Palestina

Un'intera nazione prigioniera di Israele

L'uso selettivo della lingua da parte dei media e la censura per omissione del giornalismo occidentale coprono la scientifica violenza israeliana Gaza deve (dovrebbe) essere mostrata per quello che è: un laboratorio israeliano, sostenuto dalla comunità internazionale, dove gli essere umani vengono usati come conigli per testare le pratiche più perverse di soffocamento economico e riduzione alla fame
14 giugno 2007
John Pilger
Fonte: Il Manifesto (http://www.ilmanifesto.it)

Si sta consentendo a Israele di distruggere la nozione stessa di Stato palestinese e di tenere prigioniera un'intera nazione. Questo appare in modo evidente dagli ultimi attacchi su Gaza, la cui sofferenza è diventata una metafora della tragedia imposta ai popoli in Medio Oriente ed oltre. Secondo il notiziario britannico Channel 4 News, questi attacchi «erano mirati contro importanti militanti di Hamas» e contro «l'infrastruttura di Hamas». La Bbc ha parlato di uno «scontro» tra gli stessi militanti e gli F-16 israeliani.
Consideriamo uno di questi scontri. L'automobile dei militanti è stata fatta esplodere da un missile partito da un cacciabombardiere. Chi erano questi militanti? Secondo la mia esperienza, tutti gli abitanti di Gaza sono militanti in quanto resistono al loro carceriere e aguzzino. Quanto alla «infrastruttura di Hamas», si trattava della sede del partito che ha vinto le elezioni democratiche dell'anno scorso in Palestina.
Dire questo darebbe una cattiva impressione. Suggerirebbe che le persone a bordo dell'automobile e tutti gli altri nel corso degli anni, i bambini e gli anziani che si sono anche loro «scontrati» con i cacciabombardieri, sono stati vittima di una mostruosa ingiustizia. Suggerirebbe la verità.
«Secondo alcuni». ha detto il reporter di Channel 4, «Hamas ha sollecitato questo ...». Forse si riferiva ai razzi sparati contro Israele dall'interno della prigione di Gaza, che non hanno ucciso nessuno. Secondo il diritto internazionale, una popolazione occupata ha il diritto di usare le armi contro le forze di occupazione, ma questo diritto non viene mai citato. Il giornalista di Channel 4 ha fatto riferimento a una «guerra infinita». Non c'è nessuna guerra. C'è la resistenza della popolazione più povera, più vulnerabile sulla terra a una perdurante occupazione illegale imposta dalla quarta più grande potenza militare al mondo, le cui armi di distruzione di massa vanno dalle bombe cluster ai congegni termonucleari, pagate dalla superpotenza . Soltanto negli ultimi sei anni, ha scritto lo storico Ilan Pappé, «le forze israeliane hanno ucciso più di 4.000 palestinesi, la metà dei quali bambini».
Consideriamo come funziona questa potenza. Secondo i documenti ottenuti da United Press International, una volta gli israeliani finanziavano segretamente Hamas come «tentativo diretto di dividere e annacquare il consenso a un'Olp forte e laica utilizzando un'alternativa religiosa rivale», come ha detto un ex funzionario della Cia.
Oggi Israele e gli Usa hanno capovolto il loro intervento e sostengono apertamente il rivale di Hamas, Fatah, con mazzette di milioni di dollari. Di recente Israele ha segretamente autorizzato 500 combattenti di Fatah a entrare a Gaza dall'Egitto, dove erano stati addestrati da un altro protetto degli americani, la dittatura del Cairo. Scopo di Israele è indebolire il governo palestinese eletto e fomentare una guerra civile. Per tutta risposta, i palestinesi hanno creato un governo di unità nazionale, con Hamas e Fatah. È questo che gli ultimi attacchi mirano a distruggere.
Con Gaza rinchiusa nel caos e la Cisgiordania cinta da un muro, il piano israeliano, ha scritto l'accademica palestinese Karma Nabulsi, è «una visione hobbesiana di una società anarchica: monca, violenta, impotente, distrutta, intimidita, governata da milizie, bande, estremisti e ideologi religiosi i più disparati, divisa dal tribalismo etnico e religioso e dai collaborazionisti cooptati. Guardate l'Iraq di oggi...».
Il 19 maggio, il Guardian ha ricevuto questa lettera da Omar Jabary al-Sarafeh, un abitante di Ramallah. «La terra, l'acqua e l'aria sono sotto costante osservazione da parte di un sofisticato sistema di sorveglianza militare... La striscia di Gaza deve essere mostrata per ciò che è... un laboratorio israeliano sostenuto dalla comunità internazionale dove gli esseri umani vengono usati come conigli per testare le pratiche più drammatiche e perverse di soffocamento economico e di riduzione alla fame».
Il giornalista israeliano Gideon Levy ha descritto la fame che colpisce gli abitanti di Gaza, più di un milione e 250 mila persone, e le «migliaia di persone ferite, rese disabili e scioccate dalle bombe, che non possono ricevere alcuna assistenza... Ombre di esseri umani vagano tra le rovine... Sanno solo che tornerà, e sanno cosa significherà questo per loro: più prigionia nelle loro case per settimane, più morte e distruzione in proporzioni mostruose».
Ogni volta che sono stato a Gaza, sono stato consumato da questa malinconia, come se fossi penetrato in un segreto luogo di cordoglio. Le scritte sui muri forati dai proiettili commemorano i morti, come la famiglia di 18 uomini, donne e bambini che «si sono scontrati» con una bomba israelo-americana da 500 libbre, lanciata sulla loro casa mentre dormivano. Militanti, si presume.
Più del 40% della popolazione di Gaza è formato da bambini sotto i 15 anni. Dando conto di uno studio sul campo per il British Medical Journal effettuato per 4 anni nella Palestina occupata, il dottor Derek Summerfield ha scritto che «due terzi dei 621 bambini uccisi ai check-point, per strada, mentre andavano a scuola, nelle loro case, sono morti per piccole armi da fuoco che li hanno colpiti in più della metà dei casi alla testa, al collo e al petto: la ferita del cecchino». Un mio amico che lavora all'Onu li chiama «figli della polvere». La loro stupenda infantilità, la loro chiassosità, le loro risate, il loro incanto, tradiscono il loro incubo.
Ho incontrato il dottor Khalid Dahlan, uno psichiatra che dirige uno di svariati progetti di salute infantile sul territorio a Gaza. Dahlan mi ha parlato della sua ultima ricerca. «La statistica che personalmente trovo insopportabile» ha detto «è che il 99.4% dei bambini che abbiamo preso in esame soffrono per un trauma. Se si guardano i tassi di esposizione al trauma, si capisce il perché: il 99.2% del gruppo di studio ha avuto la casa bombardata; il 97.5% è stato esposto ai gas lacrimogeni; il 96.6% ha assistito a sparatorie; il 95.8% ha assistito a bombardamenti e funerali; quasi un quarto ha visto dei componenti della propria famiglia feriti o morti».
Dahlan spiega che bambini di soli tre anni hanno vissuto la dicotomia causata dal doversi misurare con simili condizioni. Essi sognavano di diventare medici e infermieri, poi tutto questo è stato travolto da una visione apocalittica di se stessi come la prossima generazione di attentatori suicidi. Ciò invariabilmente dopo un attacco israeliano. Per alcuni ragazzini gli eroi non erano più i calciatori, ma una confusione di «martiri» palestinesi e persino il nemico, «perché i soldati israeliani sono i più forti e hanno gli elicotteri Apache».
Poco prima di morire, Edward Said rimproverò amaramente i giornalisti stranieri per quello che giudicava il loro ruolo distruttivo nel «cancellare il contesto della violenza palestinese, la risposta di un popolo disperato e orribilmente oppresso, e la terribile sofferenza da cui essa scaturisce». Proprio come l'invasione dell'Iraq è stata una «guerra di media», altrettanto può dirsi del «conflitto» grottescamente unidirezionale che è in corso in Palestina. Come dimostra il lavoro pionieristico del Media Group dell'università di Glasgow, agli spettatori televisivi viene detto raramente che i palestinesi sono vittima di una occupazione militare illegale; il termine «territori occupati» è spiegato di rado. Solo il 9% dei giovani intervistati nel Regno unito sa che gli israeliani sono la forza di occupazione e i coloni illegali sono gli ebrei; molti credono che siano i palestinesi. L'uso selettivo della lingua da parte delle emittenti radiotelevisive è cruciale nel mantenere questa confusione e ignoranza. Parole come «terrorismo», «omicidio» e «uccisione selvaggia, a sangue freddo» descrivono la morte degli israeliani, quasi mai quella dei palestinesi.
Ci sono eccezioni lodevoli. L'inviato della Bbc rapito, Alan Johnston, è una di esse. Eppure, nella valanga di notizie sul suo rapimento, non si citano mai le migliaia di palestinesi rapiti da Israele, molti dei quali non rivedranno le loro famiglie per anni. Per loro non ci sono appelli. A Gerusalemme, l'Associazione stampa estera documenta come i suoi membri siano sottoposti al fuoco e alle intimidazioni da parte dei soldati israeliani. In un periodo di 8 mesi altrettanti giornalisti, compreso il responsabile della Cnn a Gerusalemme, sono stati feriti dagli israeliani, alcuni di loro gravemente. In ciascun caso l'Associazione stampa estera ha protestato. In ciascun caso, non c'è stata una risposta soddisfacente.
Una censura per omissione attraversa profondamente il giornalismo occidentale su Israele, specialmente negli Usa. Hamas è liquidata come «un gruppo terroristico votato alla distruzione di Israele», che «rifiuta di riconoscere Israele e vuole combattere, non dialogare». Questo discorso sopprime la verità: il fatto che Israele sta distruggendo la Palestina. Inoltre le proposte di Hamas, avanzate da tempo, di un «cessate il fuoco» di 10 anni vengono ignorate, insieme a un recente, promettente spostamento ideologico al suo interno, che vede una accettazione storica della sovranità di Israele. «La carta non è il Corano», ha detto uno di Hamas, Mohammed Ghazal. «Storicamente crediamo che tutta la Palestina appartenga ai palestinesi, ma ora stiamo parlando della realtà, delle soluzioni politiche».
L'ultima volta che ho visto Gaza, mentre mi recavo in auto verso il check-point israeliano con il filo spinato, ho potuto assistere allo spettacolo di bandiere palestinesi che sventolavano dall'interno dei compound recintati. Erano stati i bambini, mi spiegavano. Fabbricano le aste con delle bacchette legate insieme, e uno o due di loro si arrampicano in cima a un muro tenendo la bandiera in silenzio. Lo fanno quando ci sono degli stranieri in giro, e pensano che potranno dirlo al mondo.

Note: Traduzione Marina Impallomeni
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