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La festa che porta memoria

3 gennaio 2005
Marco Pasquini (Autoproduzioni Abbasso il GradoZero)

Cari amici, sostenitori, collaboratori,
dal Libano vi spedisco queste righe.
In questa prima decina dell'anno si faranno le sorti del popolo
palestinese, pensa qualcuno, mentre qui si crede siano già state decise.
Il 9 gennaio sarà giorno di elezioni in Palestina, che le cose qui possano
cambiare non ci crede proprio nessuno, almeno come non crede nessuno ci
possano essere delle elezioni libere in un territorio occupato.
Oggi, ultimo dell'anno, si è fatta festa comunque e non per festeggiare il
nuovo venuto, ma per commemorare la nascita di Al Fatah. Sono 40 anni
ormai e quest'anno la morte di Abu Ammar ha amplificato l'evento: le foto
di Arafat sono dappertutto nei campi, le più grandi appese in cima agli
edifici, o alle macerie degli edifici, le più piccole svolazzano dai fili
elettrici o sono incollate ai muri. In questi giorni del 1965 riusciva la
prima importante operazione militare dell'organizzazione ed oggi qui si
scende in piazza.
Sulla strada che costeggia il campo di Chatila c'è euforia, una piccola
sede di Al Fatah ha messo delle grandi casse sul tetto, dalle quali la
musica assordante e distorta risuona tra i claxon delle macchine chiuse
nell'inevitabile ingorgo.
È festa che porta memoria, orgoglio e dolore, mai rassegnazione; la
resistenza contro l'occupazione, qui come altrove, si celebra e si
ricorda per trasmetterne il significato. Sono sceso in strada per essere
con loro, perché un popolo che lotta non deve mai sentirsi isolato.
Ho passato la mattina a casa di Youssef, Abu Marher, al Gaza Hospital; lì
tra un taglio di capelli e una rasatura di barba, alcune visite e qualche
tazza di the sono passate le ore. Abbiamo aspettato Abu Jamal nel
pomeriggio e quando è arrivato siamo andati insieme; uscendo dal cortile
di casa per la prima volta da quando sono ritornato ho usato la telecamera
con loro…erano troppo belli! Attraverso i bui corridoi e le scale del
palazzo abbiamo raggiunto la strada di Sabra, da dove con un service siamo
andati al campo profughi di Burj El Barajneh, nel distretto sud di Beirut;
è il campo più affollato della città. Nel taxi Youssef mi ha raccontato,
mentre registravo, dove stavamo andando e il perché…in arabo! Ormai c'è
un'ottima confidenza e lui sa bene che quando parliamo tra noi usiamo
l'inglese mentre quando ho la telecamera in mano parla arabo e riesce a
spiegarsi meglio; è il suono della sua lingua, la musica stessa della sua
terra, sa che mi piace così e non si fa problemi, ormai ha acquisito
quelli che si dicono i tempi cinematografici…scherzando glielo dico e lui
ride, c'è proprio una bella atmosfera dentro al taxi, sembra quasi di
essere in gita.
Insieme ci siamo uniti alla manifestazione; li ho seguiti con la
telecamera e quando mi fermavo a fare delle riprese mi aspettavano.
Bambini, vecchi, adulti e ragazzi, gente di tutte le età marciava per i
vicoli del campo al suono dei tamburi e di alcune cornamuse, in molti
avevano una maglietta gialla con stampata sopra l'immagine di Abu Ammar
con alzata la mano in segno di vittoria. E'difficile dire quanta gente
c'era, i vicoli sono stretti e il corteo era lungo.
Era quasi finito quando da dietro mi sento toccare la spalla e mi
giro…Mohammed! Che bello vederti ancora, come stai, quando sei arrivato,
come mai ancora da queste parti, sei il benvenuto…sembrava che reciproche
domande e risposte non finissero mai. Mohammed Abu Rudeina è un altro
degli abitanti di Chatila che ho seguito nel documentario girato a
settembre; ha perso la sua famiglia nel massacro di Sabra e Chatila e fa
parte del gruppo che ha denunciato Sharon alla corte Belga, è giovane e
arrabbiato…ma questo è un altro "Incontro" e di lui parlerò un'altra
volta. Passero' da lui questi giorni, caldo e puntuale è arrivato
l'invito.
La manifestazione è ormai finita, è buio nei stretti vicoli del campo e la
gente si disperde; "yalla" dice Abu Marher e si ritorna verso Chatila,
andiamo. Ci fermiamo al campo, anche qui c'è molta gente e la strada è
bloccata; entriamo da dietro e passando vicino a dei palazzi distrutti
vicino a un muro che segna l'inizio della zona del campo, Youssef mi si
avvicina e a bassa voce mi indica da dove sparavano le milizie di Amal,
quando nella Guerra dei Campi hanno assediato Sabra e Chatila
distruggendone una buona parte che non è più stata ricostruita. Macerie,
terra e spazi vuoti.
Abu Marher ha perso il figlio nel conflitto, Marher era il suo nome e
aveva solo 13 anni; parla a bassa voce perchè Amal continua ad essere una
realtà molto forte qui, e non vuole avere dei problemi. Troppo spesso i
nomi dei padri evocano un vuoto.
E' dalla fine dell'assedio che lui si è trasferito con la sua famiglia al
Gaza Hospital, che era stato distrutto e depredato in quel periodo. La sua
casa, come quella di molti altri, era stata rasa al suolo; i confini del
campo si erano estesi nel tempo e riprenderli è stato proibito, così
moltissime persone hanno occupato quello che una volta era stato il loro
ospedale e del quale rimaneva solo un enorme scheletro di cemento armato.
Ma anche questa è un'altra storia, anzi, proprio questa sarà la storia che
cercheremo di raccontare nel documentario, e che racchiuderà tutte le
altre.

Da Beirut, 3 gennaio 2005
Kinoki mrc

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