Le donne invisibili di Gerusalemme est
Umm Ibrahim esce di casa poco dopo le 2 di notte, quando sente avvicinarsi un vecchio Ford Transit, il furgone di suo cugino Adel. Lascia a letto i figli e il marito, disoccupato da mesi, e, prima di aprire la porta, si avvolge una sciarpa intorno al viso per ripararsi dal vento freddo di gennaio. Gran parte degli otto posti all'interno del Ford sono occupati da donne. È più o meno lo stesso gruppo di persone che nel pieno della notte lascia Nahalin, a qualche chilometro da Betlemme, e si avvia verso Gerusalemme, la meta da raggiungere, dove vendere spinaci, pomodori, salvia e tutto ciò che producono i campi coltivati del villaggio.
«Rischiamo di non farcela - racconta Umm Ibrahim - dobbiamo superare il muro (costruito da Israele in Cisgiordania) e ogni volta gli autisti ci portano in punti diversi, dove la barriera non è ancora terminata o dove i nostri uomini aprono buchi nelle recinzioni. Capita di dover superare ostacoli alti un paio di metri e persino strisciare sotto le reti. Io sono ancora giovane e posso farlo, ma altre donne, quelle più anziane, non riescono ad andare avanti e sono costrette a tornare a casa». Umm Ibrahim è una delle tante fallahat, le contadine palestinesi della Cisgiordania che tentano, due-tre giorni alla settimana, di entrare a Gerusalemme superando il muro che circonda la zona araba (quella orientale) della città occupata da Israele nel 1967.
Sono «illegali» secondo la legge dello Stato ebraico ma non per le risoluzioni delle Nazioni Unite, che considerano un corpo unico Gerusalemme Est, Cisgiordania e Gaza, ovvero i Territori occupati. Non esitano a correre il rischio di essere arrestate (sono stati denunciati anche casi di maltrattamenti e percosse da parte della polizia), pur di arrivare a sistemare le loro merci sulla scalinata della Porta di Damasco, l'ingresso principale della Città Vecchia di Gerusalemme. «Mio marito è un fabbro e in questi ultimi mesi ha avuto solo qualche occupazione occasionale - dice Umm Ibrahim - fino ad un anno fa aveva un permesso di lavoro israeliano e poteva andare a Gerusalemme e Tel Aviv, ma ora (i comandi militari) rifiutano di rinnovarlo. Così coltiva quel po' di terra che abbiamo, ma non basta. Viviamo grazie a ciò che riesco a vendere». Adel guida sicuro e veloce, diretto ad Abu Dis, alle porte di Gerusalemme est, dove farà scendere le sue passeggere proprio accanto al muro alto in quel punto oltre otto metri. Le luci dei lampioni fanno brillare le vernici dei murales, fatti da pacifisti locali e internazionali, disegni tracciati sugli enormi lastroni di cemento armato.
Una mano gigantesca, dipinta da un artista italiano, bussa simbolicamente sul muro dicendo: «Fateci entrare, possiamo vivere insieme». Ma l'arte non basta ad abbattere quel colosso grigio e cupo che da oltre due anni separa i sobborghi palestinesi di Ezzariyah e Abu Dis da Gerusalemme est. Sono le 3.30. Umm Ibrahim e le altre donne scendono lentamente dal Ford, prendono le loro grandi buste nere colme di verdure e le portano verso alcuni furgoni in attesa.
Le donne saliranno su automobili senza le insegne dei taxi - per non attirare l'attenzione della polizia alla ricerca di varchi aperti nelle recinzioni - le merci viaggeranno invece sui furgoni con la targa di colore giallo israeliana, che entreranno Gerusalemme passando per i posti di blocco di esercito e polizia di frontiera. Se tutto va bene, persone e merci si incontreranno di nuovo alla porta di Damasco. «Dalle 4 in poi per due-tre ore a fari spenti, vaghiamo da nord a sud alla ricerca del passaggio buono», riferisce Ali A., uno degli autisti, in genere uomini con più di 50 anni, perché i più giovani, se individuati come «clandestini» intenzionati ad entrare a Gerusalemme, rischiano di essere pestati, oltre a una multa salata (centinaia di euro) e il ritiro della patente. «Con quelli più anziani sono comprensivi, talvolta chiudono un occhio, ma con i giovani non si fanno scrupoli, lo stesso accade anche per le donne che trasportiamo». Umm Ibrahim fino ad oggi è stata solo fermata e ammonita, gli agenti non sono stati violenti con lei. «Una mia conoscente invece è finita in carcere per due giorni e ora deve pagare una multa di 8mila shekel (circa 1.500 euro)», racconta la donna.
Il punto in cui dalla Cisgiordania riescono ancora a superare il muro è nella zona della colonia di Newe Yaacov, a nord della Città Santa, sulla strada che porta a Ramallah. In quel settore non ci sono soltanto i lastroni di cemento armato a sbarrare la strada, ma anche recinzioni che la polizia non riesce a controllare che occasionalmente. Alcuni manovali palestinesi tagliano le reti in un angolo nascosto e poi avvertono gli autotrasportatori dell'esistenza di un nuovo ingresso in città.
«Quando in giro ci sono troppi poliziotti oppure il varco aperto viene scoperto, allora con le mie compagne andiamo al valico di Qalandia, per tentare di superare i controlli. Qualche volta va bene, più spesso siamo costrette a tornare indietro». Alla fatica fatta, al sonno perduto, si aggiunge il danno economico. «Il viaggio che intraprendono queste donne e tante altre persone della Cisgiordania che hanno bisogno assoluto di raggiungere Gerusalemme, costa 70-80 shekel (14-15 euro), una somma molto alta per la gente dei Territori occupati, e ritornare a casa con tutta la merce invenduta è un rischio che sempre meno palestinesi hanno la voglia di correre», spiega Daoud M., ricercatore della campagna «Stop the Wall» (su internet al sito www.stopthewall.org) che ieri ha accompagnato in un tour lungo il muro che circonda Gerusalemme, organizzato dall'Università Al-Quds, una cinquantina di giornalisti, operatori umanitari e pacifisti internazionali. «Le conseguenze economiche causate dalla realizzazione del muro non sono state ancora ben analizzate, così come quelle sociali - aggiunge - con le misure restrittive israeliane che prendono di mira i palestinesi maschi, specie i giovani, le donne si sentono investite da nuove responsabilità, dalla necessità di garantire un reddito alle famiglie».
Umm Ibrahim ha figli piccoli e torna a casa ogni sera. Se è stata fortunata con i clienti e se la polizia non ha effettuato raid a sorpresa tra le bancarelle del suq della Porta di Damasco, allora in tasca avrà un centinaio di shekel (18 euro) «puliti». Due-trecento shekel a settimana che bastano a comprare il cibo e qualche medicina, niente di più. Le sue compagne con qualche anno in più sulle spalle, per abbattere le spese di viaggio, invece si fermano a dormire nella Città Vecchia. Nei vicoletti della parte più intrigante e inquietante di Gerusalemme est, a fine giornata si concludono trattative particolari.
Le famiglie più povere affittano una stanza, in qualche caso solo una verandina, a tre-quattro fallahat che si adattano a dormire su materassi sottili già pronti sul pavimento, l'una accanto all'altra, pagando dieci shekel a notte. Il giorno dopo sono già sul posto, pronte ad urlare «maramia, nana, maramia, nana» (salvia e menta in arabo). A casa ritornano solo il giovedì per concedersi un venerdì di riposo in compagnia di mariti e figli, in qualche caso festeggiando i 500-600 shekel racimolati in quasi una settimana di lavoro. Quelle stesse verdure, vendute nei loro villaggi, avrebbero portato a casa meno della metà. «Le difficoltà sono enormi per queste contadine che devono compiere tragitti durissimi e correre rischi gravi pur di entrare a Gerusalemme. Ma non possono farne a meno, perché solo in questo modo possono garantirsi il pane. In ogni caso la accresciuta partecipazione delle donne al lavoro produrrà effetti interessanti nella nostra società», prevede Huda al-Iman, una funzionaria dell'Università Al-Quds.
Sono tanti i palestinesi, uomini e donne, vecchi e giovani, non solo venditori ambulanti ma anche insegnanti, infermieri, impiegati, che ogni giorno tentano di entrare a Gerusalemme percorrendo, più o meno, lo stesso tragitto di Umm Ibrahim. Da Beit Ummar, vicino a Hebron, il sabato alle 3-4 del mattino parte ad esempio il maestro Fares N., assieme a due colleghi e un commerciante. Insegna da dodici anni in una scuola elementare del Wafq (l'ente che amministra i beni islamici) a poche centinaia di metri dalla Città Vecchia, ma da quasi due anni Fares non riesce ad ottenere il rinnovo del permesso di lavoro a Gerusalemme.
«Mi arrangio, giro in auto per due-tre ore alla ricerca del varco giusto nel muro, ma alla fine riesco a raggiungere i miei alunni. È faticoso, ma non posso permettermi di perdere il lavoro, ho tre bambini piccoli», racconta con il sorriso sulle labbra. Anche Fares a sera non torna a casa. «Mi aspettano il giovedì - prosegue - certo, non è facile rimanere lontano dalla famiglia per tanti giorni ma è meglio del carcere o di una multa. Una coppia di miei colleghi dopo l'arresto sono stati avvertiti che se verranno pescati di nuovo a Gerusalemme dovranno pagare una sanzione di 35mila shekel (equivalenti a circa 6.500 euro)». Il maestro Fares si considera tutto sommato fortunato, perché lui non è costretto a pagare per un posto letto. Il direttore della scuola gli consente di dormine nel magazzino, dove lui ha sistemato una brandina e un armadietto. La sera guarda la tv assieme al guardiano, poi si addormenta sognando di stare a casa sua e di poter stringere tra le braccia i suoi bambini.
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