Tra occidente e mondo islamico i rischi di una frattura insanabile
La conferenza di Roma verrà probabilmente ricordata come un apprezzabile tentativo di porre fine il più presto possibile a un conflitto che nessuno chiama ancora apertamente guerra, ma di cui sono già purtroppo visibili gli esiti catastrofici e duraturi. Un tentativo encomiabile, come lo sono tutti gli sforzi volti a ottenere il cessate il fuoco, il cui risultato è però molto al di sotto delle pur modeste aspettative e lancia un messaggio chiaro e forte: non esiste nessun’altra forma di diritto se non quella della forza. Alla fine, il diritto della forza come sempre ha prevalso e l’occidente ha dato mano libera a Israele per portare a termine il lavoro iniziato e stabilire tempi, modalità e obiettivi di un eventuale intervento da parte della comunità internazionale.
Tutto questo non depone a favore, né oggi né domani, di un ruolo europeo che possa rivendicare un minimo di autonomia dalla politica americana. Una politica che verso il grande mondo islamico e il Medio Oriente in particolare ha obiettivi ben precisi, dichiarati più di una volta, che vanno nel solco del progetto di un nuovo Medio Oriente come prodotto della guerra permanente iniziata, con motivazioni diverse, in Afghanistan e in Iraq. Israele, che in questo progetto gioca ormai apertamente, e non dietro le quinte, un ruolo diretto e determinante, malgrado le buone intenzioni del governo italiano e del ministro D'Alema, ha interpretato correttamente i risultati della conferenza, che corrispondono in sostanza all’autorizzazione a proseguire la sua campagna militare. Infatti i bombardamenti sono aumentati in numero e in intensità anche se l’avanzata terrestre ha subito qualche battuta d’arresto e addirittura un arretramento, dovuto però esclusivamente alla tenuta di Hezbollah e alla resistenza inaspettata e per certi versi eroica che i miliziani hanno saputo opporre a una macchina da guerra a dir poco preponderante. Oggi si è di nuovo combattuto nel villaggio di Maroun Al Ras dichiarato occupato quattro giorni fa da Israele.
Il risultato della conferenza di Roma è stato recepito in tutta la sua chiarezza anche nel mondo arabo, alimentando sentimenti diffusi come la frustrazione e la rabbia, rendendo ancor più profonda e difficilmente sanabile la frattura già esistente tra occidente e mondo islamico. L’occidente è evidentemente omologato alla volontà degli Stati Uniti e di Israele di imporre con la forza i propri obiettivi, nel totale disprezzo del diritto internazionale e di qualsiasi convenzione che riguardi la tutela e la protezione delle popolazioni civili in tempo di guerra. Da ogni parte continuano a levarsi voci che chiedono un intervento delle Nazioni Unite rispetto all’uso delle cosiddette armi proibite, come bombe al fosforo, a frammentazione o a grappolo e qualcuno ipotizza che, forse proprio per questo motivo, sono stati bombardati siti delle Nazioni Unite che potrebbero fornire testimonianze dirette sull’uso di queste armi. Se la conferenza ha contribuito a togliere ulteriormente credibilità e rilevanza all’Onu, allo stesso tempo ha reso ancora più deboli e ridicoli i regimi moderati arabi, che rischiano di essere privati di qualsiasi ruolo in un’eventuale sistemazione politica del futuro della regione. Lo stesso vale anche per il governo democratico libanese, che nonostante le divisioni interne poteva rappresentare un modello di democrazia in grado di riunire in sé le anime diverse di quel mondo. La conferenza di Roma ha praticamente incitato il governo libanese a disfarsi di una sua parte, quella rappresentata da Hezbollah, sostenuta da quasi un terzo della popolazione, condizionando tutti gli aiuti promessi per la realizzazione di questo scopo, in altre parole per scatenare una guerra civile. In questa prospettiva vanno visti da un lato l’impegno a rafforzare l’esercito regolare libanese e le forze dell’ordine e dall’altro l’invio di una forza multinazionale nel sud del Libano, naturalmente dopo che Israele avrà completato la distruzione del paese ed epurato ogni traccia di Hezbollah.
Sull’altro fronte di un conflitto che Israele e i suoi sostenitori non chiamano guerra perché la guerra, dicono con arroganza, per definizione non è mai “difensiva”, su Gaza e i palestinesi è sceso il silenzio. Nonostante le premesse, durante la conferenza di Roma non è stata spesa nemmeno una parola rispetto alla situazione sempre più grave nella Striscia di Gaza, dove solo negli ultimi giorni la devastazione ha ucciso 35 persone e ne ha ferito più di 200, utilizzando, come testimoniano molti osservatori, le stesse armi proibite che Israele sta impiegando in Libano.
Il 31 luglio prossimo, la Nato riceverà formalmente, nel quadro di una guerra sempre più devastante, il comando delle operazioni militari nel sud dell’Afghanistan ed esistono tutti i presupposti perché sia una guerra cruenta e lunga. Le notizie dall’Iraq sono sempre più allarmanti, si allunga il macabro conteggio dei morti e dei feriti, ora che il governo iracheno ha preso atto del fallimento del suo piano di sicurezza per Baghdad e dell’iniziativa di conciliazione nazionale promossa dal nuovo primo ministro.
In questo scenario, con l’Europa che conta riunita a Roma senza riuscire neanche a strappare un semplice cessate il fuoco, vale a dire la cosa più sensata in caso di guerra, diventano preoccupanti sia il ruolo che Stati Uniti e Israele hanno riservato all’Europa in Libano e in Palestina, inesistente, sia il ruolo che l’Europa ha scelto autonomamente per sé in Afghanistan, in Iraq e oggi in Libano.
La stessa assenza della questione palestinese nelle discussioni della conferenza di Roma di per sé rappresenta un grave indizio, dal momento che tutti riconoscono che l’irrisolta questione palestinese sta alla base di una situazione generale sempre più complessa e di fronte alla drammatica conferma che la guerra non è lo strumento idoneo per la risoluzione dei conflitti. La situazione mediorientale è la testimonianza più efficace a conferma di questo concetto. Diventa purtroppo obbligatorio chiederci dove stiamo andando e dove, qui in Italia, si vuole trascinare quella parte della sinistra e del mondo cattolico che oggi è presente nel nostro governo. Dovremmo anche chiederci perché esiste una precisa volontà di non utilizzare gli strumenti che potrebbero restituire all’Italia e all’Europa un ruolo di interlocutore reale, sospendendo ad esempio gli accordi di cooperazione militare e commerciale con Israele. Il governo italiano deve riflettere bene perché la mancata risposta oggi a queste domande comporta diverse conseguenze a breve termine. Per prima cosa, elimina di fatto per l’occidente quella sponda necessaria per evitare di essere trascinati dentro una guerra di religione che, rispetto a qualche anno fa, non è più un semplice timore. Secondo, favorisce un ulteriore schiacciamento di chi in Medio Oriente vuole puntare tutto sulla via politica per la soluzione dei conflitti, l’Autorità Nazionale Palestinese e Abu Mazen sono l’esempio più lampante. Terzo, non può non avere una ripercussione sulla tenuta del governo perché le azioni del governo, malgrado tutte le buone intenzioni, non portano l’Italia a collocarsi in una posizione più autonoma rispetto alla politica americana.
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