Lo strano sequestro di Alan Johnston
Aumentano gli appelli di giornalisti palestinesi e internazionali a favore della liberazione di Alan Johnston, il reporter della Bbc sequestrato da uomini armati e con il volto mascherato, tre settimane fa a Gaza city. Il presidente dell'assostampa palestinese, Naim Tubasi, due giorni fa, durante un sit-in di protesta a Ramallah, ha riferito di aver appreso che il giornalista britannico non è in pericolo di vita ma anche che le sue condizioni di salute non sono buone e ha perciò chiesto interventi «ad alto livello» per ottenere la sua immediata liberazione e per mettere fine ai sequestri di giornalisti ed operatori umanitari stranieri che si ripetono da un paio d'anni a questa parte a Gaza (quasi tutti i rapiti sono stati liberati nel giro di qualche ora e dietro il pagamento di riscatti modesti).
Il governo palestinese di unità nazionale invece sembra paralizzato, apatico, nei confronti di questo problema e la vicenda di Johnston sembra confermare le voci, insistenti, sull'intenzione di Fatah e Hamas (i due principali partiti della coalizione) di non arrivare allo scontro con la hammule (clan familiare) che ha sequestrato il giornalista. A Gaza tutti sanno che Johnston si trova nelle mani di Mumtaz Daghmush, leader di una delle hammule più potenti (e turbolenti) che in cambio della sua liberazione vorrebbe, oltre ad un paio di milioni di dollari, anche la consegna di una decina di militanti di Hamas coinvolti, in apparenza, nell'uccisione di due membri del suo clan, durante i furiosi combattimenti tra militanti di Fatah e quelli islamici che hanno insanguinato Gaza tra dicembre e febbraio. «Questo è un rapimento diverso dagli altri sequestri avvenuti a Gaza, molti elementi lasciano pensare che la liberazione di Alan richiederà ancora tempo», ha detto al manifesto il giornalista Safwat Kahlut, un amico del rapito, «Hamas non pare avere alcuna intenzione di cedere alle richieste di Daghmush, con il quale ha diversi conti in sospeso, e Fatah non vuole entrare in una vicenda che potrebbe concludersi in modo violento se non addirittura con uno spargimento di sangue».
Fino a qualche anno fa Mumtaz Daghmushe e i suoi 150-200 miliziani, tutti appartenenti alla sua hammule e ben armati, agivano come una forza alleata di Hamas. Poi a causa, pare, delle sue crescenti richieste economiche, il movimento islamico decise di liberarsene. Un passo che Daghmush non ha mai digerito, tanto da offrire la sua «collaborazione» al principale avversario di Hamas, l'ex ministro Mohammed Dahlan, l'«uomo forte» di Fatah a Gaza. Rotti i rapporti anche con Dahlan, Daghmush di fatto ora lavora per chi «paga meglio» e qualche tempo fa si è parlato addirittura di suoi contatti con Al-Qaeda, interessata a creare una cellula operativa a Gaza.
Il caso di Johnston sta riproponendo la questione del ruolo dei clan familiari nella già disastrata condizione politica e sociale di Gaza che, nonostante l'evacuazione di coloni e delle forze di occupazione nell'estate del 2005, resta sotto la costante pressione di Israele, di fatto, una grande prigione. I Daghmush sono soltanto uno dei clan più potenti - Shawwa, Helles, Masri, Kafarna, Al-Astal, Abu Taha, Barbakh - che controllano il territorio e persino lo scomparso presidente Yasser Arafat, una volta rientrato dall'esilio (1994), non esitò a servirsene per garantirsi la tranquillità di Gaza.
Hamas, partendo dal principio della «uguaglianza» dei fedeli di fronte a Dio, ha provato a offrire un modello di gestione sociale alternativo a quello delle famiglie allargate, ma in non pochi casi ha dovuto ugualmente far ricorso all'aiuto di qualche famiglia, specialmente per contrastare Fatah. Le hammule spesso sono il lotta tra di loro, per ragioni di potere, talvolta per motivi banali. Lo scorso anno una faida divampata nel nord di Gaza tra le famiglie Masri e Kafarna ha provocato decine di morti e feriti. Vittime hanno fatto registrare anche gli scontri a fuoco esplosi qualche giorno fa nella zona di Khan Yunis tra i Masri e gli Astal.
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