Palestina

Intervista

«La nostra battaglia pacifista in un paese che vuole guerra»

Peretz Kidron, responsabile dei rapporti internazionali di Yesh Gvul («C'è un limite»), parla della paura degli israeliani, ma anche di chi rifiuta le armi
2 agosto 2006
Sveva Haertter
Fonte: Il Manifesto (http://www.ilmanifesto.it)

Amir Pasteur, 32 anni, capitano dell'esercito israeliano dal 31 luglio sconta una condanna a 28 giorni di carcere per aver rifiutato (ma non è stato il primo) la chiamata alle armi. Il movimento pacifista ha sempre avuto grande attenzione al fenomeno dei «refuseniks». Per saperne di più abbiamo sentito Peretz Kidron, che gestisce le relazioni internazionali per Yesh Gvul (C'è un limite), uno dei principali gruppi di refuseniks.
Oltre all'appello a rifiutare, state mettendo in campo altre azioni?Come Yesh Gvul stiamo preparando una richiesta formale alle istituzioni giudiziarie, per chiedere l'apertura di un'inchiesta sui crimini di guerra. Ci sono molti eventi che anche da un punto di vista squisitamente legale sono potenzialmente qualificabili come crimini di guerra: gli attacchi contro la popolazione civile, le infrastrutture pubbliche e private, le centrali elettriche, c'è la questione dei profughi. Gli stessi attacchi contro l'esercito libanese, nei confronti del quale non c'è ufficialmente uno stato di belligeranza. Certo non ci aspettiamo grandi risultati, ma vogliano porre il problema e fare il possibile perché i responsabili di queste azioni vengano messi sotto processo.
Qual'è il clima nell'opinione pubblica?
Il clima è pesantissimo. Circa il 90% della popolazione è schierato totalmente a favore della guerra, parlo ovviamente della popolazione ebraica. Va da sé che i palestinesi con nazionalità israeliana la pensano diversamente. Noi siamo stati tra i primi a promuovere iniziative di protesta, anzi, abbiamo organizzato la prima manifestazione che si è svolta davanti alla residenza del Primo Ministro. Ci sono mobilitazioni praticamente ogni giorno ed a Tel Aviv negli ultimi due sabati si sono svolte manifestazioni molto partecipate. Come sempre, per ora si muovono solo i gruppi più radicali.
Pensi che questa situazione possa cambiare?Quello che succede in questo momento lo chiamo la "sindrome dell'alluce". Hai presente quando vai al mare e metti l'alluce nell'acqua per sentire se è troppo fredda? In genere quando la protesta cresce, anche le organizzazioni meno radicali prendono coraggio e si schierano. Ma prima di prendere iniziativa vogliono capire bene. È stato così anche con la prima Intifada. In effetti la situazione è difficile, c'è un diffuso clima di sostegno nei confronti dell'esercito e di entusiasmo, per una guerra di difesa che pertanto viene considerata giusta. Far sentire una voce diversa è molto difficile. Dobbiamo quasi sempre ricorrere ad annunci a pagamento. In fasi come questa, i media sono molto patriottici e nazionalisti e per la sinistra radicale è difficilissimo ottenere spazi. Ci sono i primi timidi segnali di cambiamento, ma l'appoggio al governo e all'esercito resta molto forte. Ci sono stati 51 morti in territorio israeliano, tanta gente vive nei rifugi, i danni economici e materiali sono consistenti, la gente ha paura davvero. Gerusalemme è piena di sfollati. Ovviamente questo rafforza la posizione del governo, che spinge solo verso la guerra. Persino la situazione drammatica di Gaza, dove continuano costantemente gli attacchi dell'esercito, causando quasi ogni giorno morti e feriti, passa quasi sotto silenzio, tranne che per la destra che continua a dire che il ritiro unilaterale è stato un errore. In effetti anch'io penso che sia stato un errore, ma non per il ritiro in sé, per il fatto che sia avvenuto in modo unilaterale e non sulla base di un accordo tra le parti».
Ti aspettavi qualcosa di diverso da questo governo?Francamente si, mi ha molto deluso. Ha condotto tutta la campagna elettorale parlando della necessità di tagliare le spese militari per spostare risorse sulla spesa sociale. Invece si è immediatamente schierato sulle posizioni dell'esercito, di cui mi pare che non abbia alcun controllo. Anzi, ho l'impressione che non ci stia nemmeno provando e che sia l'esercito a prendere le decisioni, mentre il governo si limita a metterle in pratica. Sia lui che Olmert non sono militari professionisti e quindi tendono ad avere un ruolo subalterno nei confronti dei generali. Temono che i vertici dell'esercito li possano scavalcare rispetto al consenso dell'opinione pubblica.
Stai dicendo che il fatto che per la prima volta ci sono importanti esponenti del governo che non hanno alle spalle una carriera militare, sta dando più potere all'esercito? Non è un paradosso?No, non lo è. Si tratta di un fatto strutturale, insito nel sistema. Ci sono pochissimi precedenti in cui il governo ha agito con il parere negativo dell'esercito, che è il suo referente principale e l'unico in grado di presentare programmi strutturati. Ad esempio manca un organismo come il Consiglio Nazionale per la Sicurezza che c'è negli USA. Non che cambi molto nelle scelte, ma sono comunque possibili - almeno in teoria - diverse valutazioni e diverse opzioni, i militari non sono l'unico interlocutore del governo. Recentemente Amir Oren, il corrispondente militare di Haaretz, quindi persona bene informata, in articolo parlava di due questioni importanti, ovvero del fatto che l'esercito si stava preparando da mesi a questa situazione e del fatto che il generale Iland, all'epoca consulente per la sicurezza nazionale, sosteneva la necessità di un'iniziativa politica e diplomatica, con uno scambio dei prigionieri ed interventi sulla situazione nel nord, in particolare rispetto alle Fattorie di Sheba. Olmert lo ha rimosso.

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