Il pacifismo israeliano messo nell'angolo dallo scontro di civiltà
Michael Warschawski è un pacifista israeliano di quelli che lavora con i Social Forum, codirettore dell’Alternative information centre, organizzazione israelo-palestinese.
Vent’anni fa i pacifisti israeliani manifestavano contro la guerra in Libano. Oggi il Paese, a parte una esigua minoranza di persone, appare schierato col governo. Perché?
Il movimento pacifista tradizionale, come “Peace Now” per intenderci, ha smesso di esistere dal luglio del 2001. L’ala radicale invece è più unita e più forte. In questo momento la posizione dell’area “maggioritaria” è che Israele è stata attaccata e che dunque dobbiamo rispondere. Alla manifestazione contro la guerra che abbiamo organizzato domenica scorsa è venuto a titolo personale Mossi Raz, ex segretario di “Peace Now” e come lui sono venute centinaia di persone.
Chi era a Tel Aviv afferma di aver visto 300 persone circa.
Non è vero. Eravamo almeno settecento ed eravamo tutti ebrei, era una manifestazione organizzata in fretta. Domenica prossima speriamo che vengano anche dal nord. Abbiamo contattato i partiti arabi. Contiamo di essere almeno in 3000. Ci saranno i refusnik, la coalizione delle donne contro la guerra, Gush Shalom, Ta’ayush, i rabbini per i diritti umani e gli anarchici contro l’occupazione.
Contate di sortire qualche effetto nell’opinione pubblica?
Non abbiamo l’illusione di cambiare questa società. Come l’ingranaggio di un orologio, una volta noi eravamo la ruota piccola in grado di muovere quella più grande, che era la cassa di risonanza per rivolgerci all’opinione pubblica. Adesso giriamo a vuoto.
In questo momento la maggior parte degli israeliani sembra non temere le conseguenze che l’allargamento del conflitto nella regione potrebbe avere, anche per Israele. Si tratta di convinzione o disinformazione?
In Israele abbiamo un proverbio che dice, quando arriveremo al ponte penseremo ad attraversarlo. Esiste la percezione di essere parte di una guerra globale che difende la cultura ebrea e quella cristiana. Dunque non c’è scelta, in quanto la società israeliana si percepisce come parte del cosiddetto “scontro di civiltà”. Non c’è un obiettivo in questo conflitto. E’ la guerra preventiva permanente contro tutto quello che si può dipingere come terrorismo. Con l’Iran, secondo me, questa fase può degenerare in conflitto. Siamo in una situazione estremamente pericolosa della quale non possiamo calcolare le conseguenze ed alla quale occorre porre fine immediatamente prima che esploda in un conflitto regionale. Quando ho espresso alla radio di questa mia posizione un giornalista mi ha detto che siamo già in guerra con l’Iran e mi ha chiesto se, data tale condizione, non era meglio affrontare la faccenda prima che dopo. Vent’anni fa quando morivano i soldati al fronte si accusava il governo di non avere protetto i nostri soldati. Ora i missili su Haifa sono vissuti come un evento inevitabile, non un fallimento del governo.
Chi non ha il satellite e legge solo la stampa in ebraico riceve un’informazione adeguata su quanto accade ai civili in Libano?
La stampa israeliana non si può considerare “militarizzata”. Esiste piuttosto in questa fase una militarizzazione della mentalità. Che si riflette anche nell’informazione. Basti pensare alle voci che si sono levate dalla sinistra, da Yossi Beilin ad altri. Ho sentito Yeoshua parlare come uno di destra. Non è il governo che dice ai giornali di sinistra quello che devono scrivere. I media israeliani riflettono piuttosto l’opinione pubblica che in questo momento con i missili in casa propria è indifferente ai morti dall’altra parte. Ma dobbiamo respingere la mentalità dello scontro tra civiltà. Immagina le conseguenze dell’ingresso di altri Stati in questo conflitto.
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