La battaglia dei gay israeliani
Festa grande ieri all'Open House di Gerusalemme. Noa Satat, a capo dell'associazione omosessuale, per tutto il giorno ha fatto fatica a contenere la felicità. «Alla fine abbiamo avuto partita vinta, la Corte suprema ha riconosciuto la legittimità del Gay pride nella nostra città. E' stata un vittoria del diritto sull'arbitrio. La manifestazione di quest'anno avrà per noi un'importanza particolare, alla luce della sobillazione che è stata organizzata nei nostri confronti», ha detto ai giornalisti che si sono precipitati alla sede di Open House dopo la sentenza dei massimi giudici israeliani che, pur ritenendo fondate le preoccupazioni della polizia per il mantenimento dell'ordine pubblico, hanno sentenziato che non si possono negare i diritti di una intera comunità a manifestare in pubblico. Vittoria ma non totale. Il Gay Pride si farà il 10 novembre, dalle prime ore della mattina fino all'inizio del riposo sabbatico, ma vi parteciperanno solo gli omosessuali israeliani. L'evento mondiale nella Città santa - previsto tra luglio e agosto - di cui si parla ormai da due anni è stato ancora una volta rinviato, ufficialmente a causa di circostanze politiche - nel 2005 per il concomitante ritiro unilaterale di soldati e coloni ebrei da Gaza; quest'anno per l'offensiva israeliana contro il Libano - in realtà per le pressioni delle potenti istituzioni religiose ebraiche che quando si parla di lotta agli omosessuali ricevono l'appoggio incondizionato anche dei leader cristiani e musulmani locali. I rappresentanti delle tre fedi monoteiste - alleati contro «l'abominio che ferisce la sensibilità religiosa di milioni di persone», avevano lanciato anche un appello a Benedetto XVI. Battuti dalla sentenza della Corte suprema, i religiosi ebrei torneranno certamente alla carica in questi due mesi che mancano alla manifestazione per tentare di impedirla. Per stabilire la data del 10 novembre sono occorse numerose schermaglie con il municipio israeliano di Gerusalemme, guidato dal sindaco ebreo ortodosso Uri Lupoliansky, e con la polizia che dietro i timori per l'ordine pubblico ha nascosto il suo sostegno alle ragioni dei religiosi. Nessun risultato, ad esempio, hanno dato le indagini avviate, formalmente, per individuare i responsabili di intimidazioni a danno delle organizzazioni degli omosessuali. Nei mesi scorsi a Mea Sharim e altri rioni ebraici sono apparsi manifesti in cui si offriva un compenso di 3 mila euro a chiunque uccidesse un omosessuale o una lesbica. In passato dalle minacce ai fatti passò un ebreo ortodosso che accoltellò tre omosessuali ferendone uno in modo grave. Alla polizia spiegò di aver agito per impedire che «il Male» si manifestasse nella Città santa. Aggressioni simili potrebbero accadere nelle prossime settimane. Un esponente dell'estrema destra israeliana, Baruch Marzel, noto per le sue ripetute aggressioni a danno dei palestinesi - che, naturalmente, lasciano indifferenti esercito e polizia - ha avvertito che il Gay pride scatenerà «una guerra santa». «Impediremo quella manifestazione con tutti i mezzi a nostra a disposizione», ha detto. Voci che girano in città riferiscono di ortodossi pronti anche a far uso di molotov contro il corteo omosessuale. L'ostilità nei confronti del Gay pride a Gerusalemme è cresciuta soprattutto in questi ultimi due anni. Le manifestazioni degli anni passati, sebbene ostacolate e condannate, avevano potuto attraversare anche una parte del centro della zona ebraica della città. I raduni avevano anche visto la partecipazione di associazioni - come «Lavanderia sporca» di Tel Aviv - che alla lotta per i diritti degli omosessuali e delle lesbiche nello Stato ebraico univano anche il sostegno al diritto dei palestinesi di mettere fine all'occupazione israeliana e di costruirsi un futuro di indipendenza e libertà. I responsabili di Open House si attendono la presenza alla manifestazione del 10 novembre anche di omosessuali dei Territori Occupati. Una partecipazione che tuttavia è fortemente condizionata al permesso dell'esercito.
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