esso combina per nostro conto, noi (che nessuno si escluda) lo ‘finanziamo’ da cinquant’anni ogni volta che acquistiamo plastica, carta, detersivi, caffè, computer, telefonini, ogni volta che usiamo un bancomat, che andiamo in vacanza, che cerchiamo lavoro, o che investiamo i nostri risparmi, oppure ogni volta che facciamo il pieno al motorino per andare a una manifestazione.
Alcune prove di ciò che ho appena scritto.
Si è già detto che il Neoliberismo, con il suo bagaglio di distruzioni umane, ambientali, e militari, e con i suoi portabandiera come il FMI o il WTO, ci è stato letteralmente imposto (e sovente da noi ben accolto) da fondazioni e lobbies. Esse hanno stanziato migliaia di miliardi con cui si sono letteralmente comprate il consenso nelle sfere politiche di tutto il mondo, con cui hanno allevato schiere di economisti che hanno piazzato nei posti chiave del potere accademico o politico, lanciando così una inarrestabile globalizzazione dei mercati con tanto di regole ferree che la cementano nelle nostre vite, regole volute da loro, addirittura a volte scritte da loro, e il cui strascico si chiama povertà, devastazione ambientale e talvolta guerre. (14) (15) Queste lobbies, che sovrastano persino i nostri governi, hanno nomi precisi: Trans Atlantic Buisness Dialogue (TABD) - European Services Leaders Group (ESLG) — International Chamber of Commerce (ICC) — Investment Network (IN) — European Roundtable of Industrialists (ERT) — American Enterprise Institute — Philip Morris Institute — European Policy Center — Liberalization of Trade in Servicies (LOTIS) e altri. Ma chi sono esattamente? Non sono altro che raggruppamenti di grandi industrie occidentali o dei loro ideologhi, che noi serenamente foraggiamo con i nostri consumi ogni giorno. Ed è qui il punto: i miliardi con cui queste lobbies si sono impadronite del mondo politico, economico e accademico vengono direttamente dalle nostre borse della spesa. E dunque esiste veramente un filo diretto che lega lo zucchero che noi mettiamo nel caffè e la spietata globalizzazione neoliberista del WTO. Esiste perché Eridania (il gigante italiano dello zucchero) è membro dell’Investment Network, la potente lobby che si riunisce direttamente dentro il palazzo della Commissione Europea a Bruxelles, e che consegna alla Commissione i diktat che essa porterà al tavolo del WTO. Lo stesso filo c’è se acquistiamo una Panda. Infatti Fiat e Pirelli sono membri dell’Investment Network e dell’European Roundtable of Industrialists. E se mangiamo pasta? Se facciamo foto? Se compriamo i cotton fioc? Se ci squilla il telefonino? Se andiamo al cinema? Se facciamo fotocopie o accendiamo il computer? Ancora peggio, poiché Barilla, Canon e Kodak, Johnson & Johnson, Motorola, Ericsson e Nokia, Time Warner, Rank Xerox e Microsoft sono tutti membri dell’International Chamber of Commerce, che è oggi la più potente lobby del mondo, quella che per esempio chiese nero su bianco al Cancelliere tedesco Schroder un attacco frontale agli Accordi Multilaterali sull’Ambiente e alla etichettatura ecologica dei cibi. E se voliamo verso le nostre ferie in Grecia? E se sverniciamo le nostre persiane? E lo yogurt, la lavastoviglie, la passione per la Ferrari, Internet, la birra con gli amici, il Viagra e tutti i farmaci più importanti? Siamo daccapo: Boeing (che fa anche armi), Dow Chemicals, Danone, Candy, Shell, Microsoft, Hewlett Packard, IBM, Carlsberg, Glaxo, Bayer, Hoffman La Roche, Pfizer, Merck sono tutti in prima fila nel Trans Atlantic Buisness Dialogue, nel European Services Leaders Group e nella International Chamber of Commerce. Il TABD compila liste di ‘desiderata’ che pretende siano inserite nelle regole di globalizzazione del WTO; è di fatto l’autore di alcune di quelle regole ultra neoliberiste contro cui noi scendiamo in piazza. (16) Val la pena che qui mi ripeta: noi scendiamo in strada a contestare il mondo che hanno creato, mentre finanziamo quel mondo e le sue spietate regole col nostro stile di vita. E allora non è forse futile e contraddittorio chiedere giustizia globale puntando il dito contro i palazzi del potere e non contro noi stessi? Ecco perché a Genova la strategia vincente sarebbe stata quella di voltare le spalle al G8 dei capi di Stato e di rivolgersi al G8 vero, quello della gente, andando per le strade d’Italia, nelle scuole, negli ipermercati, nei parchi, nelle stazioni ferroviarie a creare consenso.
La riflessione che propongo è che la parete divisoria che amiamo erigere fra noi e ‘loro’, e cioè fra il popolo delle persone sensibili alla giustizia globale e i malvagi timonieri del Neoliberismo, è purtroppo un artificio ingannevole. ‘Loro’ sono anche noi, e noi siamo anche ‘loro’. Non ammetterlo condannerà Porto Alegre a decenni di manifestazioni, di invettive, di sforzi, di impegno militante e all’uso di una montagna di energie del tutto inutili, sprecati poiché diretti contro ‘Loro’, e cioè contro il bersaglio sbagliato. Il vero bersaglio siamo NOI. Da questo fallimento noi usciremo al peggio affranti, ma chi sta nella parte sbagliata del mondo ne uscirà affamato e chi sta dalla parte sbagliata dei cannoni ne uscirà morto,
Dobbiamo subito guardarci allo specchio e chiederci: come possiamo agire per ottenere coerenza fra il nostro standard di vita e i nostri ideali? E come convincere altri a fare lo stesso? La risposta che propongo ha un passaggio obbligato: Il calcolo esatto dei PREZZI che gli umani, ed in particolare noi occidentali, devono pagare per cambiare il mondo. Le domande sono: quanto costa l’Altro Mondo in Costruzione? Siamo disposti a pagarne il prezzo?
Quanto costa un mondo migliore?
Seconda ragione. Di fatto non conosciamo esattamente quali sono i PREZZI che noi ricchi dovremmo pagare fin da oggi per garantire in futuro a miliardi di persone i diritti al nutrimento, alla salute, all'istruzione, alla prosperità. E se non li conosciamo cosa mai cambieremo?. Chiedo: Porto Alegre ha listato quei prezzi e li ha comunicati agli 800 milioni di consumatori-elettori benestanti che poco ci conoscono ma che sanno benissimo ciò cui non vogliono rinunciare? Gridare giustizia globale, rispetto per l’ambiente o stop alla guerre è bene, ma ciascuno di noi, quando rientra a casa dalle manifestazioni, si fa carico dei prezzi da pagare? Mi spiego meglio.
Vogliamo costruire un mondo migliore trasformando e/o eliminando il WTO, il Fondo Monetario, la General Dynamics, i Trips, la BigPhrma, la Goldman Sachs, la Novartis, un mondo senza l'11 di Settembre e senza Intifada, senza Bhopal e senza Operazione Condor o Plan Colombia, un mondo senza bambini schiavi e senza più le foto di Salgado a dirci quanto orrore accade ogni giorno, un mondo che chiude la School of the Americas e dove John Poindexter e il suo Information Awareness Office non hanno ragione di esistere, un mondo dove Amnesty International va in pensione, e dove anche le braccianti di Haiti possano aprire un rubinetto dell'acqua e farsi il bagno prima di coricarsi. Un mondo, infine, che non necessiti di camere di tortura in Paesi lontani per garantire a noi il carburante per il nostro standard di vita.
Ma tutto ciò è gratis per noi? Stiamo coi piedi per terra, e allora agli economisti di Porto Alegre chiedo: nell'Altro Mondo Costruito quali saranno le rinunce al consumo che ci toccheranno, e quanto della nostra vita socio economica dovrà radicalmente mutare? Quanta occupazione dovremo perdere se vorremo veramente permettere alle economie del Sud di sbarcare sui nostri mercati? Potrò ancora volare Roma-Londra-San Francisco-New York per 1.400 euro? Quante volte potrò usare l'anticalcare nella mia doccia? Quante auto a famiglia e a che costo il carburante? La tuta da calcetto in puro cotone africano costerà sempre uguale? E la plastica? le tv? i cd? E il cibo? Noi ricchi potremo ancora spendere 26.000 miliardi all'anno in profumi? Quanto costerà il mio caffè? Il costo dello smaltimento dei nostri rifiuti sarà sempre lo stesso quando non potremo più scaricarli in mare o in Nigeria? E Internet?
Già, Internet. Leggo uno scritto di Naomi Klein sul World Social Forum di un paio di anni fa, dove la nota portabandiera no-logo scrive di una nottata in un camping per giovani a Porto Alegre dove un vasto gruppo riunito attorno a un altoparlante ascoltava una diretta dal World Economic Forum di New York. La voce era quella di una corrispondente di Indy Media, e arrivava vibrante e inalterata grazie a Internet. Scrive la Klein: "Per me quello è stato il momento più rappresentativo dell'intero Forum. Ad un certo punto il server americano si è disconnesso, ma all'istante un server italiano ci ha soccorsi!"
Certamente Naomi Klein si rende conto che il suo "momento più
rappresentativo" si è materializzato per gentile concessione del
controllore mondiale di Rete che è la Internet Society in Virginia, vale
a dire per gentile concessione dei falchi dei Diritti di Proprietà Intellettuale
come Microsoft, come Hewlett Packard o IBM, per gentile concessione degli impietosi
licenziatori come Nortel & Alcatel (50.000 lavoratori a casa), come Hitachi
(20.000) o come Intel e Lucent (20.000), per gentile concessione dei vampiri
della speculazione finaziaria come la JP Morgan, e infine per gentile concessione
dei venditori di morte come Marconi Corp., come (la ex) WorldCom, come Motorola
Inc, come la Rand e come la Defense Information Systems Agency. (17)
E allora chiedo: l'entusiasmante tecnologia internet che ha soccorso Naomi Klein
e i giovani di Porto Alegre sarà ancora possibile nell'Altro Mondo in
Costruzione, e cioè in un mondo ripulito dai sopraccitati mascalzoni?
Non si può evadere la risposta.
Altresì, è sicuramente ben accetto un Movimento che chiede pace e che contesta le nostre interferenze ‘imperialiste’ nel destino politico di tanti Paesi per assicurarci le loro risorse. Ma questi stessi contestatori, così giustamente motivati, sapranno poi farsi carico dei prezzi conseguenti a ciò che chiedono? E potrà farsene carico la società nel suo insieme? Immaginiamo che il petrolio non sia più un ‘sorvegliato speciale’, per esempio. Perché è un fatto che "… il costo della protezione delle riserve petrolifere mediorientali, pagato soprattutto dagli Stati Uniti e senza il quale tutta l’economia occidentale rimarrebbe paralizzata, è di almeno 25 dollari al barile." (18) Ora, tutti d’accordo per l’uscita dei ‘falchi’ americani (con conseguente caduta dei loro regimi fantoccio) dal Medioriente, ma chi li pagherà quei 25 dollari extra per ogni barile estratto? E sappiamo quanto questo inciderebbe sul costo di ogni azione che noi occidentali, inclusi i contestatori, compiamo ogni giorno? Sapremo, o meglio, vorremo farcene carico nella pratica?
L'Altro Mondo in Costruzione vorrà essere più vicino alla natura, ed è un bene. Ma a quali prezzi? Un piccolo esempio che ha come protagonista un altro Guru anti globalizzazione, José Bové. Il francese denuncia il sistema di nutrizione dei vitelli: il latte che essi potrebbero naturalmente bere dalle vacche gli viene sottratto, poi spedito ad alcune industrie, pastorizzato, decremato, essiccato, e infine ricostituito, impacchettato e ritrasportato dai vitelli. La UE finanzia questo processo con miliardi per tenere il prezzo del prodotto industriale inferiore a quello del latte che i vitelli potrebbero semplicemente succhiare dalle vacche. Aberrante, siamo d'accordo, ma se vogliamo abolire questo ciclo ci dobbiamo chiedere: a quali prezzi? quanta economia e quanto indotto andrebbero perduti? Soprattutto quanti posti di lavoro si perderebbero? e otterremmo il consenso su questo da chi quel prezzo lo dovrà pagare?
Infatti sembra ormai chiaro che uno dei costi più amari che noi ricchi dovremmo sostenere per un Altro Mondo in Costruzione è la perdita di centinaia di migliaia (se non milioni) di nostri posti di lavoro, se veramente vogliamo permettere al Sud di sbarcare sui nostri mercati ad armi pari o di ricevere i nostri agognati investimenti nel rispetto dei loro diritti. Un costo, questo, che sarà assai arduo proporre. Ne è un esempio lampante ciò che è accaduto nell’aprile del 2000 in seno alla più potente economia del mondo, gli Usa. Era quello il periodo in cui il governo federale stava proponendo di concedere alla Cina la clausola del Permanent Normal Trade Relations, con pieno appoggio all’entrata di Pechino nel WTO. Contro queste misure, Washington DC vide massicce proteste dei più potenti sindacati americani, AFL-CIO in testa con John Sweeney, ma anche James Hoffa e i suoi, fianco a fianco ai falchi della destra nazionalista e ultraprotezionista di Pat Buchanan. Il motivo di tanto clamore? Il timore, assai fondato, che il regalo concesso alla Cina significasse massicce perdite di posti di lavoro americani a favore dei più competitivi lavoratori di quel mondo più povero. Più recente è l’esempio dell’Outsourcing, la pratica da parte di grandi aziende di affidare a Paesi terzi un settore di produzione che prima veniva soddisfatto in sede domestica. Il 30% di tutta l’industria dell’Information Technology americana è oggi ‘outsourced’ in India, dove il lavoro costa assai meno. Ma in India quelli sono fra i posti di lavoro più ambiti in assoluto. Dare a quei lavoratori paghe e diritti di livello superiore – come il Movimento auspica – significa mandarli tutti sul lastrico in 24 ore. Allora, ci sono qui due contraddizioni: vorremmo che lavorassero con pieni diritti e paghe piene, ma così gli sottraiamo il ‘competitive edge’, e cioè l’unica vera risorsa che hanno, la competitività sul lavoro. Infatti a Doha proprio i Paesi in via di sviluppo hanno accusato i promotori dei diritti globali di essere l’involontario strumento di un “protezionismo occidentale di segno contrario”, che dietro la bella facciata dei diritti per tutti in realtà mirerebbe a sottrarre al Sud l’unica sua vera risorsa, la forza lavoro competitiva. La seconda contraddizione è che per permettere al Sud di avere standard di vita e di lavoro dignitosi ma al contempo di mantenere gli investimenti dei ‘ricchi’ dovremmo non solo accettare massicce perdite di impiego domestico ma anche pagare le merci assai di più. Su questi problemi sono in imbarazzo tutti i sindacati occidentali, che balbettano slogan come “gobalizzazione dei diritti” per non affrontare il grande nodo.
E noi che risposte diamo?. Si tratta di far accettare all’occidente
prezzi inaccettabili per i nostri contadini, metalmeccanici, operai, impiegati,
trasportatori, con relative famiglie, e per le aziende di tutti quei settori
che verrebbero penalizzati se l’Occidente permettesse ad omologhi del Sud
di veramente competere sui nostri mercati.
Io chiedo agli economisti di Porto Alegre di studiare, calcolare e divulgare
i PREZZI - in termini di MEZZI RICHIESTI PER LA FATTIBILITA', PREZZI E RINUNCE
AL CONSUMO, MUTAMENTI DI STILI DI VITA, PERDITA DI OCCUPAZIONE E STRATEGIE PER
RICONVERTIRLA, EQUILIBRI POLITICI, CRESCITA ECONOMICA (sia qui che al Sud) -
di ognuno dei punti di lotta listati al termine delle Dichiarazioni Finali dei
World Social Forum, e dei tanti altri slogan dell'Altro Mondo in Costruzione.
Non conoscere quei prezzi, non divulgarli, non farsene carico
e non convincere la gente ad accettarli è precisamente ciò che
condannerà Porto Alegre a parlare al vento, tante belle parole ma nessun
seguito fra la gente. Dunque il fallimento.
Per dare solo un’idea di quanto noi ricchi dovremmo pagare di tasca nostra per eliminare la sperequazione della ricchezza su scala globale, cito qui una cifra: un trilione e mezzo di dollari all’anno, ovvero 3 milioni di miliardi di vecchie lire annui. Chiediamoci: questa montagna di soldi garantirebbe il benessere a tutto il Terzo Mondo? Neanche per sogno. Eliminerebbe almeno la povertà? Neppure. Forse ridurrebbe la denutrizione infantile. Purtroppo no. Tre milioni di miliardi di lire sarebbero appena sufficienti per dare ai due miliardi di abitanti più disgraziati del pianeta due miseri dollari di sussistenza al giorno! (19) Vi lascio immaginare cosa ci costerebbe un mondo assai migliore.
Capita di rendersi conto, seguendo la vita italiana, che tanti di noi non sono disposti a pagare alcunché. Emblematica è una lettera pubblicata il 12/11/2002 dal quotidiano il Resto del Carlino, in seno a una iniziativa di ‘acquista il made in FIAT’ per sostenere la traballante azienda e i suoi lavoratori. Scrive un cittadino di Chiaravalle: "Aiutare la FIAT mi sta bene, ma la mia vecchia auto straniera con un litro fa oltre 17 km. Mi risulta che la Panda è ancora lontana da questi traguardi." Tradotto significa: ‘nel nome di un paio di chilometri in più al litro, per me che vadano pure in fumo i redditi di migliaia di famiglie italiane’. Ora immaginate di chiedere a questa persona di far rinunce per i poveri del Sahel! E siamo in tanti con questa mentalità.
Non ce n’è per tutti, e questo ci fa paura.
Terza ragione. Il fatto è che il Primo
Mondo si sta metaforicamente svenando per continuare a garantire non solo i
margini di profitto delle multinazionali, ma soprattutto il nostro standard
di vita. Porto Alegre dovrà saper convertire almeno la maggioranza di
quegli 800 milioni di persone il cui benessere oggi più che mai è
minacciato da ogni parte. E quelle persone hanno paura. Guardiamo alcuni dati.
L’agenzia di rating Standard & Poor ha calcolato che entro il 2050
il sistema fiscale dei maggiori paesi industrializzati collasserà, con
indebitamenti del 200% sul PIL, e questo signifca la disintegrazione delle previdenze
sia pubbliche che private. Negli Usa: dal 1973 al 1993 la retribuzione media
è crollata dell'11% - in Virginia, nella culla della New Economy, la
lista d'attesa per un posto al dormitorio è di 70 famiglie al giorno
- l'organizzazione Living Wage è nata per chiedere il salario di sopravvivenza(!)
per milioni di famiglie americane — il numero di coloro che vivono sotto
la soglia di povertà è di 33 milioni, mentre la povertà
infantile oggi è superiore a quella di 20 anni fa (13 milioni di bambini)
e questo è dovuto agli stipendi stagnanti e all'alto costo della vita
— il numero di cittadini americani senza copertura sanitaria è cresciuto
nel 2001 di 1.400.000 unità, per un totale di 44 milioni di individui.
In Gran Bretagna: gli ultimi dati sulla povertà parlano ufficialmente
di 1 povero su 4 cittadini, mentre gli esperti della previdenza integrativa
britannica hanno già affermato che neppure i fondi pensione privati potranno
garantire una sopravvivenza decente a milioni di futuri pensionati. Il numero
di studenti inglesi dei ceti medio-bassi che hanno oggi accesso alle ‘Grammar
Schools’, e cioè all’istruzione che più garantisce occupazione,
è ai minimi storici. In Giappone: il 3% delle imprese giapponesi si trova
oggi a mantenere a galla l'87% dell'economia al collasso, il debito nazionale
è al 130% del PIL, i consumi sono alla paralisi, la deflazione è
in agguato. La Germania ha toccato il tetto storico di 4 milioni di disoccupati,
perché oggi assumere in Germania costa il 40% in più che in Olanda
o in GB. E anche la ridente Italia si ritrova con 2.600.000 famiglie ufficialmente
povere (l’11%), mentre la Fiat calava del 10% all'anno nelle vendite, col
risultato che si è visto. Nel nostro Paese negli ultimi due anni i salari
degli operai sono aumentati appena dello 0,25 per cento, mentre quelli dei colletti
bianchi sarebbero addirittura diminuiti dell'1,1 per cento (come potere d’acquisto).
I fallimenti aziendali nel Primo mondo sono all'apice, i licenziamenti pure:
Ford, Motorola, Consigna, Fiat, France Telecom, Alcatel, Hitachi, General Motors
e Philips hanno in pochi mesi licenziato un totale di 222.000 lavoratori.
Di fronte alla PAURA che ciò crea in noi, i politici occidentali hanno
deciso di proteggere il nostro standard di vita in una lotta senza esclusione
di colpi e con l'arma del Protezionismo. Un dato: il Protezionismo delle merci
americane voluto da Reagan e da Clinton è stato superiore a quello di
tutti i presidenti americani nei passati 50 anni, George W. Bush mantiene il
passo e l’Europa non fa meglio. E’ in gioco il nostro standard di
vita, e lo reclamiamo senza pietà.(20)
Che il Neoliberismo sia una delle principali cause dei nostri stessi guai economici
è possibile, ma il punto è un altro: Porto Alegre sta dicendo
a questi 800 milioni di impauriti e insicuri, aggrappati alle loro auto, alle
vacanze, ai loro posti di lavoro, ai fondi di investimento, alle offerte speciali,
ai telefonini, ma soprattutto ansiosi di non farcela a mantenersi a galla, che
la soluzione sta in un Altro Mondo in Costruzione, di cui innanzi tutto non
conosciamo il prezzo, ma che soprattutto verrà fra quanto? 50 anni? 150
anni? 500 anni? Ma l’infermiere di Parigi, il commerciante di Positano,
la biologa di Madrid, il meccanico di Livorno, il taxista di Francoforte o la
maestra di San Diego hanno paura oggi, e vogliono oggi soluzioni a breve termine.
Cercano casa, devono curarsi o ripagare i mutui, hanno i figli all'università,
devono comprare un’altra auto o pagare le spese di condominio e hanno PAURA,
paura di non averne abbastanza, di perdere il lavoro, paura dell'immigrazione,
del terrorismo, e di tanto altro.
Soffermiamoci sulla paura. La giusta idea (e tema noto a Porto
Alegre) secondo cui la vera prevenzione dei conflitti sta nella giustizia sociale
ed economica globale non tiene conto di una cosa: che di fronte alla paura,
la parte meno evoluta della natura umana diventa ‘di destra’ e chiede
a gran voce soluzioni semplicistiche a problemi complessi (che è
il classico impianto della mente conservatrice). E' precisamente per questo
che di fronte all'11 Settembre, che di fronte a Richard Reid con l'esplosivo
nelle scarpe, che di fronte all’orrore della scuola di Beslan, che di fronte
allo spaccio di droga e alla violenza urbana, che di fronte alle convulsioni
dei miliardi di disperati del mondo, il politico che propone tali semplicistiche
soluzioni ottiene ampi consensi. Berlusconi, Blair e Bush l'hanno capito e in
questo sono stati geniali. Porto Alegre è tutto il contrario. E' moralità,
intelligenza, dedizione, elasticità delle analisi, creatività,
e soprattutto un lungo paziente lavoro per ottenere risultati duraturi a lungo
termine. Ma sapremo comunicare e convincere 800 milioni di persone spesso impaurite
che è meglio la gallina domani piuttosto che l'uovo oggi? E nel frattempo?
Perché anche se magicamente potessimo spegnere oggi stesso i mefitici
motori (che noi alimentiamo) del Fondo Monetario, del WTO, delle bolle speculative,
del Pentagono, della Commissione Europea, del Neoliberismo e dei nostri consumi,
l'abbrivio dell'odio contro di noi che abbiamo creato al Sud e la corsa dei
poveri al materialismo a tutti i costi durerebbe ancora decenni, e ancora per
decenni i benestanti del Nord dovrebbero fare i conti con i Bin Laden, con i
rapimenti, con i fanatismi, con le mafie globali, con tutto quello da cui ci
sentiamo minacciati oggi. E la domanda è: in quei lunghi anni di attesa
saprà Porto Alegre tenere vivo il consenso per le soluzioni intelligenti
e a lungo termine? Sappiamo benissimo che oggi, e in futuro, ogni qual volta
ci sarà un altro Daniel Pearl (21) assassinato dai fanatici o un’altra
Beslan, milioni di persone qui da noi riprecipiteranno nell'ansia e nella vecchia
convinzione che il dialogo non paga. Meglio le bombe. E infatti le macerie delle
Torri Gemelle non erano neppure state rimosse che già Thomas Friedman
scriveva sul New York Times: "Abbiamo ascoltato gli europei e abbiamo optato
per il Dialogo Costruttivo. I nemici dell'America hanno sentito in ciò
puzza di debolezza, e per questo noi abbiamo pagato un prezzo enorme... Quale
è l'alternativa degli europei? Aspettare che Uday Hussein, che è
ancor più psicopatico di suo padre Saddam, possegga armi biologiche per
colpire Parigi? No, Bush sta dicendo a questi Paesi e ai loro terroristi: 'Sappiamo
cosa state ordendo, ma se credete che staremo ad aspettare un altro attacco
vi sbagliate! Siete dei folli? Incontrate Donald Rumsfeld, è ancor più
folle di voi!' ... L'intenzione di Bush di essere almeno folle come i nostri
nemici è ciò che di giusto sta facendo." (22)
Non è la cecità di queste parole che conta qui, quello che conta
è che riflettono il consenso di milioni di occidentali impauriti.
E noi non li ASCOLTIAMO! Non sappiamo ascoltare la paura delle persone comuni,
quelle che così spesso ignoriamo e anzi, che scartiamo con un certo disprezzo
come rappresentanti di una bieca via di comodo, egoista e insensibile ai drammi
dei poveri. Ma che errore. Dovremmo fare il contrario e imparare ad accoglierli
con le loro paure, ascoltandole innanzi tutto, prima di proporgli ogni altro
discorso.
E dovremmo saper rispondere efficacemente a fatti come questo: la Commissione
USA per l’11 Settembre nel suo rapporto finale ha puntato il dito contro
l’Amministrazione Clinton perché nel maggio e nel dicembre 1998
il presidente americano cancellò due operazioni per catturare Bin Laden
in Afghanistan, per il rischio di vittime civili e per non essere criticato
internazionalmente come ‘aggressore’. L’agente della CIA Mike
Scheuer scrisse allora "Ci pentiremo di non aver agito" ..
.. Poi ci fu l’11 di Settembre, con la tragedia che è stato in USA
e per tutto il mondo dopo (e con la manna che ha rappresentato per l’establishment
della destra militare). E dunque di fronte a un’opinone pubblica che ora
sa che Bin Laden e la catastrofe globale che ha innescato furono lasciati essere
per ‘qualche scrupolo’ di legalità internazionale, cosa rispondiamo
noi? Forse qualche slogan garantista totalmente inadatto a placare la loro frustrazione
e rabbia, tanto meno a convincerli? Farcela qui sarà durissima.
Porto Alegre tiene conto nelle sue pubbliche manifestazioni e nelle sue strategie comunicative dell’insormontabile muro di insicurezze e di paure dietro cui sempre più l’Occidente si va barricando?
Quello che ci necessita sono strategie formidabili di comunicazione e di creazione di consenso, ma che siano nuove, perché come ho già detto i fallimenti a catena del passato ci impongono un radicale ripensamento dei nostri metodi di impegno e di lotta. La domanda è: Porto Alegre sta comunicando con la gente, sta creando consenso?
Porto Alegre sta comunicando?
Quarta ragione. Come si crea consenso? O forse
è meglio formulare la domanda con maggior precisione: quali sono i metodi
migliori per comunicare con la mira di creare consenso? Se assumiamo come vicina
al vero la descrizione che ho fatto degli 800 milioni di consumatori-elettori
benestanti del Primo mondo, e cioè gente in maggioranza assai restia
al cambiamento del loro standard di vita per il bene comune, la provocatoria
risposta che mi viene di getto è: non i metodi di Luca Casarini.
Casarini è un uomo di grande talento, scrive benissimo, come oratore
non è da meno ed è figura indispensabile nel panorama odierno,
per tenacia e per creatività, guai mancasse. Ma la sua comunicazione
è, a mio parere, un disastro.
La sua lotta "all’Impero", ho già scritto, è deviante
e fallimentare rispetto alla realtà, ma ciò che è anche
insidioso nella sua ideologia sono il concetto di ‘disubbidienza’
e il fervore ‘epico’ con cui sia lui che coloro che lo condividono
la mettono in pratica, come se avessero ricevuto una investitura di paladini
di giustizia globale. Mi soffermo brevemente sulla sua retorica. Scrive Casarini:
"Siamo disposti, per cambiare il mondo, a metterci in gioco fino a questo
punto, sfidando la violenza dell’Impero? Questa è la domanda e il
contrasto è fra chi è disposto a combattere pagando prezzi altissimi
e chi invece arriva fino a un certo punto e poi lascia perdere". (23)
Sottolineo proprio quest’ultima frase perché mi sembra sia arrogante
e discriminante porre un limite ‘virile’ sotto il quale un impegno
minore contro le ingiustizie va considerato con un certo spregio; saremmo fortunati,
e ci sarebbe da esserne grati, se tutte le persone anche solo una volta nella
vita facessero con noi un pezzettino della strada. Ma nel brano che ho citato
è soprattutto evidente la retorica epica con cui Casarini pone sé
stesso e chi lo condivide sulle perigliose barricate della lotta ai malvagi
("..chi è disposto a combattere pagando prezzi altissimi.."
— sarebbe stato auspicabile qui un po’ di rispetto sia per i luoghi
del mondo dove veramente si pagano prezzi altissimi nella lotta ‘all’Impero’,
sia per coloro che li hanno pagati, da Bhopal all’Ogoniland). I toni sono
da guerra santa, e non abbiamo forse già imparato dove esse ci portano?
Cosa fa credere a Casarini che ‘disubbidire’ sia ancora oggi la strada
più efficace? La precarietà di questa posizione è presto
dimostrata se ci immaginiamo la stessa ‘disubbidienza’ praticata,
con altrettanta fervente convinzione di essere nel giusto, dalla Destra conservatrice.
E infatti essa lo fa: Bush sta ‘disubbidendo’ ai seguenti trattati
internazionali e alle seguenti istituzioni 1) Biological Weapons Convention
2) Anti Ballistic Missile Treaty 3) Small Arms Treaty 4) International Criminal
Court 5) Kyoto Protocol 6) UN Convention Against Torture 7) Comprehensive Test
Ban Treaty 8) Organization for the Prohibition of Chemical Weapons 9) United
Nations Charter (24). Oltre all’Iraq, i governi di Israele, Turchia, Marocco,
Croazia, Armenia, Russia, Sudan, India, Pakistan, e
Indonesia stanno ‘disubbidendo’
a 91 diverse risoluzioni del Consiglio di Sicurezza dell’ONU. (25) Di Silvio
Berlusconi è superfluo scrivere. Ma attenzione: tutti costoro sono ferventemente
convinti che la loro ‘disubbidienza’ sia un sacro dovere per il bene
delle rispettive comunità o del mondo intero. Se è legittimo per
Casarini disubbidire, lo è per Bush, poiché non esiste sentenza
divina che aprioristicamente legittimi la giustezza della causa del primo rispetto
a quella del secondo; è solo una questione di individuali convinzioni.
E allora va chiesto: ‘disubbidire’ è un diritto solo se si
‘disubbidisce’ dal basso?
E’ una strada questa che rischia di aggrovigliare il Movimento, più
che spianarci la strada. Fare a pezzi i centri di ‘accoglienza’ temporanea
per immigrati, i Mac Donalds, tentare di penetrare la Zona Rossa di Genova o
di incatenare le saracinesche della Adecco non hanno portato a nessuna efficace
comunicazione con la pubblica opinione, non hanno creato consenso sui temi della
fame, delle guerre o dell’ambiente ecc., e di questo non mancano purtroppo
le evidenze. Ma soprattutto nasce qui il sospetto che al ‘metodo’
Casarini interessi assai poco penetrare le anime degli 800 milioni di consumatori-elettori
benestanti del nostro mondo; si ha l’impressione che la prima preoccupazione
di coloro che sposano questo metodo sia di soddisfare un proprio bisogno di
emozioni forti, quell’adrenalina che viene dagli slanci di Don Chisciottiana
memoria, ‘noi gli idealisti arrabbiati contro l’Impero del Male..’.
Dov’è il canale di comunicazione e creazione di consenso fra il
fervore dei centri sociali e i consumatori dell’Esselunga o delle Ipercoop,
fra le truppe dei ‘disubbidienti’ e i tifosi di Luna Rossa o i giovani
in carriera, fra le tute bianche e i milioni di italiani che si informano al
bar, guardando le reti televisive, o, peggio, per sentito dire? E si tratta
dei commercianti, delle casalinghe, dei giovani dei call center, dei lavoratori
più svariati, degli anziani, milioni di anziani, che votano, consumano
e che certamente ancora non abbiamo informato a sufficienza, tanto meno convinto.
Provate a sparpagliarvi fra loro e a chiedergli chi sono i ‘no-global’.
Io ho sentito riposte da brividi. Ve ne do un esempio emblematico: alla recente
partenza delle Carovane della Pace comboniane a Limone sul Garda (07/09/04),
abbiamo vissuto l’aperto ostruzionismo organizzativo da parte sia delle
autorità locali che del parroco del paese. Perché? Semplice, erano
terrorizzati dall’arrivo dei "no-global che avrebbero sfasciato tutto"
(!). Ecco come abbiamo saputo comunicare chi veramente siamo, noi del Movimento.
Qui la responsabilità è nostra. Punto.
E’ essenziale smettere di parlarci addosso: i nostri convegni, incontri,
dibattiti, vedono riunirsi ormai sempre gli stessi volti, lo stesso ‘popolo’
di gente già sensibilizzata che parla sostanzialmente a sé a stesso,
con rare eccezioni.
Lo stesso vale per tutte le anime del Movimento, che hanno il dovere di spingere lo sguardo oltre l’immediata gratificazione del proprio agire per verificare quanto realmente quelle azioni (marce, occupazioni, slogan, disubbidienze ecc.) stiano penetrando e convincendo la nostra immensa quanto statica collettività. Come ho già scritto, finora l’evidenza dei risultati è sconsolante.
Dobbiamo porci due domande: 1) Come tramutare l’ampio
consenso che la società civile occidentale dà al suo benessere
— col suo corredo di ottusità morale, egoismo, diffidenza di ciò
che è nuovo, pigrizia mentale, tendenza conservatrice del gruppo - in
un consenso verso l’esatto contrario, verso l’autocritica, l’altruismo
intelligente, il desiderio di sperimentare, la creatività, e una radicale
rivoluzione dell’essere ‘gruppo’, che sono l’essenza del
pensiero di Porto Alegre?
2) E come dialogare con miliardi di esseri umani del Sud del mondo, che
oggi dopo secoli di strazianti privazioni sono in corsa verso un materialismo
che difficilmente ammette mediazioni, affinché non replichino il nostro
scempio economico e interculturale?
Una precisazione è importante.
Comunicare e creare consenso oggi è opera di difficoltà
estrema, soprattutto per un motivo, eccolo: si chiama velocizzazione della
vita di tutti noi. E', per il cittadino medio, forse il principale ostacolo
all'adozione di stili di vita sostenibili, equi e solidali, in altre parole
il principale ostacolo all’adozione dei principi di Porto Alegre. I ritmi
di crescita economica desiderati ci tolgono il respiro, l'impegno del lavoro
oggi è una spirale in crescita continua. L'economia britannica vola ben
al di sopra della media europea, ma Londra è esente dal rispetto della
Direttiva Europea sul Tempo di Lavoro e molti inglesi stanno a lavorare più
di 48 ore alla settimana. Tony Blair se ne vanta. Ed Campodonico, giovane rampante
della New Economy di Seattle, lavora 84 ore alla settimana, e il suo ex datore,
la Microsoft, lo portava come modello. (26) Stiamone certi, questo è
il futuro dei nostri giovani, ma anche il presente non ci lascia spazi. Il fatto
è che per aderire al progetto di Costruire un Altro Mondo bisogna 1)
informarsi 2) dibatterne 3) partecipare 4) farsi carico dei PREZZI e tanto altro.
Le giornate della nostra vita sono fatte di 24 ore; se togliamo il lavoro, la
famiglia, il sonno, il mangiare, e la fatica di vivere di ciascuno di noi, non
rimane più nulla, anzi, già non è rimasto nulla a metà
strada di questo calcolo.
Come faremo a comunicare con persone che non hanno lo spazio
di vita per ascoltarci? Porto Alegre ha affrontato questo tema?
Credo che la ‘nuova’ comunicazione per creare consenso debba accantonare come secondari — nel senso di utilizzabili come seconde scelte anche se ancora utili in particolari frangenti- gli strumenti che per quarant’anni abbiamo privilegiato (manifestazioni, marce, sit-in, occupazioni, disubbidienze ecc.) e che appaiono ormai spuntati, per le ragione che ho spiegato in questo scritto. Credo fermamente che vada trovato un modo diverso di chiedere alla gente di sensibilizzarsi verso i mali globali e di assumere comportamenti che concretamente li combattano. Certamente appellarsi al senso morale, al rispetto dei diritti dei più deboli va bene, ma abbiamo visto che non basta. Far leva sull’orrore che suscitano le immagini di bimbi in agonia, di donne che si cibano di radici, di arti amputati dalle bombe, va bene, ma abbiamo visto che non basta. Recitare all’infinito le cifre della grottesca sperequazione della ricchezza nel mondo o dell’ingordigia delle multinazionali va bene, ma ancora non basta. Tutto ciò è stato fatto alla nausea e siamo a questo punto.
Trovare nuove arti per comunicare i temi di Porto Alegre e per creare consenso attorno ad essi, e farlo proprio fra la maggioranza meno sensibilizzata, è la sfida principale, assolutamente la più ardua, che tutto il Movimento deve affrontare. Non farlo, e cioè reiterare i vecchi metodi, condannerà Porto Alegre all’infelice destino delle rivoluzioni naufragate degli scorsi decenni.
Il ‘nuovo’ lavoro di comunicazione va svolto capillarmente, casa per casa, scuola dopo scuola, piazza su piazza, in tv, sui giornali, presso le associazioni professionali o di categoria, ipermercato per ipermercato, con iniziative pacate, originali, in associazione con chiunque ci porga una mano. E’ un lavoro poco ‘adrenalinico’, ma darà frutti duraturi, ma soprattutto offre una speranza di far breccia fra tutti coloro (la maggioranza) che di fronte ai milioni di appelli alla giustizia e alla solidarietà non hanno trovato motivi per agire.
A chi sta storcendo il naso, ricordo che sono quarant’anni che ci agitiamo nelle piazze, che ci parliamo addosso, ma la pensionata di Leeds, il camionista di Cuneo, l’avvocato di Brema, la segretaria di Madrid o il poliziotto di Atene non li abbiamo mai veramente raggiunti, mai convinti, forse mai veramente considerati. E sono i milioni di consumatori-elettori che poi spostano il mondo, e il cui potere di conservazione può travolgere noi e i nostri ideali come l’uragano con la pagliuzza.
Conclusione.
Sulla via per Costruire un Altro Mondo abbiamo dunque ostacoli immensi, forse
insormontabili, forse oggi è troppo tardi per fermare la locomotiva neoliberista.
Ma almeno una certezza io l'ho: dobbiamo 1) Farci carico che il Neoliberismo
("l’Impero") siamo anche noi, tutti noi. 2) Conoscere, divulgare
e farci carico degli esatti COSTI di un mondo migliore, e ottenere consenso
su di essi. 3) Scoprire nuove arti per comunicare e per creare consenso attorno
alle nostre speranze, imparando innanzi tutto ad ascoltare persone sempre più
impaurite, senza giudicarle.
Se non lo faremo, anche Porto Alegre si dissolverà in una inezia della nostra storia.
Paolo Barnard
Bibliografia.
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Per un mondo migliore
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