Partenza per Beirut
Eravamo al palazzo dell'UNESCO di Beirut, nel settembre scorso, quando Patrizio si avvicina dicendo di volermi presentare una persona. L'evento ufficiale, con la mostra di alcune sue foto e un concerto, era organizzato da una delle associazioni palestinesi che lavorano in Libano da più tempo, Beit Aftal Assomoud; era una delle iniziative della settimana per la memoria del massacro di Sabra e Chatila.
Patrizio è la persona che mi ha portato con se in quel viaggio e quello che sto per raccontare è uno degli incontri fatti in quei giorni intensi.
Incontro n.1
…nice to meet you, dico io in modo quasi automatico all'uomo che confidenzialmente conversa con Youssef, stringendo con forza la mano che sorridente mi si tende. Energica e ossuta, ruvida di lavoro antico la mano che dopo solo un attimo non è più sconosciuta: il mio nome è Kamal Ibrahim Kalil Maruf, ora è lui che sorride scoprendo i denti sotto i baffi bianchi e curati, godendosi l'effetto della recita del suo nome…Abu Jamal, ripete veloce il nome sociale e con uno sguardo sincero di benvenuto lascia la presa.
Abu, padre, è la desinenza al nome che nei paesi arabi un genitore prende dal suo primogenito, tradizione che per lui evoca un'assenza.
Non credo sia vecchio Abu Jamal, ma lo sembra, minuto com'è dentro l'abito nero troppo grande che pesante gli casca addosso. L'inglese di questo distinto signora si ferma alla nostra presentazione, i suoi occhi no: diretti, profondi e malinconici, senza nascondersi penetrano nei miei fino a raggiungermi lo stomaco.
È un uomo paziente quello che il giorno dopo mi accoglie nella sua casa a Sabra, ma non rinunciatario. Sono ventidue anni che aspetta il ritorno del figlio e l'attesa è divenuta un male incurabile che ha affetto lui e la moglie cambiandogli la vita. Abu Jamal è palestinese, profugo del primo grande esodo si è rifugiato in Libano nel 1948. Ha voglia di raccontarsi, questo dolce e orgoglioso signore; perché tutti devono sapere, perché non si può dimenticare.
Con lo sguardo alto e la voce morbida, comincia così il suo racconto:
Siamo usciti dalla Palestina nel 1948, da Dyer Al Kasi in provincia di Akka, nel mese di ottobre del 1948; siamo arrivati al confine con il Libano a Rmesh e poi a Burj Al Shamale per un breve periodo. Poi il governo libanese ci ha trasferito nella zona di Baalbak dove siamo rimasti quasi 15 anni. Nel 1963 hanno costruito un campo profughi a Rashidaye, il governo libanese ci ha trasferito a Rashidaye dove siamo rimasti per dieci anni. Nel 1974 sono arrivate le navi israeliane dal mare e hanno cominciato a bombardare il campo, tutti i campi palestinesi e dintorni. Da lì siamo di nuovo partiti per arrivare a
Beirut, dove ci siamo spostati diverse volte fino a che non ci siamo stabiliti nella zona di Sabra.
Dalle vicissitudini dei trasferimenti da un campo all'altro, dalla violenza dell'esilio, mi parla di un'altra violenza, più esplicita questa: è il massacro di Sabra e Chatila, avvenuto per mano falangista e direzione israeliana. Suo figlio Jamal, all'epoca, aveva ventidue anni.
Durante l'invasione israeliana, nel 1982, c'è stata la strage di Sabra e Chatila, nella quale mio figlio Jamal è scomparso. In quell'occasione sono arrivati fino a qui, fino al Gaza Hospital a Sabra e hanno preso molte persone e nel gruppo c'erano i nostri figli, il mio e quello dei vicini. Anche io ero con loro e ci hanno portato tutti al campo di Chatila, lì hanno separato i giovani dai vecchi e con loro mio figlio, li hanno caricati sui camion. Da allora fino a questo momento non ho saputo più niente di lui; qui sul quotidiano Al-Safeer c'è il suo nome:
Jamal Kamal Maruf. Il mediatore tedesco che era in Palestina occupata per trattare il rilascio dei prigionieri arabi ha scritto di 100 persone sequestrate da Sabra e Chatila, sarebbero ancora vive nelle carceri israeliane e il nome di mio figlio risulta tra loro.
Pranziamo; è un pasto povero ma sostanzioso, del quale Abu Jamal sembra quasi scusarsi. C'è silenzio in cucina, mi guardo intorno: è illuminata a neon, con le maioliche al muro e le stoviglie appese. Sua moglie è una donna robusta e gentile, che si è ammalata dopo la scomparsa del figlio. Prima non era così, mi dice Abu Jamal in un altro momento, era magra da giovane. Ora prende dei farmaci contro l'ansia; dopo, quando il marito proseguirà il suo racconto, delle
lacrime silenziose le segneranno il viso.
Continuiamo a mangiare sorseggiando del the; la loro ospitalità è sincera e il silenzio senza imbarazzo.
Dopo sediamo in sala, sul divano, aspettando il caffè che lei ha messo sul fuoco.
Domani c'è l'anniversario della strage, verso le 10:00. La causa delle strage è Sharon, lui è la causa e la molla che ha spinto la Falange e noi stiamo ancora aspettando che sia giudicato. Ogni anno celebriamo l'anniversario del massacro, per non dimenticare; nessuno dimentica, né i piccoli né i grandi, tutti gli anni il 17 settembre…ma ancora stiamo aspettando la sentenza del suo processo.
È un dramma forte per tutti noi, a volte un cane ha più importanza della vita di molti, qui stiamo parlando di persone in carne e ossa…Jamal Kamal Marouf, è scritto qua: mio figlio, se Dio vuole, è ancora vivo.
Fa il mestiere di corniciaio Abu Jamal, vetro e legno sono i materiali che lavora, a volte l'alluminio. Nel mostrarmi la foto del figlio, custodita in una busta e racchiusa dentro una cornice in una composizione elementare con quattro foto più piccole agli angoli, c'è la soddisfazione di un artigiano che mostra la sua opera, insieme al dolore di un padre.
Poi ripongono il ricordo al riparo dalla polvere, in un armadio dal quale domani uscirà per essere portata in strada da Abu Jamal, lungo la via che costeggia il campo di Chatila fino alla fossa comune delle vittime del massacro.
Il suo racconto mi lascia senza parole, più ancora il suo contegno. È l'atteggiamento forte e consapevole che ho trovato negli uomini e nelle
donne palestinesi, che apparentemente stona con la figura piccola e il carattere mite di quest'uomo, piegato da un dolore incolmabile e ancora capace di sorridere.
È la rabbia impotente e la volontà di continuare a lottare che il giorno dopo ho respirato durante la marcia di commemorazione.
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