Perché Israele sta sbagliando
Credo che tocchi a me ora dire qualcosa della vicenda che mi ha coinvolta, l´arresto in Palestina (ci tengo a sottolinearlo) e l´espulsione da Israele. Vorrei farlo per me, perché mi sono trovata addosso un modo di pensare e, per quel che riesco, di vivere il pacifismo che non sento appartenermi, come tanto meno sento appartenermi la modalità del discriminare fra buoni e cattivi che Paola Rosà, senza conoscermi e senza aver mai parlato con me, mi attribuisce. E per provare a ragionare in modo meno approssimato sulle ragioni che mi fanno stare in questo momento dalla parte dei palestinesi, fuori dalla semplificazione della domanda "Ma la colpa è proprio tutta di Israele ?" e dello schematismo buoni e cattivi. Non è questo il piano su cui voglio stare.
Ma per tornare a quanto mi riguarda, e riguarda probabilmente Sara, Erica e i molti altri italiani e non che partecipano a questo tipo di azioni, non siamo né "professionisti della pace" né ansiosi cercatori di protagonismo (in questo caso poi vi assicuro del tutto involontario) che sentenziano dogmaticamente su torti e su ragioni.
Avevo una speranza per questa mia prima esperienza di interposizione in Palestina, che ho affrontato con molte incertezze, anche per il limite della lingua condiviso con molti altri italiani, ma anche con molta convinzione: concludere i miei 15 giorni in quei luoghi già conosciuti in altre occasioni sperimentandomi, a dispetto dei miei limiti, possibilmente per ritornarci un´altra volta, con più conoscenza, più preparata, più efficace, e magari parlando un po´ più di inglese. Non è andata così ma lo rifarei.
È una questione di convinzione, di accettare di mettersi in gioco senza aspettare di avere tutte le competenze e le carte in regola (quando mai lo si farebbe.. ) e credo che una presenza di questo tipo serva, per la pace in Medioriente, non fosse altro perché molta altra presenza non c´è.
Non rifarei, spero, di tirare calci verso i militari che mi portavano via: per prima ho vissuto come un fallimento dei miei propositi di resistenza passiva la rabbia incontrollata di quei momenti. Ma non reputo né violenza né aggressione la mia ribellione poco più che simbolica contro l´arroganza e la prepotenza che ho visto nei due giorni vissuti a Mas´ha, contro una deportazione che aveva l´unica ragione della forza, non della legalità o dell´ordine pubblico.
Questo vorrei che non si dimenticasse: il luogo da cui ci portavano via era un cortile dichiarato mezz´ora prima zona militare chiusa per sgomberare qualche decina di internazionali (e israeliani e palestinesi) rompiballe che volevano, se non impedire, almeno rendere pubblica la demolizione dell´ennesima casa palestinese, per sua sfortuna trovatasi sul tracciato del "muro di sicurezza". Non è una nostra impressione distorta che quella barriera stia dentro la Cisgiordania e non sul confine, che la stia ancora smembrando, impoverendo, è la realtà fisica e concreta che abbiamo visto a Mas´ha, a Qalqilya già chiusa in una fortezza soffocante, a Tulkarem dove molti contadini non hanno più accesso alle loro terre.
Quel muro per me diventa un altro dato di riflessione politica, come lo sono gli insediamenti, i posti di blocco, i coprifuoco. Mi sembra invece strano che non lo siano per tutti.
La domanda non è se la colpa è tutta di Israele, ma cosa vuole ottenere Israele, un paese riconosciuto, forte, democratico, con la politica che sta attuando nei Territori Occupati. Paola Rosà sembra accusarci di dimenticare che anche fra gli israeliani ci sono dissidenti, fra l´altro ben motivati e preparati, e il senso di questa accusa non riesco davvero a capirlo: non essere altrettanto motivata? È vero, ma se permette, prima di decidere di fare la reporter dalle carceri israeliane vorrei poterci meditare un po´, e ciò non toglie che continuerò a mettermi in gioco per quello che mi sento di fare.
O mi si accusa di voler nascondere questa parte importante di dissenso che cresce fra gli ebrei dentro e fuori Israele perché loro devono risultare i cattivi? Non è vero né in questa né in altre occasioni. Con noi a Mas´ha c´erano israeliani (piuttosto maltrattati dalla loro polizia fra l´altro) quel giorno, altri sono andati a protestare il giorno dopo. L´ISM è stato fondato anche da palestinesi e israeliani. In Trentino le voci dei dissidenti israeliani le abbiamo sentite più di una volta, dal professor Daniel Amit al giovane "refusenik" ospite quest´inverno.
Lo scorso anno in Palestina con una delegazione delle "Donne in Nero" avevamo incontrato Jeff Halper, uno dei fondatori proprio del comitato israeliano contro le demolizioni. L´analisi più lucida e documentata sulla politica israeliana di controllo della Palestina l´ho sentita proprio da lui. Le contraddizioni da cui lsraele non sembra in grado di uscire, il voler essere stato ebraico, che quindi non vuole inglobare gli arabi della Cisgiordania, ma allo stesso tempo vuole mantenere il controllo di quel territorio importante dal punto di vista storico, religioso e strategico, e allo stesso tempo vuole essere democratico: ciò stona con la repressione che deve attuare sui palestinesi per mantenerne il controllo.
La strategia del "fatto compiuto", gli insediamenti che si stringono a cintura intorno a Gerusalemme est (il cui status non è ancora definito,) e la separano dalla Cisgiordania, le colonie che fasciano a occidente la "green line", comprendendo le zone più ricche di acqua e a oriente la valle del Giordano, i soprusi mirati a stancare i palestinesi perché se ne vadano dalla Cisgiordania…
Jeff è un dissidente israeliano informato, preparato e motivato (lui in carcere c´è stato) che chiede che si giudichi con serietà e severità la politica del suo paese, che la comunità internazionale prenda posizione perché in gioco non c´è solo la pace con i palestinesi e la sicurezza degli israeliani, ma il fondamento etico del suo stesso Stato.
Era stato il primo ad incoraggiarci a fare un boicottaggio dei prodotti israeliani. È fondamentale che ci siano israeliani che protestano, sarà forse grazie a loro che i palestinesi potranno ritrovare fiducia in vicini di casa di cui hanno sperimentato soprattutto, e non possiamo permetterci di dimenticarlo, la violenza e la sopraffazione. Vorrei che si ascoltasse che cosa hanno da dirci questi dissidenti, non farne l´oggetto decorativo del democratico Israele dove non tutti sono cattivi e si può dissentire.
Credo di essere d´accordo in questo con Paola Rosà: l´oggetto sono le demolizioni, e il perché delle demolizioni, non le conseguenze di chi protesta (anche se un po di solidarietà si apprezza sempre in questi casi).
Un appunto sulla democrazia di Israele, perché la domanda è frequente: "ritengo che Israele sia uno stato democratico?", "sarebbe finita così in un altro Paese non democratico?" . La mia ambasciata ha contrattato - per farmi partire - con un Paese democratico, i miei amici hanno protestato per il mio trattamento (non poter parlare con gli avvocati) con un Paese democratico, ho vissuto un giorno e mezzo in un centro di detenzione per immigrate che non era il massimo di umanità, ma probabilmente non diverso da quelli della democratica Italia.
Il problema della democrazia in Israele lo lascio meditare agli israeliani, almeno fintanto che non siano loro a farlo pesare. Ma non posso non chiedermi quale esperienza abbiano i palestinesi di questa democrazia.
A chi poteva rivolgersi l´anziano contadino a cui le ruspe del democratico Israele venivano a demolire la casa? All´Autorità Palestinese? Non solo non è democratica, ma non è in grado di garantirgli nessun diritto e nessuna sicurezza.
A chi si possono appellare i palestinesi contro le demolizioni arbitrarie, i blocchi stradali, i posti di blocco, i coprifuoco, le incursioni mirate che qualche volta sbagliano mira?
Non al proprio Stato che non c´è, non all´Onu, non agli Stati Uniti che fanno i mediatori e "sgridano" Sharon quando esagera ma finanziano la politica di occupazione, non alla comunità internazionale che apprezza gli "atti di buona volontà" del governo israeliano e quindi pazienza se qualche casa ancora viene buttata giù e qualche campo viene espropriato, in attesa della pace.
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