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Analisi internazionale

Globalizzazione e catastrofi

Lo Tsunami mette a nudo le contraddizioni della globalizzazione.
16 gennaio 2005
Massimo Fini
Fonte: Il Gazzettino - 08 gennaio 2005

Lo Tsunami è stato un fenomeno naturale globale che ha inferto un duro
colpo proprio alla globalizzazione, come fatto e come concezione. Sul
Foglio, Giuliano Ferrara contesta questa interpretazione sostenendo che lo
Tsunami ha colpito regioni "fra le meno globalizzate" del mondo e proprio
per questo ha avuto le conseguenze devastanti che ha avuto. È vero il
contrario. "Globalizzazione" non è lo sviluppo e la crescita dell'attuale
modello economico nei Paesi occidentali che hanno imboccato questa strada
da due secoli e mezzo, dalla Rivoluzione industriale, ma è l'esportazione
di questo modello nei mondi "altri", in quello che noi chiamiamo il "Terzo
mondo". Ed è questa globalizzazione contaminante che ha indebolito le
popolazioni indigene (in questo caso malaysiani, indonesiani, cingalesi,
thailandesi e anche indiani) sotto ogni punto di vista, rendendole, tra
l'altro, anche più vulnerabili allo Tsunami.

Se un'onda di pari potenza si fosse abbattuta su quelle coste due o tre
secoli fa il disastro sarebbe stato di gran lunga minore, molti meno i
morti, anzi forse non ci sarebbe stato nessun morto. Per alcuni buoni
motivi.

1) Perché ci sarebbe stata molto meno gente sulle coste, oggi
sovraffollate per sfruttare il turismo occidentale (o per dir meglio: per
essere sfruttati dal turismo occidentale).

2) Perché le mangrovie, oggi in gran parte abbattute per far
posto alle spiagge, avrebbero fatto da barriera all'acqua.

3) Perché capanne di paglia e legno sarebbero state
sicuramente spazzate via, ma il legno galleggia e al legno ci si può
aggrappare, mentre le strutture di cemento possono trasformarsi in una
trappola senza uscita e, se cedono, in proiettili mortali.

4) Perché non ci sarebbe il problema delle infrastrutture dato
che allora le infrastrutture non esistevano ma gli indigeni vivevano lo
stesso.

5) Perché infine, e soprattutto, la contaminazione con la "way
of life" occidentale, la globalizzazione appunto, ha profondamente
pervertito gli istinti vitali di questa gente.In altri tempi queste
popolazioni del mare avrebbero avvertito il pericolo con ampio anticipo,
sarebbero state colte da orrore al primo cenno del ritirarsi delle acque e
avrebbero saputo come mettersi in salvo. Invece molti di loro non hanno
capito ciò che una bambina inglese di dieci anni, curiosa di fenomeni
naturali, sapeva e che peraltro è intuitivo: che come le acque dell'oceano
si ritirano, non per una marea conosciuta e periodica, la prima cosa da
fare è correre nella direzione opposta con tutto il fiato che si ha in
corpo.

La conferma di ciò che dico viene da quanto è successo alle isole
Andamane. Le Andamane sono un arcipelago di piccole isole, le più vicine
all'epicentro del terremoto verso Sumatra. Sulla parte, diciamo così,
"civilizzata" delle Andamane (il sette gennaio vi si doveva tenere
addirittura il Festival del turismo) i morti sono stati 9.571 e i dispersi
5.801.

Sulle isole più piccole delle Andamane vivono anche alcuni popoli
cosiddetti "primitivi", ma che i tedeschi chiamano, più correttamente,
"popoli della natura" perché vivono allo stato di natura e in armonia con
essa. Tribù che non hanno mai accettato intromissioni, non solo degli
occidentali ma anche degli indiani del cui territorio formalmente fanno
parte. Quando si presenta qualche seccatore lo accolgono con archi e
frecce e lo mettono in fuga. Hanno riservato questo trattamento anche a un
elicottero che, in questi giorni, tentava di atterrare, per portare
"aiuti", su una spiaggia dove, passata la buriana, i Sentinelesi - così si
chiama una di queste tribù - se ne stavano tranquillamente seduti. I pochi
che sono riusciti ad avvicinare gli Onga delle "Piccole Andamane" o gli
Jarawa o i Grandi Andamanesi della minuscola Strail Island o gli stessi
Sentinelesi che vivono nell'isola più remota dell'arcipelago, da cui il
nome di North Sentinel Island (e hanno potuto farlo solo accettando il
rituale scambio di doni, perché per millenni fra le popolazioni malaysiane
e polinesiane lo scambio non poteva avvenire se non nella forma del dono e
del controdono) hanno descritto questi "primitivi" come miti, affettuosi,
sorridenti, esuberanti". La situazione è tale che lo stesso governo
indiano ha, intelligentemente, vietato, per legge, di prendere contatto
con queste popolazioni. Ogni tanto un funzionario del governo di Nuova
Dehli si reca da loro, in visita, compie il rituale scambio di doni e poi
se ne va. Questi contatti molto saltuari li accettano, ma, come ha scritto
Viviano Dominici, "sono decisi a tenersi lontani da tutti e ogni volta che
qualcuno tenta di sbarcare nel loro piccolo mondo loro lo respingono a
frecciate".

Ebbene fra questi "primitivi", benché siano stati investiti dal maremoto
con molta più violenza dei più lontani indiani della costa, dei
thailandesi, dei cingalesi, non c'è stato nemmeno un morto. La ragione è
molto semplice e la spiega una responsabile della Croce Rossa, la
dottoressa Namita Ali: "Sono più furbi dei cosiddetti civilizzati:
conoscono l'oceano, non costruiscono le abitazioni sulla spiaggia ma sulle
colline". E quelli che stavano sulle rive, per qualche loro faccenda,
appena hanno visto il mare ritirarsi sono scappati sulle alture.

Sono cose che dovrebbero far meditare. Invece mi pare che la grande
macchina delle sottoscrizioni internazionali, globali, sia presa
soprattutto dall'ansia di ripristinare al più presto la situazione di
prima, di ricostruire, di ricreare quei Paradisi artificiali, come se
volessimo cancellare e rimuovere un incubo senza farsi troppe domande sul
perché lo abbiamo vissuto. E senza rendersi conto che la potente onda di
quel denaro potrebbe rivelarsi, alla lunga, più devastante di quella dello
Tsunami.

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