Palestina

Jenin

Cronaca dal campo profughi assediato
16 aprile 2002
Francesca Ciarallo

Mohaian Jenin, l'Orrore. "Mohaian" in arabo significa "Campo". Basta passare pochi giorni in questa terra insanguinata e i nomi dei campi profughi diventano qualcosa di molto familiare: Balata, Jabalia, Aida, Deheishe, Al Amari e tanti altri: interi quartieri all'interno delle città palestinesi che da luoghi di accoglienza temporanea degli sfollati delle ripetute guerre e occupazioni, soprattutto quelle del 1948 e del 1967, sono diventati la propria dimora fissa, e quella dei figli e dei nipoti, sempre con in testa il sogno del ritorno ai villaggi d'origine. Mohaian Jenin era "il Campo" per antonomasia. Era. Mohaian Jenin non esiste più.

Siamo riusciti a entrare a Jenin dopo tre tentativi. Da circa due settimane l'esercito israeliano non permette a nessuno di penetrare all'interno del campo profughi, nemmeno alla stampa e alle organizzazioni umanitarie. "Zona di operazioni militari" è la laconica risposta. Provando e riprovando qualcuno riesce ad aggirare il muro dei soldati, attraverso ore di camminate per sentieri impervi tra pietre e ulivi e miseri villaggi contadini, mai senza una guida locale, comunque rischiando la vita.
Oggi l'esercito si è ritirato alle porte della città, per la prima volta dall'inizio dell'assedio il coprifuoco è stato sospeso per qualche ora. In periferia c'è un via vai di gente. Un trattore ci carica per percorrere gli ultimi metri che ci separano dal campo. Dalle strade distrutte si alza la polvere, che ti si appiccica addosso, offusca la vista.

All'improvviso eccolo, il campo profughi, il posto del mistero, in cui da quindici giorni il mondo si chiede cosa stia succedendo. Le case ai bordi del campo sono seriamente danneggiate, tetti sfondati, enormi buchi nei muri. Su molte c'è disegnata con lo spray la stella di David e scritto in ebraico "o con Israele o la morte". Scendiamo dal trattore e ci avviamo verso la zona centrale del campo "Hawashim".

Per quanto si possa essere preparati ciò che si presenta supera ogni immaginazione. Macerie. Solo montagne di macerie. Cumuli di macerie e detriti. Tutta la zona è stata rasa al suolo. Si fatica a credere che tutto questo sia opera di una mano umana. Nella nostra mente una tale devastazione può essere conseguenza solo di una catastrofe naturale.
Questo campo del nord della Cisgiordania, un'area di un chilometro quadrato, ospitava quindicimila persone, rifugiate da circa settanta villaggi della zona di Haifa. A detta di molti, era probabilmente il più bel campo della West Bank, affollato, vivace, sui muri i disegni multicolori tipicamente arabi. Molti dei ragazzi qui frequentavano la "Jenin American University". Da qui sono partiti venti dei kamikaze dell'ultima ondata di attentati in Israele, il cui confine è vicinissimo.
Iniziamo a camminare sui resti della quotidianità di centinaia di famiglie. Ma ciò che più impressiona è l'odore immondo che impregna l'aria, tanfo di carne umana in decomposizione. Conati di vomito prendono lo stomaco. Ci sono adulti che vagano come fantasmi. Spiritati, attoniti, rovistano a mani nude tra le macerie, alla ricerca di qualche frammento della propria esistenza. Spunta una videocassetta, un maglione, una pentola. Altri scavano per trovare i corpi di figli, fratelli, mogli o mariti, con la speranza che qualcuno sia ancora vivo. I più giovani vedendo i nostri taccuini e macchine fotografiche, ci si affollano intorno, parlano tutti contemporaneamente. I bambini, soprattutto, ci tirano per i vestiti, tentano di trascinarci in ogni angolo con l'ansia di farci documentare lo scempio. Si mettono in posa davanti agli obiettivi della macchina fotografica con in mano proiettili, pezzi di bombe, missili degli elicotteri Apaches. Urlano in continuazione "Fotografa, fotografa, guarda qui 'Made in Usa!'" mostrando le piccole scritte in inglese sul metallo dell'artiglieria. "Questo perché Bush vuole la pace - mi traduce un ragazzo. - Sono tutte armi americane, sono loro che foraggiano Israele, e poi mandano qui Colin Powell a prenderci in giro".

Una signora grida: "Andate via occidentali, cosa siete venuti a fare? Cosa avete fatto per noi? Cosa volete ora?". Un gruppo di cinque bambini mi trascina all'angolo di un muro miracolosamente in piedi, mi dicono che proprio qui la resistenza palestinese ha teso un agguato a tredici soldati, uccidendoli. E fanno il segno di vittoria con le due dita. Poi mi accompagnano tra le rovine di una casa, mi fanno vedere che sui muri e sulle porte ci sono spiaccicati resti di carne umana, io non ho parole, trattengo il respiro, mi estraneo da me stessa. "Vieni qui, qui dentro c'è ancora un cadavere, sta qui da dieci giorni". È tutto un vocio di bimbi, urla concitate, una camminata interminabile nei gironi dell'Inferno. Io recupero un po' di lucidità, voglio raccogliere storie, parlare con la gente, cercare di raccontare l'incubo di questo popolo martoriato. La ragazza che mi traduce dall'arabo ha diciannove anni e un viso bellissimo, fasciato nello chador. Studia (studiava?) economia all'università. Si chiama Kholood, io non riesco a pronunciare il nome da questi suoni arabi così ostici per noi, e lei mi dice di chiamarla Eternity, la traduzione in inglese del suo nome. Eternity… mi sa di un presagio.

Jamila Nassan è seduta a gambe aperte di fronte alle macerie della sua casa. Una ruspa sta scavando alla ricerca dei suoi tre figli. I soldati sono entrati di notte in casa, dove c'erano quattordici persone. Hanno tirato fuori a forza le donne, lei non poteva camminare perché ha problemi alle gambe, l'hanno trascinata di peso. Poi hanno tirato bombe all'interno, e hanno finito il lavoro con un bulldozer. Non si ricorda esattamente quando ciò sia avvenuto, forse dieci giorni fa… io cerco dettagli per documentare, lei con una voce cantilenosa mi chiede che importanza abbia, l'hanno fatto e basta. "L'unica cosa che voglio ora è che ai figli di Sharon succeda la stessa cosa che è successa ai miei".
Mahyoob mi racconta che sono entrati in casa e hanno fatto spogliare i suoi figli di quattro, dieci e tredici anni. Poi hanno detto: "O uscite tutti fuori o li ammazziamo". Così sono usciti, sono scappati da parenti che abitano appena fuori dal campo, quando sono riusciti a tornare la casa era sparita.
Sahed invece ha solo otto anni, racconta che sotto ai suoi occhi hanno preso i suoi due fratelli di diciotto e ventidue anni, mi indica i polsi per farmi capire che glieli hanno legati, poi li hanno trascinati via e da allora nessuno li ha più visti.
La casa della famiglia di Abdel è al limitare della collina, da lì si spara bene sul campo. Sono entrati un centinaio di soldati, hanno legato e bendato i ventiquattro membri della famiglia, sparavano sul soffitto e sui muri fingendo finte esecuzioni, e tutto questo è andato avanti per quarantotto ore. I racconti concitati si somigliano, storie di crudeltà e di atrocità, è difficile però pensare che sia tutta "propaganda palestinese".

Di fronte a tanta sofferenza ci si sente davvero impotenti. Cerco di avere conferme alle voci che parlano di esecuzioni sommarie. Mi racconta Haamed, un medico di una ONG, che una sera hanno rastrellato un centinaio di case dividendo anziani, donne e bambini dagli uomini e dai ragazzi, hanno legato questi ultimi e li hanno portati via, di loro non si sa più niente.
E racconta ancora di cadaveri rimasti per strada per cinque, sei giorni e "miracolosamente spariti" prima del ritiro dei carri armati dal campo. Chiedo alle persone: "Perché non siete scappate?". Mi rispondono che non sempre gliel'hanno permesso. Un vecchio dal volto rugoso e la kefiah in testa dice che quella è la loro casa e lui non l'avrebbe mai abbandonata.
Ho la sensazione che comunque non si aspettassero che gli israeliani arrivassero a tanto.
C'è una donna giovane disperata, il marito ci allontana da lei, che ci urla che da ora in poi tutti i sopravvissuti di Jenin diventeranno dei martiri, dei kamikaze, altro che Oslo. Un ragazzo si gira e dice che dopo tutto questo non ci sarà altro da fare…
Intorno a noi si continua a scavare, con piccozze e badili, ma soprattutto a mani nude. I ritrovamenti di cadaveri sono annunciati dall'intensificarsi disgustoso del fetore. Il sudore attacca addosso la polvere e la speranza assassinata di tutti questi diseredati che probabilmente non avranno mai giustizia. Penso al mio mondo di occidentale benestante, e mi sembra quasi che con la mia presenza qui, con l'ansia di dettagli e di cifre, li stia ulteriormente violentando. Penso a quale sarà il futuro di questi bambini con un presente fatto solo di violenza, brutture e disumanità. Forse ha ragione il pacifista israeliano Uri Avnery quando scrive che Jenin entrerà nella leggenda come la Masada dei palestinesi, come una battaglia eroica dove una manciata di uomini di un piccolo popolo ha resistito al quarto esercito del mondo protetto dai propri tank e dalla propria impunità internazionale. "Così, Sharon e Mofaz hanno creato l'infrastruttura terroristica, hanno gettato le basi della nazione e dello stato palestinese. La gente ha visto i suoi combattenti a Jenin ed è convinta che essi siano molto più eroici dei soldati israeliani, protetti come sono nei loro pesanti carri armati. Così si genera l'orgoglio nazionale."

E l'inerzia criminale della comunità internazionale continua. Israele non permette alle organizzazioni umanitarie di entrare a Jenin, dove sotto le case distrutte ci potrebbero essere decine di cadaveri, e forse qualcuno è ancora vivo. Per non parlare dei rischi che potrebbero sopraggiungere per la salute dei sopravvissuti, senza acqua e cibo, senza più un'infrastruttura.
Che senso ha parlare di convenzioni di Ginevra, di carta delle Nazioni Unite, ci chiediamo? È solo una grande immensa presa per i fondelli collettiva. Al governo israeliano oltre che alla violenza brutale sul campo di battaglia è stata permesso di violentare qualsiasi legalità internazionale. Ha fatto ciò che ha voluto, nel silenzio colpevole anche della "democratica" Unione Europea, e tutti ancora a far finta di credere ad operazioni antiterrorismo quando qui si tratta di diritti umani fondamentali. Anche se gli abitanti di Jenin fossero stati tutti terroristi, cosa difficile da credere, un simile trattamento non lo merita nessun essere umano.
Quando siamo usciti da Jenin i soldati ci hanno sparato intorno per più di mezz'ora, in continuazione. Evidentemente non volevano colpirci, ma solo farci morire di paura. Forse si sono anche divertiti a guardarci scappare per i campi. Quando tutto era finito, alla mia rabbia cieca si è sostituita la pena per questi soldati ragazzini abbruttiti e disumanizzati da una guerra che forse molti di loro neppure vogliono, ma alla quale non hanno la forza e la coscienza di opporsi.
Chiede Edward Said: "Può Israele esistere come uno Stato uguale a tutti gli altri o deve essere sempre al di sopra delle restrizioni e i dei doveri di tutti gli altri Stati del mondo?". È ora che qualcuno gli dia una risposta.

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