L'etica ambigua dell'aiuto
Missionari di civiltà, soggetti politici loro malgrado oppure volontari con una forte carica etica. Sono diverse, e talvolta contrastanti, le immagini che gli operatori delle organizzazioni non governative (Ong) hanno dato di sé in questi ultimi anni. Negli anni `90, ad esempio, il loro spirito di servizio non era solo il prodotto di una testimonianza, ma un'etica civile. L'autobiografia di Jean Sélim Kanaan La mia guerra all'indifferenza, (Marco Tropea, pp. 222, 14) ne offre l'immagine più nitida e consapevole. Di origini franco-egiziane, residenza a Roma e studi a Harvard, Kanaan lavorò per un decennio al servizio dell'Onu, a partire dal programma di ricostruzione coordinato da Kouchner in Bosnia, e morì a Baghdad nell'attentato dell'agosto 2003 contro il quartier generale dell'Onu. «Nelle Ong ho incontrato delinquenti, alcolizzati, frustrati sessuali, ogni sorta di disperati - scrive Kanaan - In Bosnia quel triste spettacolo umano aveva raggiunto l'apice». Kanaan descrive una fase di passaggio dal volontariato all'impegno professionale nella lotta per i diritti umani, la dignità della persona el'umanità in generale. «All'inizio degli anni `90 - ricorda Kanaan - si pensava che le Ong avessero superato la fase in cui si basavano unicamente sulla militanza degli operatori. In un certo senso si erano democratizzate aprendosi a volontari con un buon livello di studi». Malgrado l'improvvisazione delle reti costruite in quegli anni - aggiunge Kanaan - «alcune Ong compresero una cosa che i militari sanno da anni...: se in missione non ti senti a tuo agio sei pericoloso per te e per gli altri».
Contro le Ong «dominate da antimilitaristi», riferendosi probabilmente a quelle «di sinistra» italiane e non, Kanaan sostiene che, per fare un buon lavoro, le Ong devono cooperare con gli eserciti che dirigono le operazioni nel dopoguerra, possiedono le risorse logistiche e finanziarie e possono difendere le infrastrutture installate dalla cooperazione sul territorio. Il livello di integrazione e cooperazione tra civili e militari raggiunto in quel decennio servì a combattere, a suo avviso, «l'inerzia e l'obbligo di neutralità delle grandi istituzioni umanitarie internazionali come Onu, Croce rossa e Alto commissariato per i rifugiati».
In quegli anni `90, il moltiplicarsi degli interventi umanitari annunciava per alcuni la nascita di un nuovo ordine mondiale fondato sui diritti umani. Non mancarono i nobel a Médecins sans Frontières nel `99 e ad Annan nel 2001 che consacrarono l'idea di una pace garantita dalla comunità internazionale rappresentata dall'Onu con il sostegno militante delle Ong. La formazione di agenzie internazionali per gli affari umanitari, come quella europea Echo (`92), diede vita a una rete internazionale nelle zone di crisi insieme alle agenzie Onu per gli affari umanitari (Unhcr) e per lo sviluppo (Undp). «Era una rivoluzione del mercato umanitario», scrivono Thierry Pech e Marc-Olivier Padis in Le multinazionali del cuore. Le organizzazioni non governative tra politica e mercato (Feltrinelli). E grande fu la crescita dei dividendi. Dall'88 al `96 la spesa annua per gli aiuti umanitari lievitò da 410 milioni a 3066 milioni di euro nei soli paesi Ocse. In Italia, tra il `79 e il 2002, le Ong crebbero del 300%: da 40 a 154.
La crescita del mercato umanitario seguiva l'espandersi dei nuovi conflitti. Negli anni `90, le guerre tradizionali tra stati erano una minoranza, poco più del 5% del totale. La maggioranza dei conflitti (94 su 111) era dovuta a cause di natura interna o internazionale. I profughi, i rifugiati e gli sfollati interni passarono nel frattempo da 4 a 22 milioni, mentre i caschi blu Onu inviati nelle zone di crisi crebbero da 10 mila a 38 mila. Erano guerre non statali che, soprattutto in Africa, colpivano i civili creando drammatiche crisi umanitarie e moltiplicando i conflitti tra le fazioni etniche in lotta per la conquista dei mercati locali delle armi e delle risorse. Quello fu il momento in cui si diffuse tra le Ong l'idea che queste crisi dovevano essere affrontate con il dispiegamento dei mezzi tecnici e logistici. L'intervento umanitario si poneva programmaticamente sul piano del servizio evitando così di essere coinvolto nella lotta per il potere tra le fazioni.
In questo contesto maturava un'altra immagine dell'operatore umanitario, nettamente opposta al volontario, quella del missionario di civiltà. Alla fine dello scorso decennio, gli eserciti Nato iniziarono una riconversione strategica delle attività militari verso quelle di «peace-keeping» in un'ottica di difesa proiettiva della pace, dei «valori della democrazia» e della stabilità geopolitica in diverse zone del pianeta: i Balcani, Timor Est, Ruanda senza dimenticare la Somalia. Fu nel 1993, scrive il generale Bruno Loi, responsabile della missione «Ibis» in Somalia, in Peace-keeping. Pace o guerra? (Vallecchi, pp. 263, 16), che maturò una nuova consapevolezza della natura di tali operazioni. L'intento di portare la pace con un'operazione armata non sottraeva i militari a una logica di guerra. Li spingeva anzi ad assumere un ruolo di supplenza rispetto alle strutture civili distrutte nel conflitto. In Somalia si verificò «un continuo intersecarsi delle attività di soccorso umanitario con attività più spiccatamente militari - scrive Loi - tendenti al conseguimento di un adeguato grado di controllo del territorio».
Quella di Loi è una testimonianza che spiega la natura del peace-keeping e la riconversione dei militari a difesa dei diritti umani nel mondo avvenuta nello scorso decennio. L'esercito italiano iniziava ad agire all'estero in un'ottica di protezione dell'ordine pubblico, (disarmo, pattugliamento e sequestro delle armi, ricostruzione della polizia locale), di riavvio della vita civile (ricostruzione di scuole, orfanotrofi, strade, edifici), ma doveva ugualmente affrontare conflitti a fuoco contro forze non convenzionali. L'ottica dell'intervento di polizia internazionale non mirava alla creazione del consenso tra le fazioni, operazione alquanto problematica nel contesto somalo mortificato dallo scontro tra bande, ma alla neutralizzazione del conflitto in atto. La teoria dell'ingerenza umanitaria non escludeva l'uso delle armi per debellare il nemico, ma lo teorizzava per «normalizzare» il terreno e impostarne la ricostruzione civile. In questa prospettiva nessuna forza di pace militare avrebbe potuto resistere a lungo sul campo, a meno che non si fosse costituita una rete di Ong capaci di lavorare senza limiti temporali né economici. Ma il problema rimane lo stesso: chi protegge i missionari nel quotidiano esercizio di evangelizzazione civile? E come sostenere le ingenti spese di un intervento militare che, per sua natura, rischia di durare anni senza per questo arrivare a un risultato in termini di stabilizzazione sociale e di ripresa economica dei paesi colpiti dalle guerre?
La commistione tra militari e civili, tra interessi strategici e umanitari, divenne clamorosa nell'operazione «Arcobaleno» organizzata dal governo D'Alema con l'apporto della protezione civile italiana. L'uso politico della cooperazione tendeva, durante il bombardamento della Serbia, «a costruire un consenso umanitario dell'opinione pubblica italiana» scrive Giulio Marcon, il presidente del Consorzio italiano di Solidarietà (Ics), in Le ambiguità degli aiuti umanitari. Indagine critica sul Terzo Settore (Feltrinelli). Quella missione era la manifestazione dell'umanitarismo militare che insidiava la «diplomazia dal basso» della cooperazione non governativa con massicci aiuti economici veicolati dai colossi del mercato umanitario globale e dai governi che intendevano proteggere i propri interessi nazionali nell'area. Nel `99 i confini tra politica e umanitarismo scomparvero del tutto. Per Bernard Kouchner, infatti, il diritto d'ingerenza per la difesa dei diritti umani segnava la nascita del «movimento pacifista del nuovo millennio». «Il velletarismo morale» di Kouchner, ricorda David Rieff, autore di Un giaciglio per la notte. Il paradosso umanitario (Carocci), poneva la guerra al riparo da ogni contestazione. In quel momento «l'umanitarismo diventava, per quanto inconsapevolmente, un principio totalitario». Lo stesso paradosso si è ripetuto in Afghanistan. «Le Ong sono per noi un enorme moltiplicatore di forza, una parte importantissima della nostra squadra di combattimento» disse l'ex segretario di stato Usa Powell nell'ottobre 2003.
Al tempo della guerra globale contro il terrorismo, l'integrazione delle Ong nell'umanitarismo militare è giunto a una nuova svolta. Gli operatori umanitari sono considerati senza sfumature «guerrieri democratici». Con conseguenze gravi. Da una parte c'è infatti la strategia dei rapimenti che utilizza i corpi degli operatori sequestrati, e le loro immagini straziate (da Enzo Baldoni a Margaret Hassan, di sicuro estranei alla logica del «guerriero democratico») per le esigenze della guerra mediatica contro gli occupanti. Dall'altra, in particolare in Italia, c'è la progressiva estensione del codice militare di guerra a tutte le missioni di peace-keeping (Mozambico, Somalia, Bosnia, Kosovo e Iraq), a cui finora è stato applicato il codice di pace, prospettata dalla riforma delle leggi penali e della giurisdizione militare che ha l'intento di ridurre la differenza tra personale militare e operatori umanitari. (vedi l'intervista a De Fiores).
Il rapimento di Simona Pari e Simona Torretta di «Un ponte per...» risente appieno di questa trasformazione. Sin da maggio le due donne, e la loro organizzazione, avevano aderito «a un coordinamento alternativo a quello americano per portare avanti interventi in maniera indipendente, neutrale e imparziale, come vogliono i principi fondamentali del diritto umanitario», ha scritto Torretta sull'Espresso. «Non volevamo esportare o imporre niente, solo facilitare un processo che nasce dal basso», aggiunge Pari. La difficoltà di un'azione alternativa sul terreno inquinato dalla cooperazione tra i militari e le altre Ong era evidente: «Quando vidi gli Ulema mi accorsi che non avevano una percezione nitida di chi fossimo e cosa facessimo. Non noi in particolare, ma le associazioni umanitarie in generale», racconta Torretta. Il rilascio è stato senz'altro il riconoscimento della diversità del loro approccio, ma è indubbio che il rapimento andava ben al di là delle differenze politiche tra le tipologie di lavoro umanitario. Ai danni delle due volontarie è stata operata una duplice politicizzazione: da parte dei rapitori, il loro uso politico contro il governo italiano e, da parte del governo, l'uso della loro liberazione a favore della propria strategia di esportazione della democrazia in Medioriente. Estranee a questa dialettica, le due Simone sono rimaste loro malgrado vittime dell'ambiguità politica del lavoro umanitario in una zona di guerra.
Quando riusciranno finalmente a tornare in Iraq, le Ong si confronteranno con una situazione di belligeranza che non cesserà dopo le elezioni di gennaio, impedendo il ritorno alla vita civile, ma anche la ridefinizione dei confini legali tra il momento della pace e quello della guerra, tra le finalità delle operazioni militari e quelle di ricostruzione delle relazioni economiche e sociali. E' presumibile che da quell'Iraq «normalizzato», le truppe occupanti non riusciranno a ritirarsi in tempi brevi, come in Somalia, né potranno ricevere facilmente la legittimazione dell'Onu, come in Kosovo. Nella nuova economia globale di guerra non dovrebbe essere tuttavia difficile immaginare che una sedicente operazione di peace-keeping possa durare una o più generazioni. E' solo una previsione, naturalmente. Che potrebbe fare la fortuna del mercato umanitario.
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