Piccoli sconti in un mare di debiti
Tra le risposte all'emergenza tsunami è stata proposta da diversi governi, a partire da quello tedesco, anche la concessione da parte dei paesi creditori di una moratoria sul pagamento del debito ai paesi colpiti dal disastro. Ieri il Financial Times ha anticipato che il governo inglese - tramite il Cancelliere dello scacchiere, Gordon Brown - lancerà al vertice del G8 di giovedì a Edimburgo un appello per alleviare il debito degli stati colpiti dal maremoto, tema che verrà ripreso pochi giorno, all'incontro del Club di Parigi del 12 gennaio e quindi al prossimo vertice Asean dell'area economica del Sud-Est Asiatico. Se si guarda a simili esperienze del recente passato, anche se su una scala più limitata rispetto alla catastrofe del sud-est asiatico, in realtà emerge subito come la proposta di moratoria offerta dai paesi ricchi si risolverà in ben poca cosa, se non in un ulteriore problema di debito per i paesi del Sud interessati. Ad esempio, nel caso dell'uragano Mitch che colpì nel 1999 l'America Centrale la moratoria sul pagamento del servizio sul debito per i paesi colpiti ha prodotto nell'arco di pochi anni un effetto controproducente, dal momento che il debito è complessivamente aumentato visto che gli interessi non pagati sono stati lo stesso capitalizzati per poi essere ripagati alla fine della moratoria.
Di più di una moratoria compassionevole senza dubbio si può fare per arrestare l'onda del debito che continuerà ad aumentare e ad abbattersi sui paesi colpiti dallo tsunami. Basti pensare che l'Italia, nello spirito della legge D'Alema del 2000, può effettuare subito una cancellazione del debito dovuto a prestiti dell'aiuto allo sviluppo, anche se rimarrebbe fuori gran parte del debito generato tramite le assicurazioni statali della Sace finite in indennizzi per le imprese italiane ed in ulteriore debito per i paesi del Sud.
Il G8 di quest'anno sotto la presidenza inglese ha già l'obiettivo di avanzare per la prima volta una cancellazione al 100 per cento del debito multilaterale controllato da Banca mondiale e Fondo monetario per i paesi più poveri ed indebitati, tra cui Tanzania, Kenya e Somalia in Africa. A tal fine la proposta inglese prevede sia lo stanziamento di fondi aggiuntivi, sia la vendita delle riserve auree del Fondo, quest'ultima questione che trova l'opposizione di quei paesi che come l'Italia dispongono ancora nella proprie banche centrali di ingenti riserve auree e temono l'impatto al ribasso sul prezzo dell'oro che una tale vendita produrrebbe. Per il resto del debito bilaterale di questi paesi, sarebbe sufficiente una cancellazione autentica al 100 per cento, come previsto dalla legge italiana, ma non ancora attuata appieno.
Se ci si sposta vicino all'epicentro del maremoto, troviamo invece una situazione debitoria dei paesi colpiti dallo tsunami alquanto eterogenea che richiederebbe soluzioni innovative e diversificate a seconda della tipologia di paese. Mentre Sri Lanka, Bangladesh e Birmania sono paesi paragonabili a quelli africani, senza dubbio molto poveri anche se un po' meno indebitati, gli altri sono economie importanti con un debito composito e sostanzioso. Infine, l'India, potenza regionale emergente, ha ormai i mezzi per risollevarsi da sola, nonostante il debito significativo che porta.
In questa situazione, se si vuole davvero risolvere il problema strutturale del debito e liberare risorse nel lungo periodo per la ricostruzione e lo sviluppo autonomo di questi paesi, due sono i passi necessari da intraprendere. Nell'immediato ci si deve impegnare a una cancellazione del debito significativa, sulla scia di quanto il Club di Parigi ha fatto senza precedenti nel caso dell'Iraq contravvenendo alle proprie stesse regole. Se ben l'80 per cento dell'astronomico debito iracheno si può cancellare perché imputabile a Saddam, allora perché non si può fare altrimenti per gran parte del debito indonesiano che risale in grandissima parte all'era di Suharto? Però, a differenza della decisione sull'Iraq, come richiesto dalla rete internazionale Jubilee South questa cancellazione dovrebbe avvenire senza alcuna condizione neoliberista imposta dal Fondo monetario al fine di produrre un reale beneficio per i più poveri sempre più esclusi dal libero mercato.
In seconda battuta, visto che per paesi come l'Indonesia, una parte sostanziosa del debito è dovuta a creditori privati, è necessario verificare la composizione e legittimità del debito sia pubblico che privato di questi paesi tramite un meccanismo di arbitrato equo, trasparente e indipendente, come avviene nelle procedure fallimentari in molti paesi del Nord. Sarebbe da chiedersi ad esempio, perché la popolazione indonesiana dovrebbe ripagare il debito generato per colpa delle errate prescrizioni del Fondo monetario mirate a porre rimedio allo «tsunami finanziario speculativo» del 1997 che sconvolse le economie del sud-est asiatico. Opportuno ricordare che nel 1971 proprio l'Indonesia beneficiò di un processo di arbitrato con la Germania che produsse una cancellazione del suo debito senza precedenti. Che questa volta, però, il debito si cancelli per autentici fini umanitari e non per motivi geopolitici.
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