Un radicale disarmante
La denuncia di come la corsa agli armamenti sia stata usata per fermare il declino industriale degli Stati uniti. Dalla guerra in Vietnam alle proposte per riconvertire il complesso militare e industriale
8 dicembre 2004
Mario Pianta
Fonte: Il Manifesto (http://www.ilmanifesto.it)
Anticipatore, radicale e intransigente. Questo è stato, nell'economia, nella politica e nel pacifismo americano Seymour Melman, morto il 16 dicembre scorso, nella sua casa di New York, all'età di 86 anni. Mentre l'amministrazione Bush procede con la sua strategia di «guerra infinita», Melman aveva argomentato fin dagli anni Settanta che gli Stati Uniti hanno un'«economia di guerra permanente». La sua capacità di legare processi economici, analisi politica e denuncia del potere militare ne hanno fatto una figura essenziale per la sinistra radicale degli Stati uniti, che ha accompagnato il percorso di personaggi come Ralph Nader e Noam Chomsky. Per oltre mezzo secolo, con un'intransigenza a volte scomoda, ha animato le campagne pacifiste e le strategie statunitensi di disarmo, come co-presidente del Sane, Committee for a Sane Nuclear Policy, la principale organizzazione pacifista Usa e poi come presidente della Commissione nazionale per la riconversione e il disarmo. Nel 1982 fu uno degli oratori alla grande manifestazione du New York per bloccare la corsa al riarmo, lanciata dal freeze movement in parallelo a quelle che si tenevano in Europa e in Italia contro gli euromissili. Cresciuto nella New York ebraica e antifascista degli anni venti e trenta, Melman trascorre il 1940 in un kibbutz in Palestina e poi è chiamato sotto le armi durante la seconda guerra mondiale. Dopo la laurea al City College, l'università pubblica di New York, diventa un brillante professore alla Columbia University che si occupa di economia industriale e, fin dall'inizio, dei rapporti tra produzioni civili e militari. Di fronte all'avvio della guerra fredda e alla corsa al riarmo nucleare, documenta la dimensione economica di questi processi e inventa il termine overkill: calcola che gli Stati uniti hanno la capacità di distruggere l'Urss 1250 volte, mentre l'Urss può farlo soltanto 145 volte.
Ma di grande interesse è il suo percorso politico: formatosi nella sinistra radicale newyorkese, ispirato da Veblen e da Marx, Melman riuscì a legare la tradizione del radicalismo istituzionale degli anni Trenta con le esperienze della sinistra non comunista, senza mai rinunciare alla critica del capitalismo - come fecero invece decine di intellettuali ex trotskisti della sua generazione, diventati negli anni Ottanta apologeti della nuova destra Usa. È tra i protagonisti dell'opposizione alla guerra in Vietnam e delle diverse ondate del movimento per la pace, mantiene stretti rapporti con il sindacato più politicizzato degli Usa, quello dei Machinists, ma non si limita al lavoro «dal basso». Nel 1972 sostiene George McGovern, il candidato democratico che incarnava la prospettiva della pace in Vietnam, sconfitto da Richard Nixon; con lui - e altri democratici progressisti - manterrà uno stretto rapporto per avanzare in Congresso le proposte di legge sulla riconversione dell'industria militare Usa.
Il suo impegno pacifista lo porta a sviluppare le alternative concrete che possono sostenere un sistema di pace, sia sul fronte del disarmo, sia su quello della riconversione dell'economia. È questa la linea di ricerca che lo porta a scrivere decine di volumi da Inspection for disarmament e The Peace Race, fino a The demilitarized society.
Economia e militarismo, pacifismo e cambiamento politico sono i temi che si intrecciano in After capitalism (Knopf, 2001) la sintesi del lavoro di una vita, il tentativo più impegnativo di proporre un'alternativa al capitalismo che passi per il recupero di controllo da parte dei lavoratori: «dal sistema manageriale alla democrazia sul posto di lavoro». L'analisi di Melman è suggestiva perché collega i processi economici, dominati dalla logica del profitto, e le politiche militari, dominate da una logica di potere. I profitti si investono in posizioni di potere - nei mercati, nella politica nazionale e internazionale, nel sistema militare - e il potere assicura a sua volta il flusso di profitti. Alla radice di questo modello c'è, secondo Melman, la progressiva centralizzazione del potere decisionale nelle mani di grandi manager, privati e di stato, che hanno sottratto a lavoratori e cittadini il controllo su decisioni essenziali per il loro futuro. È un ritorno al cuore del capitalismo, individuato da Melman (con Marx) nei rapporti sociali che espropriano i lavoratori, mentre la ricerca del «dopo-capitalismo» sta nelle pratiche che restituiscono a lavoratori e cittadini il controllo sul loro destino. Una lezione importante anche per i movimenti globali che stanno nuovamente intrecciando il rifiuto della «guerra infinita» e della globalizzazione neoliberista.
Melman ha passato alcuni mesi in Italia nel 1990, come visiting professor all'Università di Firenze, e ha spesso partecipato a convegni e iniviative pacifiste in Italia, stimolando campagne come quella per la riduzione della spesa militare («Venti di pace») e la riconversione dell'industria bellica. Ci ha lasciati un maestro - con cui ho avuto la fortuna di lavorare - che portava gli studenti a visitare acciaierie e catene di montaggio, e che sapeva, alla fine di una cena tra amici, mettersi a suonare il flauto o l'armonica per divertire una bambina. E la musica era quella di Bandiera rossa.
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