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L'economia a forma di Pentagono

La scomparsa di Seymour Melman. Economista, attivista pacifista ha studiato la dipendenza dell'economia statunitense dalla produzione dell'industria bellica. Anticipiamo un brano del suo ultimo libro
8 gennaio 2005
Seymour Melman
Fonte: Il Manifesto (http://www.ilmanifesto.it)
War, Inc.: The Rise and Fall of America's Permanent War Economy è l'ultimo libro di Seymour Melman, che sta per uscire negli Stati Uniti con la Common Courage Press, e sarà pubblicato in Italia da Città Aperta Edizioni. Quella che anticipiamo è una parte dell'introduzione al volume. Il 10 settembre 2001, il Ministro della Difesa Donald Rumsfeld ha fatto un annuncio stupefacente: «non possiamo rintracciare 2300 miliardi di dollari di transazioni». Nel mondo degli affari, motivato dalla ricerca del profitto, una contabilità così sbadata sarebbe prova di incompetenza monumentale o di falsificazione deliberata. Ma non al Pentagono. Perchè qui la misura di successo più importante è l'aumento del potere, la capacità di controllare il comportamento delle persone e della nazione intera. Di fronte alla massimizzazione del potere, l'efficienza monetaria è secondaria. Sembra che tra i manager del Pentagono l'incapacità di far corrispondere pagamenti effettuati e beni e servizi ricevuti sia considerata uno spiacevole dettaglio, «briciole di bilancio». Ma 2300 miliardi di dollari sono più del valore netto di tutti gli impianti e i macchinari dell'industria manifatturiera americana, che valgono 1800 miliardi di dollari. Che tipo di sistema economico può accettare pasticci di questo tipo? Nel suo discorso del 10 settembre 2001, Rumsfeld notava inoltre che al Pentagono «non possiamo condividere l'informazione da un piano all'altro di questo edificio perchè essa è gestita da decine di sistemi tecnologici che sono inaccessibili o incompatibili tra loro». Come possono succedere queste cose? E come può succedere che la «perdita» di 2300 miliardi non sia percepita come un problema? Quando George W. Bush ha inaugurato la sua prima amministrazione, ha deciso finanziamenti di miliardi di dollari per la sua strategia di estendere l'egemonia Usa nel mondo. Questa campagna, che abbiamo visto all'opera in Iraq, Afghanistan e in preparativi per altre guerre, ha consumato le risorse di cui aveva bisogno l'economia civile degli Stati uniti. Nello stesso periodo l'America ha assistito all'accelerazione del suo declino industriale e a grandi perdite di posti di lavoro, mentre i manager Usa trasferivano in Cina le linee di produzione, alla ricerca dei profitti finanziari consentiti dai salari cinesi - dai 65 ai 90 dollari al mese. Lungo questa strada, che opportunità ci possono essere per i giovani americani se non arruolarsi nelle forze armate del Pentagono? L'obiettivo centrale di questo libro è di proporre una strada per rovesciare questa tendenza al declino industriale. Un processo di modernizzazione delle infrastrutture e delle industrie collegate - come proposto dalla American Society of Civil Engineers - potrebbe creare da uno a quattro milioni di posti di lavoro produttivi, e dare nuova vita alle grandi industrie manifatturiere degli Stati Uniti. [...] Alla fine della seconda guerra mondiale la prospettiva internazionale del governo di Washington era quella di una competizione globale con l'Unione Sovietica. Lo sviluppo di capacità nucleari militari da parte dell'Urss portò a stringere i legami tra imprese e governo americano. L'economia di guerra permanente divenne la strategia chiave per combattere la guerra fredda; destra e sinistra concordavano che l'economia americana poteva produrre sia burro che cannoni. [...] Ma gli economisti si ingannavano e non riuscivano a distinguere uno sviluppo produttivo da una crescita parassitaria. Il primo è rappresentato dall'espansione di beni e servizi usati per il consumo o per nuove produzioni. La seconda riguarda prodotti inutili per il consumo e l'investimento che tuttavia sono associati a valori monetari e inclusi nel calcolo del Prodotto interno lordo. Le produzioni di guerra hanno nascosto il declino delle produzioni civili; il risultato è stato devastante per l'industria (specie quella dei beni capitali), le infrastrutture e la società americana.[...] La lunga durata dell'economia di guerra permanente degli Stati uniti, dalla fine della seconda mondiale a oggi, ha portato allo sviluppo di strutture amministrative e di politiche economiche che hanno formalizzato lo stretto legame tra i manager delle imprese, che puntano al massimo profitto, e i manager di stato, che puntano al massimo potere. I due stili di management si sono intrecciati ed essi si spostano senza difficoltà dal governo all'industria e di nuovo al governo, come abbiamo visto nelle storie personali del presidente Bush e del vice-presidente Cheney. I due partiti politici tradizionali si differenziano poco nelle loro ideologie politiche e i loro leader sono parte dell'economia di guerra permanente e delle tattiche politiche ed economiche che essa richiede. I candidati di entrambi i partiti trovano terreno comune nell'approvare le politiche di libero scambio e globalizzazione, e nessuno di loro presta attenzione all'esportazione di posti di lavoro dagli Stati uniti e alla trasformazione di molti centri urbani in città fantasma, con fabbriche e quartieri vuoti. [...] Negli Stati uniti opera oggi un sistema di guerra senza limiti geografici, economici o politici, che ha dimostrato i suoi effetti distruttivi all'interno come all'estero. Un elemento cruciale di questo sistema di guerra è che il governo Usa si è trasformato, a sua volta, da organo politico in un sistema manageriale composto da manager-burocrati con potere sulla politica e sulle imprese. Questa combinazione è una sorta di capitalismo di stato, che ha la pretesa di accrescere senza limiti il proprio potere. Questi stessi manager pretendono di operare un'economia le cui risorse sarebbero, dal loro punto di vista, illimitate. In realtà, invece, è il motore della crescita della ricchezza americana che si è spezzato.

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