Liberiamo la PACE. LIberate GIULIANA - FLORENCE - HUSSEIN
Si potrebbe ... Si può ...
Tra uccidere e morire c'è una terza via: VIVERE(Virginia Wolf)
20 febbraio 2005
Si potrebbe, così iniziava il Manifesto quindici giorni fa la proposta di una grande manifestazione per Giuliana Sgrena. Pochi giorni dopo, sulla spinta delle tante ed immediate adesioni, divenne Si può. Di fronte al suo rapimento si è voluta lasciare accesa la fiammella della speranza. Dopo la straordinaria partecipazione di ieri Pierre Scolari, il compagno di Giuliana, ha detto di sentirsi più fiducioso.
Tutte le chiacchiere, le polemiche sterili dei salotti della politica ufficiale sono rimaste fuori dal corteo. Bene ha fatto Gabriele Polo, il direttore del Manifesto, a ribadirlo. "Chi vuol ridurre il movimento globale della Pace nelle contrapposizioni tutte italiane sta sbagliando". Come Pierre Scolari ha notato non c'era un solo striscione contro Bush o Berlusconi. Non se ne sentiva il bisogno. Tra le strade e nelle piazze di Roma ieri è emersa una politica nuova e diversa. Lontana dalle tradizionali beghe caciarone dei partiti. E' una politica che nasce da sentimenti e motivazioni profonde, scaturite nelle corde più intime degli appartenenti alla polis della Pace.
Si potrebbe ...
Qualcuno ha detto che è stata inutile. Altri si sono spinti, con più magnanimo spirito, a definirla nulla più di un segno, di una testimonianza. Non vogliono ammettere che gli schemi della realpolitik (che ci stanno trascinando nell'irrealtà della violenza permanente) non potranno mai capire. Il senso profondo della giornata di ieri è altrove rispetto a loro.
Alex Langer dava un grande valore alla testimonianza. Per lui, infaticabile costruttore di Pace, occorreva sempre portarla avanti. Anche a costo di apparire sconfitti nel presente, perché potessero germogliare i semi di un futuro migliore. Nel ricordare l'amica Kelly, morta suicida, Alex scrisse delle difficoltà, delle angosce che sono conseguenza dell'essere "portatori di speranze collettive", che porta a trovarsi "isolati nel deserto". E proprio il deserto appare immagine del presente. Deserto dell'odio, della violenza, del fanatismo. E nel deserto i segni acquistano un valore vitale. Il miraggio di un'oasi ci può dare forza, spingerci più in là. Di miraggio in miraggio, di segno in segno, prima o poi l'oasi arriverà davvero, il deserto finirà. La fiducia accresciuta di Pierre e Franco (il padre di Giuliana) sgorga dal segno, dalla testimonianza di ieri. Ora, tutti insieme, dobbiamo avere la forza di andare avanti, di proseguire nell'essere "portatori di speranza" lungo il deserto. Non è finita ieri sera, ma prosegue. Prosegue nella quotidianità, nei passi, nel cammino di ogni giorno. Ognuno di noi ieri ha ricevuto un seme e un compito. Il seme è quello della pianta vitale della speranza, il compito quella di farla germogliare, dilagare nella vita di ogni giorno.
La manifestazione di ieri è solo l'ultimo capitolo di una narrazione mai interrotta, di un racconto continuo che scorre percorrendo quello che don Tonino Bello chiamava il "vocabolario della Pace".
Ci riporta ad un anno fa, al corteo organizzato dalle famiglie Stefio, Agliana e Cupertino per i loro cari. Fu una manifestazione spontanea, sgorgata sincera, ripiena solo d'arcobaleno. Tanto da spingere il coordinamento della campagna "Pace da tutti i Balconi" a ringraziare pubblicamente le tre famiglie per "aver restituito alla bandiera della Pace la giusta collocazione".
Ci riporta a due anni fa, al 15 febbraio 2003, quando nella imminenza di una nuova tragedia (e tante altre in corso, allora come oggi) ci si volle testardamente mettere in cammino, enunciare la "grammatica della Pace" (come la definì Mario Luzi) davanti alla violenza del terrorismo e della guerra. Non ci si è voluti arrendere, si è voluto credere ancora nel futuro.
Ci riporta a tre anni fa, quando, ancora scioccati dal tremendo attentato dell'11 settembre 2001, di fronte all'evocata ineluttabilità della violenza bellica ci si è guardati in viso. Nei volti degli altri abbiamo visto i nostri stessi dubbi, le nostre stesse paure e angosce. Ma anche le nostre stesse speranze, la nostra stessa voglia di non arrendersi. Abbiamo capito che davanti all'avanzare di Thanatos, il dio della morte, occorreva mettersi in gioco, esserci con i nostri corpi, con le nostre anime affinché la vita potesse vincere. E' la stessa scelta che moltissimi fecero 10 anni fa sui ponti di Bosnia e nella Sarajevo assediata, sventrati dalle bombe. Il sacrificio di Gabriele Maria Locatelli fu simbolo, tragico e drammatico, della follia che si stava consumando. Gabriele, e tutti coloro che fecero la stessa scelta, non indietreggiò di fronte alla violenza. Praticò i sentieri della speranza della Pace. Come oggi tantissime persone in Iraq. Persone come Giuliana.
Liberarla, e con lei Florence e Hussein, significa liberare la speranza di un futuro di Pace per l'Iraq. Quella speranza che potrà proseguire solo su strade che non siano quelle della guerra e delle armi. Per questo continuare nel chiedere di ritirare gli eserciti dall'Iraq non è abbandono, ma volontà di costruire un futuro libero dalla violenza. E' la voce della Pace. Giuliana crede ed esprime questa voce. La voce delle vittime, degli oppressi, della richiesta di giustizia, della solidarietà. La nostra Giuliana, la Giuliana di oggi, è la stessa Giuliana che da sempre porta avanti questa voce, scrivendo quella storia che non finirà sui libri, ma che è la più bella ed importante. Ha avuto altri nomi ed altri volti, ma è la stessa. Si è chiamata Ilaria, Rosa, Susan, Tiziano, Dino, Antonio, è vissuta tra le mondine dell'800, tra le operaie bruciate nelle fabbriche e nelle staffette partigiane del 900, ma era sempre lei che lottava negli uomini e nelle donne che, per usare le parole di don Luigi Ciotti, erano voce della difesa "della libertà e della dignità umana". Era la voce che denunciava oppressioni ed ingiustizie, che costruiva solidarietà e dignità. Perché questa voce prosegua, lungo le pieghe della storia umana, abbiamo tutti il dovere di farla vivere.
Si può ...
A ogni nuovo crimine e orrore dovremo opporre un nuovo pezzetto di amore e di bontà che avremo conquistato in noi stessi. Possiamo soffrire ma non dobbiamo soccombere"
Hetty Hillesum, deportata ad Auschwitz dove morì a 27 anni.
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