Israele di fronte a una porta aperta
La domanda più puntuale sul vertice arabo è semplice: in caso di cambiamenti storici nella regione del Medioriente, il governo israeliano sarà all'altezza del momento o continuerà con una linea politica che porta alla guerra permanente?
I leader arabi ripetono i contenuti dell'iniziativa che ha sostenuto Sharon pochi anni fa. Il vecchio sogno di Israele può ora realizzarsi al prezzo della ritirata dai territori occupati nel 1967. Il vecchio sogno della pace regionale: contatti normali con un mondo arabo un tempo ostile ma oggi disponibile a una svolta. Tanto il fondamentalismo islamico nelle sue versioni radicali, quanto la politica estera dell'Iran, vista come espansionista dai regimi arabi che temono la sharia iraniana, giocano un ruolo importante nel cambiamento. L'instabilità che questi elementi creano, è vista come un pericolo reale dalla maggioranza dei regimi arabi. Compresa la Siria, un alleato dell'Iran, che cerca la strada verso l'occidente per conquistarsi un miglior orizzonte economico nel quadro del neoliberismo imperante. Se a questo si aggiungono la recente guerra in Libano e il disastro quotidiano in Iraq, si comprende meglio sia l'iniziativa araba che l'urgenza che sembrava muovere il vertice in Arabia saudita.La guerra in Iraq e quella in Libano hanno mostrato i limiti della forza. Ma hanno anche evidenziato gli effetti devastanti dell'aggressione americana e i pericoli della furia militare israeliana che non ha sconfitto il fondamentalismo di Hezbollah, ma ha portato caos e distruzione.
Al vertice arabo hanno partecipato anche i palestinesi. Contro la linea molto moderata del presidente Abu Mazen e Al Fatah si sono espressi il presidente Haniyeh, con Hamas e il leader «in esilio» Khaled Meshal. Il disaccordo di questi ultimi sulla questione dei profughi non può offuscare il principale risultato del vertice: il mondo arabo - Hamas compreso - è disposto a riconoscere Israele in cambio della rinuncia alle conquiste del 1967. Mentre la destra israeliana conta di generare il panico di fronte a una iniziativa «pericolosa che contiene i germi della distruzione di Israele» e i circoli fondamentalisti si appellano di nuovo alla «santità della terra» - Dio ci ordinò di non cedere neanche un centimetro agli eretici -, si notano però insolite manifestazioni di pragmatismo, anche se ancora molto limitate quanto a reale influenza. Il presidente Olmert, politicamente sotto accusa, secondo molti alla fine della sua carriera, sorprende quando abbandona l'attitudine di totale rifiuto che ha caratterizzato la leadership israeliana nelle ultime settimane. Contava di cambiare il segno dell'iniziativa con l'aiuto dell'America, e ora cambia tono. E così anche gli americani, immersi nel loro cieco interventismo, capiscono che nel mondo arabo sta succedendo qualcosa che non possono condizionare completamente secondo il volere di Washington o quello di Gerusalemme. Per un verso le dichiarazioni di Olmert contengono elementi positivi, ma per un altro sono la nuova espressione di una politica israeliana che porta in un vicolo cieco il paese e la regione, e forse ancora più guerra. Olmert invita a trattare con l'Arabia saudita e loda gli elementi positivi (il riconoscimento di Israele da parte del mondo arabo). Però evita la principale questione: l'apertura dei negoziati con i palestinesi. E con la coalizione che include Hamas.
I termini sono semplici e problematici: ritiro alle frontiere del 1967, Gerusalemme, i rifugiati. Il governo israeliano non può continuare a condizionare il dialogo con la solita linea: il ritorno dei rifugiati come pericolo mortale, Gerusalemme indivisibile. Oggi, la comunità internazionale può giocare una carta che non esisteva prima con tanta forza. Per questo servirebbe una svolta nella politica israeliana, che però è ben lontana dal confrontarsi con le questioni fondamentali e con la prospettiva di una coesistenza dei popoli della regione. Gli israeliani non avranno la sicurezza che tanto li preoccupa se non abbandoneranno la mentalità paranoica di creare un bastione militare fortificato in una regione ostile.
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