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Dio non era nel maremoto

5 gennaio 2005
Raniero La Valle
Fonte: Liberazione

«Dio non era nel terremoto». Questa affermazione perentoria è stata fatta dallo scrittore biblico, molto prima che qualche cardinale venisse ad inquinare le acque, quelle del maremoto asiatico, col dire: "Dio ha voluto metterci alla prova". L'intenzione del cardinale Martino era buona (alla prova sarebbe "la nostra capacità di essere solidali") ma questo tirar Dio dentro il terremoto è devastante, perché un Dio così, a questi prezzi, nessuno lo vuole. L'ateismo ne sarebbe l'unico rimedio; e allora non ci si può lamentare se Eugenio Scalfari, nel concludere sulla Repubblica il dibattito sul laicismo, dice che Dio muore e le religioni restano, e se deve essere lui a ricordare che "Gesù di Nazareth ha modificato il Dio di Abramo, di Giobbe, del Qoelet, il creatore del Leviatano, il Dio incontinente e tuonante dall'alto dei cieli".

Dio non c'entra con i terremoti ma, per i credenti, c'entra con la risposta da dare ai terremoti, come al crollo delle Torri Gemelle come ad ogni altro disastro e sciagura, che sia provocata dalla natura o dall'uomo.

Lo scrittore biblico l'aveva avvertito anche prima che si rivelasse il Dio di Gesù: "Ci fu un vento impetuoso e gagliardo da spaccare i monti e spezzare le rocce davanti al Signore, ma il Signore non era nel vento. Dopo il vento ci fu un terremoto, ma il Signore non era nel terremoto. Dopo il terremoto ci fu un fuoco, ma il Signore non era nel fuoco. Dopo il fuoco ci fu un mormorio di un vento leggero", e Dio era lì, come racconta il Primo libro dei Re.

L'idea che Dio c'entri con i terremoti, gli tsunami e le stragi, di innocenti o non innocenti, sia pure per metterci alla prova, deriva da una incauta lettura provvidenzialista della storia, che è stata veicolata anche dalla tradizione cristiana, fino a rispecchiarsi nel detto popolare: "non si muove foglia che Dio non voglia".

In effetti è una lettura che non solo fraintende il Dio di Gesù, che è il Dio della redenzione e non delle mazzate, ma anche il Dio della creazione, nella quale è incluso il Sabato, nel quale Dio "si riposò"; il giorno del riposo di Dio è il giorno della storia, nel quale si sprigiona l'opera della mente e delle mani dell'uomo (il lavoro), e la natura ha il suo corso.

È intervenuto il Papa, domenica scorsa, a chiarire il rapporto tra Dio e le catastrofi; esso consiste in questo, che "anche nelle prove più difficili e dolorose, Dio non ci abbandona mai"; dunque è un rapporto di amore e di libertà. Ma anche Wojtyla non sempre ha pensato così. Come lui stesso ci racconta nel libro autobiografico che sarà pubblicato quest'anno, quando era ancora solo un giovane prete polacco, alla caduta del nazismo, pensò che Dio avesse concesso al nazismo un termine di dodici anni, oltre il quale non andare, mentre al comunismo, in quanto "male necessario", ne stava concedendo molti di più; era appunto un ragionare acerbo, perché che Dio sarebbe quello alla cui "concessione" si dovessero far risalire i milioni di morti e i dolori provocati nei soli dodici anni di nazismo, o le conseguenze di mali "necessari" non imputabili alla sola responsabilità umana?

Dopo Auschwitz il provvidenzialismo, nel senso antico, è stato profondamente ripensato, e anche dopo lo tsunami lo deve essere. La questione "quale Dio" è la vera questione irrisolta, e non solo in Occidente. Quella che invece è stata prepotentemente riaperta è la "questione religiosa", e tutti ne discutono, anche quelli che non credono affatto, magari per gettarla nella fornace dello scontro di civiltà con l'Islam, per fornire un'identità all'Europa, per inventarsi una "religione civile" e una chiesa non confessionale, o per rivendicare i fasti dei "monaci in armi" come nella mostra storaciana di Castel Sant'Angelo. E così tutto si confonde.

Noi non abbiamo alcuna ragione di riaprire una questione religiosa, che nello Stato laico e nel diritto ha già la sua soluzione. La questione è invece di sapere che Dio è quello cui si appella Bush per la sua guerra perpetua e la sua Guantanamo che imprigiona a tempo indeterminato, quello cui si appella Sharon per negare ai palestinesi una terra che in quanto promessa "è degli ebrei e degli ebrei soltanto", quello a cui si appellano gli islamisti per dire che se Israele vince con l'ebraismo, l'Islam deve vincere con la sharía e con lo Stato coranico, quello che perfino Berlusconi evoca per la contesa casareccia del bene contro il male e degli angeli contro i "demóni". Perché di certo o qualcuno di questi dii non è il vero Dio, o è un Dio che per primo si deve convertire; o si deve convertire la percezione che abbiamo di lui.

Ciò detto, resta il grido che si è levato dalla terra e dal mare dell'Asia, che ci dice tre cose: la prima è che la terra è in pericolo, e che il chiavistello delle acque che oggi è stato aperto dalla natura, domani può essere fatto saltare da noi e dalla nostre politiche dissennate; la seconda è che la terra è una, l'umanità è una, non c'è un destino per i poveri e per i ricchi, e perciò sono illusorie le politiche fondate sulla discriminazione tra privilegiati ed esclusi, tra salvati e sommersi sul piano mondiale; la terza è che non c'è "un Dio che gioca a dadi" con l'Apocalisse, e non "casca il mondo", come titolava il Manifesto; ma che vanno rovesciate le politiche apocalittiche che giocano d'azzardo con la storia, che si ritagliano un mondo da salvare e da godere contro un mondo a perdere e da lasciar patire, e gli dichiarano una guerra sacrosanta e infinita.

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