Adesso le Palestine sono due: Gaza e Cisgiordania. Si sbranano come hanno sempre sognato i falchi di ogni cancelleria d’Occidente. L’incubo della piccola patria promessa sta per finire. La kefia di Arafat, sotto terra; Abu Mazen erede sbiadito dai muscoli di Hamas, mentre le ultime cronache ufficializzano le bantulands annunciate nelle mappe dei piani di pace che dal 1948 continuano a restringere i palestinesi in macchioline separate, a volte invisibili, abbracciate da muri e carri blindati.
Laggiù, fuori da tutto, il ghetto di Gaza, l’Egitto dove è scappata la sacra famiglia negli anni di Erode: un milione e 200mila abitanti, uno sull’altro in 363 chilometri quadrati. Quando Sharon governava, si ritira da Gaza sdegnando gli accordi con Usa, Europa, Mosca anche se Washington approva a giro di telefono e l’Europa, settimane dopo, si adegua. La volontà palestinese non conta. Sharon sgombera Gaza a condizioni che annunciano un futuro da gigantesco lager. Nessun permesso per la ricostruzione dell’aeroporto bombardato. Nessun attracco marino, proibizione che cancella anche le barche da pesca: a 100 metri da riva non possono gettare le reti. Motovedette che sorvegliano, elicotteri che intervengono. Sorgenti d’acqua sotto controllo israeliano. Anche la luce arriva da centrali lontane. Da ieri, benzina tagliata e frontiera sempre chiusa per i pendolari di Mosè, quei palestinesi di Gaza che partivano all’alba e tornavano alla sera per guadagnarsi il pane - come chicanos messicani - nei campi e nelle fabbriche del Paese padrone.
Disoccupazione al 70 per cento. Chiusi dentro; fessura di un cancello aperto sulla sponda egiziana con l’obbligo del doppio filtro: filtro israeliano, filtro del Cairo e poi sabbia, solo sabbia, per 130 chilometri prima di arrivare alla prima città. Gaza è un’enorme periferia di Napoli dove si spara alla luce del sole. Vivono di rimpianti e di rabbia. E i piccoli campi dell’odio che sgretolano il futuro di ogni palestinese, si trasformano nei laboratori della disperazione dove il fanatismo pesca a piene mani. Cos’hanno da perdere? Gli aiuti della carità internazionale filtrano goccia a goccia. Anche i 600 milioni di dollari, diritti di dogana dovuti ai palestinesi, restano congelati nelle casse di Gerusalemme. Gli stipendi pubblici non si pagano da mesi e i negozi falliscono.
L’Europa blocca ogni intervento umanitario ingigantendo il potere dei clan bene equipaggiati e dell’estremismo che nutre le loro ambizioni. Può essere una distrazione, può essere il calcolo puntato sul fanatismo di Hamas che non riconosce il diritto di sopravvivenza di Israele. E quei razzi dell’idiozia, lanciati verso le colonie vicine, inutili, piccole ferite che complicano le mediazioni dei palestinesi moderati, increspando appena la cronaca dei testimoni che resistono a Gaza. Raccontano con le lacrime nelle parole. Non piagnistei o buonismo retorico. Ogni reporter del mondo propone l’angoscia della stessa domanda: quanto potranno andare avanti ? Come una miriade di topi stretti in gabbia finiscono per affidarsi al topo prepotente. I racconti dei racconti di padri, nonni, bisavoli distruggono ogni illusione. È sempre andata così, continuerà così.
Promesse rimandate da un anno all’altro e gli anni sono mezzo secolo. Lo hanno attraversato scappando davanti alle guerre, alle rappresaglie e all’orrore dei kamikaze che ricadeva su tutti: israeliani e palestinesi innocenti. Terrorismo che cancella ogni buona volontà. «Ogni volta che gli israeliani ascoltano l’espressione “il problema dei profughi palestinesi” sentono un pugno nello stomaco. Centinaia di migliaia vivono da sempre in campi disumani. Secondo Israele la colpa è dei leader palestinesi che hanno cominciato la guerra nel 1948 e degli stessi profughi che hanno abbandonato le case sconvolti dal panico.
Per gli arabi, la responsabilità è di Israele: ha espulso la gente con forza crudele, ripete Amos Oz, scrittore israeliano. «È venuto il momento di riconoscere apertamente la nostra partecipazione alla catastrofe che imprigiona i profughi palestinesi. Non siamo i soli responsabili e i soli colpevoli, ma le nostre mani non sono pulite. Lo Stato di Israele è sufficientemente maturo e forte per ammettere la propria parte di responsabilità e per accelerare le conclusioni». Oz indica gli obiettivi urgenti: concessione del diritto al lavoro e nazionalità palestinese a milioni di persone senza diritti.
La definizione dello status di Gerusalemme e il trattato che finalmente segni le frontiere dello Stato ebraico; dal 1948 ad oggi restano indefinite consentendo ai falchi la fantasia di chissà quale conquista. Oz fa capire che la responsabilità della catastrofe si allarga al Libano, minaccia il regime egiziano: Mubarak, buon amico dell’occidente, resta presidente con una trasparenza elettorale che avrebbe fatto arrossire Pinochet. Ma le responsabilità risalgono agli anni che precedono Hitler e la Shoa, prima ancora che il desiderio degli ebrei di ritrovarsi nella terra promessa si trasformasse nell’esodo dei perseguitati. Le cancellerie degli stessi Paesi che oggi non vedono e non sentono hanno allegramente disegnato l’angoscia dei nostri giorni.
Nel 1924 Francia ed Inghilterra si spartiscono a Losanna l’impero ottomano. Disegnano nuove frontiere secondo le convenienze, imponendo il controllo dei porti chiave per la navigazione verso «le Indie» e il dominio dei mercati asiatici in fondo al Mediterraneo. Cominciava la febbre del petrolio. Ai francesi toccano Siria e Libano protetto da Parigi e scorporato dall’influenza di Damasco. Era già deciso nel 1916 mentre la guerra mondiale bruciava l’Europa. Cinquanta milioni di morti non hanno impallidito gli affari. L’annuncio di un Libano francese ha un risvolto spirituale e coloniale: la pace religiosa andava protetta e per pace religiosa si intendeva la costituzione dettata da Parigi. Prevede che il presidente della nuova repubblica debba essere per sempre cristiano-maronita, non importa se i musulmani sono maggioranza. Poteri minori a sunniti, greco ortodossi, drusi. Gli sciiti, sconsiderati.
L’Inghilterra unifica Baghdad all’Egitto che già controlla militarmente ed allarga i confini del Kuwait del quale è protettrice dalla fine dell’Ottocento: sempre petrolio e navi per l’India. A British Petroleum e Gulf Oil Usa il monopolio dell’oro nero. Nel 1923 si attribuisce al Kuwait il destino di Paese cassaforte, specie di vetrina del benessere alla periferia di paesi ricchi ed inquieti, sull’esempio di Honk Kong. Lo sceicco Feisal, amico di Lawrence d’Arabia è la pedina usata da Londra per sgretolare l’impero ottomano: viene incoronato re dell’Iraq. Ha un fratello che si chiama Abdullah « scarso fascino, quasi analfabeta». Per accontentarlo si traccia un pentagono nel deserto. «Sovrano di sabbia», ironia della diplomazia occidentale. Abdullah è il nonno che lascia il trono a re Hussein di Giordania, bisnonno dell’Abdullah sovrano dei nostri giorni.
Con la distrazione di un colpo di penna i kurdi vengono dispersi in quattro nazioni. Turchia e Iraq se li stanno ancora dominando, non per dominare l’inconsistenza degli uomini: continua la sete del petrolio. A Losanna nessuno si è preoccupato su come avrebbero reagito i popoli tagliati per appagare gli appetiti dei signori del mondo. 80 anni dopo, l’analisi delle Nazioni Unite, pubblicata dal Guardian di Londra, definisce «devastanti» le conseguenze della politica di Bush, ultimo signore. «Nessuno deve perdere l’opportunità di perdere l’opportunità», sospirava Abba Eban, uno dei padri di Israele. Bush le ha bruciate tutte. Il Libano brucia, i palestinesi precipitano e Gaza è l’inferno che prima o poi qualcuno bombarderà. Iraq e Afghanistan sono i morti di ogni mattina. Paradossalmente i soli posti dove il voto è libero e trasparente restano Israele e Gaza. Israele per cultura e tradizione; Gaza perché lontana dalla corruzione di Fatah nell’illusione che protagonisti non compromessi possano cambiare con i muscoli la vita insopportabile.
Ma se la ragione all’improvviso tornasse, e scoppiasse la pace, c’è da essere contenti? Le inquietudini armate e le guerre di bassa e alta intensità, che da anni sconvolgono Medio Oriente, Filippine, Afghanistan, Africa e America Latina hanno allevato generazioni di guerriglie. Sanno solo combattere. Invecchiano con questo mestiere e i figli ne prendono il posto. A volte la patria è lo straccio di una bandiera clandestina: paga casa, minestra, apre modesti conti in banca. Le armi, unico strumento di lavoro: come possono riciclarsi nelle abitudini che non conoscono? Ma le cose non si mettono male: Al Qaeda e i Contractors Usa offrono la continuità dell’impiego. Se una guerriglia declina in Colombia, la società Balckwater americana è pronta ad accogliere gli sfiduciati. Con la guerra in Afghanistan ed Iraq è diventata il quinto braccio militare degli Stati Uniti. Braccio privato ma col vice presidente Dick Cheney e Rumsfeld, alle spalle. Coffer Black, leggendario protagonista delle azioni segrete Cia, ne è vice presidente. Ventimila agenti, aerei ed elicotteri da guerra.
Ufficialmente il governo Bush sborsa 100 milioni di dollari l’anno, ma il comitato d’inchiesta delle Nazioni Unite riunito a Ginevra dallo spagnolo Luis Gomez del Prado, si è accorto che le cifre sono più consistenti: attraverso scatole cinesi il Pentagono paga in nero. Coi democratici che controllano le camere a Washington l’aria è cambiata. I professionisti «ready to go», pronti per intervenire in qualsiasi momento, stanno lasciando: troppo rischio per pochi soldi. E Blackwaters recluta in Colombia fra i paramilitari della destra che imbarazzano Uribe. Blackwaters cerca in Guatemala e Salvador ex squadre della morte. Ufficiali di «seria professionalità» venezuelani ed argentini. Democrazia e pacificazione hanno annebbiato il loro potere e rimpicciolito gli stipendi. Se i nuovi stipendi Blackwaters sono poca cosa per i professionisti dell’altra America, per i professionisti latini è una paga di rispetto. La seduzione di Al Qaeda lega ai soldi il sacro furore integralista e al nazionalismo panarabo che riaccende i fuochi. Va forte in Pakistan, recluta in Europa e Nordafrica.
Le preoccupazioni della commissione di Ginevra per il momento restano preoccupazioni, ma se a Gaza all’improvviso tornasse la ragione, chi è cresciuto con le armi del nonno e del padre; chi sbarca il lunario con lo stipendio delle bande armate e si sposa e cresce i figli; se tutti si mettono proprio d’accordo non sa come cercare un’occupazione normale. «Attenzione», avverte il documento di Ginevra. «È urgente capire cosa succederà di questi uomini quando guerre e guerriglie si spegneranno». Se davvero si spengono ce li ritroviamo sotto casa con un solo mestiere. Ma da Gaza arriva una buona notizia: continuano ad ammazzarsi.
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