I campi del «no» al disarmo Onu
«La tragedia di Sabra e Chatila, quando l'Olp si ritirò da Beirut in cambio della promessa che le truppe multinazionali avrebbero difeso i campi ci insegna quanto sia pericoloso fidarsi delle promesse internazionali. Ogni volta che ci siamo fatti convincere a lasciare le nostre armi siamo stati sistematicamente ingannati e consegnati ai nostri carnefici. Per questo vi assicuro che senza il riconoscimento dei nostri diritti nazionali sanciti dalle risoluzioni dell'Onu e di quelli civili in Libano non ci sarà alcun disarmo dei campi palestinesi, anche a sud del fiume Litani». Sultan Abu Alaynen, organizzatore della resistenza dei campi di Beirut a metà degli anni '80, e attualmente comandante di Fatah in Libano, ci esprime così tutto il suo sdegno per le sempre più insistenti voci che danno per imminente l'imposizione di un disarmo dei due principali campi palestinesi a sud del fiume Litani, Rashidiyeh e Burj el Chemali, nei pressi di Tiro, da parte dell'esercito libanese e delle forze Unifil, sulla base di un'interpretazione discutibile della risoluzione 1701 sulla «cessazione delle ostilità».
Il campo di Rashidiye, sulla strada che porta da Tiro al vicino confine con Israele, tra bananeti, aranceti e orti, accoglie oltre 20.000 ex-contadini cacciati dal nord della Palestina nel 1948 e oggi il suo futuro, al pari di quello di tutti i 400.000 profughi palestinesi in Libano è sempre più scuro. Per questo il disarmo dei campi «potrà essere - continua Sultan - solamente il punto finale di una trattativa su tutta la condizione palestinese e non certo l'inizio. La pace non dipende dal disarmo della resistenza o dalle truppe straniere ma dalla volontà o meno di Israele e degli Usa a riconoscere i nostri diritti». Il tentativo di tornare alla situazione precedente al 1969, a prima della «rivoluzione», quando i campi si liberarono dall'oppressiva presenza della polizia e dei servizi segreti libanesi e diventarono «no-go area» per l'esercito di Beirut, è arrivata in questi giorni come una doccia fredda sui palestinesi «ospiti» senza diritti nella «repubblica dei cedri», all'indomani di uno straordinario momento di unità con la popolazione sciita del sud del Libano rifugiatasi in parte proprio nei campi palestinesi. Il tentativo israeliano di soffiare sul fuoco delle divisioni religiose tra i profughi sunniti e gli abitanti dei villaggi sciiti alle spalle di Tiro, risparmiando per una volta i primi e distruggendo i secondi ha avuto un effetto opposto a quello che si aspettavano a Tel Aviv con oltre 10.000 sfollati sciiti accolti e ospitati a Rashidiyeh. Non solo. Il campo alla periferia di Tiro - più volte raso al suolo dagli israeliani con oltre 1000 morti e sempre ricostruito - per tutti i 34 giorni dalle guerra con il suo panificio ha letteralmente rifornito l'intera città di Tiro dove tutti e 15 i forni funzionanti, per il blocco delle strade, erano stati costretti a chiudere. Uno sforzo non da poco se consideriamo la miseria imperante, con il 65% dei profughi sotto la soglia di povertà, la disoccupazione, i divieti a fare oltre 60 mestieri e professioni e l'impossibilità ad avere qualsiasi proprietà, persino quella della casa nella quale abitano, che affliggono i profughi palestinesi. Quattrocentomila disperati per nulla disposti ad essere ancora una volta dimenticati dal mondo ma piuttosto - come ci dice sorridendo un giovane studente universitario - decisi a rimanere come «spine nella gola del mondo fino a che non otterremo uno stato e la possibilità di tornare in Palestina».
Nel frattempo la guerra è finita, i forni di Tiro hanno ripreso a funzionare e l'esercito libanese ha circondato di nuovo il campo e ha rimesso in funzione il suo posto di blocco all'ingresso con una garitta a strisce bianche e rosse e uno stanco tank che sonnecchia sotto una rete mimetica. Poche decine di metri più in là alcuni soldati con il basco rosso delle forze regolari palestinesi, seduti davanti ad un grande ritratto di Arafat, con il fucile sulle gambe, sorseggiano un buon caffè portatogli da un ragazzino che abita li vicino. All'interno tra le baracche in muratura separate spesso da piccoli orti e da alberi di fico spuntano qua e là dei rifugi antiaerei, ora in disuso, ma che non pochi stanno pensando di rimettere in funzione. «Nessuno vuole la guerra e speriamo che non ci sia nessun problema - ci dice un giovane combattente con lo stemma di Fatah sulla divisa, uno di quei giovani "di roccia e di timo" descritti così bene dal poeta Mahmoud Darwish - ma non possiamo restare sempre così senza poter tornare in patria, senza stato, senza diritti, anche noi vogliamo un futuro e se non ce lo daranno ce lo prenderemo. Altro che disarmo. La mia casa è di là del confine, vicino ad Acri e noi siamo qui, in una baracca, nonostante la risoluzione 194 parli del nostro diritto al ritorno e ad un risarcimento. Se vogliono che rispettiamo la 1701 allora facciano lo stesso con Israele imponendo anche il rispetto della 242 e della 338 sul ritiro israeliano e della 194 sul ritorno in Palestina. Altrimenti non pensino di poterci dimenticare qui all'inferno». «Questi giovani - ci dice un anziano notabile palestinese di Tiro - non sono come noi, costretti a lasciare il nostro paese. Questi giovani hanno visto nelle ultime settimane che Israele non è invincibile e che può essere fermato e non si accontenteranno delle solite vuote promesse. Se dovranno morire preferiranno farlo sulla terra di Palestina con negli occhi l'immagine di quelle case in pietra così solide e di quelle viti rigogliose, delle quali hanno sempre sentito parlare da noi anziani ma che non hanno mai visto. Questa vita da profugo, senza futuro, sospesa, è una non vita alla quale solamente la lotta fino, se necessario, al sacrificio di sé, può dare un senso».
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