Una notte come un'altra a Nablus
E' l'una e mezza di notte. Qualcuno bussa insistentemente alla porta del nostro appartamento, all'ottavo piano di un edificio vicino alla strada centrale di Rafidia a Nablus.
Apro la porta in mutande e nel buio mi trovo tre canne di M16 spianate in faccia. Intravedo i soldati israeliani: sagome scure ingigantite dall'elmetto, giubbetto antiproiettile e zaini militari, una luminescenza verdastra filtra da visori notturni all'infrarosso (chissà se si chiamano ancora così). Con il collega Andrea Semplici, sentiamo ordini perentori che non capiamo, pronunciati a voce bassa ma a distanza ravvicinata, per non fare troppo rumore. Con le mani alzate, movimenti lenti e toni pacati, cerchiamo di spiegare, in inglese, che siamo giornalisti italiani: ma la cosa non interessa gli otto giovani rambo.
Si muovono in modo professionale, nel buio della casa. Siamo sempre sotto tiro da diverse angolazioni. Per prima cosa vogliono i cellulari che per fortuna sono li, sul tavolo all'ingresso. Li aprono e tolgono la batteria. Poi uno detta le condizioni in un inglese tanto approssimativo quanto chiaro: dobbiamo rimanere seduti, non possiamo muoverci, nemmeno per prendere il passaporto. Ci proibisce di fumare, di andare in bagno, di parlare. Tutto. Rimaniamo in silenzio per ore.
Due tengono sotto tiro la notte, al di là della finestra, scrutandola attraverso un mirino telescopico. Tre controllano noi. Altri tre, ai quali si aggiungeranno anche il nostro interlocutore e uno degli sniper appostati alla finestra, vanno nelle altre stanze. Almeno due hanno uno zaino enorme sulle spalle. Sentiamo rumori, e penso che stiano frugando tra le nostre cose, computer, bagagli, macchine fotografiche, libri, documenti. Sbagliato. Non toccheranno niente. Rimarranno tutti in un'unica stanza a fare altro.
Raffiche di mitra nel buioIntanto giù in strada, da qualche parte non molto lontana, sentiamo ancora i colpi di armi da fuoco di vario calibro che ci avevano svegliato pochi minuti prima dell'irruzione. Avevamo tentato di vedere cosa succedeva dalle finestre, senza accendere la luce. Per questo eravamo al buio. Colpi di fucile singoli, raffiche regolari più o meno prolungate, colpi veloci, quasi concitati, di pistola, raffiche baritonali di mitragliatrice pesante. E' la colonna sonora di un confronto diseguale. Di sicuro non sono i poliziotti o i soldati palestinesi, che vediamo di giorno camminare per le strade con vecchi AK47 (egiziani), a impegnare gli israeliani. Gli ordini per loro sono espliciti: sparire dalla vista ogni volta che un mezzo dell'esercito occupante entra in città, cioè tutte le notti. Del resto cosa potrebbero fare per impedirlo?
Il nostro interlocutore a tratti sembra gentile, poi torna arrogante. Ripete che non siamo in pericolo, ma cambia continuamente tono, ripetendo ossessivamente le stesse domande. Scherza sul calcio, storpia parole italiane, poi sibila ordini e divieti a un palmo dalla mia faccia. Mi chiedo cosa riesca a vedere delle nostre espressioni attraverso il suo visore da alieno, anche se ora non lo usa più. Di lui ricordo più l'odore sgradevole del sudore che la faccia (non potrebbe essere diversamente, con il caldo che fa e la roba che ha addosso).
Gli scambi di colpi fuori non sono costanti. Non sembra una battaglia. Piuttosto un'intimidazione calcolata. Come in una festa di paese a chiudere i fuochi d'artificio, arrivano tre colpi forti e sordi, come di granata di mortaio.
Mi chiedo se questo commando di giovani specialisti dell'esercito israeliano, sempre in contatto con l'esterno (tramite cuffie che sembrano incorporate all'elmetto) non abbia trasmesso coordinate ad artiglieri posizionati altrove. Oppure i nostri invasori erano solo osservatori di quanto succedeva in basso e quelle esplosioni «bombe sonore», cioè enormi botti che l'esercito usa per ottenere effetti deterrenti.
Giù c'è il quartiere dei profughi
Davanti a noi c'è Al Jabal Ashamali («la montagna del Nord»), uno dei campo rifugiati palestinesi di Nablus. Per la verità è improprio chiamare «campo profughi» quello che è un quartiere della città a tutti gli effetti. Sono la povertà e lo stile disordinato e affastellato delle costruzioni che lo fanno diverso da altri quartieri di Nablus. Somiglia più all'edilizia abusiva degradata di tante periferie italiane che ai campi palestinesi di Beirut.
Come in Libano, qui vivono i discendenti dei profughi del 1948. Solo gli anziani hanno memoria diretta delle loro terre d'origine (ora in Israele), gli altri sono nati qui.
In cima alla montagna di Ebal, che sovrasta il campo, si vedono le luci della base militare israeliana. È la posizione di controllo più alta possibile intorno a Nablus. Molto più del nostro ottavo piano.
Alle quattro iniziano a sovrapporsi l'uno all'altro i richiami alla preghiera dei muezzin. Stanotte si sentono tutti i dettagli, compresi i difetti di registrazione, ma quello che stride di più è la presenza armata attorno a noi. Allah sarà pure grande ma questi qui non sembrano turbati per niente.
E' quasi l'alba quando i nostri sequestratori armati se ne vanno. E' il momento peggiore. Obbligano Andrea ad alzarsi e aprire la porta, mentre i due tiratori si appostano ai lati, uno in piedi e uno accovacciato. «Per la vostra sicurezza», dicono. Lui deve precederli lungo le scale fino a terra, mentre io devo rimanere dove sono senza muovermi, accendere la luce o tentare di ricomporre i telefoni. Sono quasi le sei del mattino. Fuori è ancora buio, anche se dietro la montagna inizia a schiarirsi il cielo.
Vedo Andrea uscire, poi tutti gli altri. Arrivo alla porta, ma mi fermo perchè un soldato mi punta il fucile addosso. Andrea si muove piano e i soldati lo lasciano indietro, ma l'ultimo si ferma e quasi lo trascina via. Incrocio le dita evitando di pensare al peggio. «Scudo umano», per una notte.
Tra poco la città riprenderà a vivere, come tutti i giorni. Un vicino ci offre il caffè e scopriamo che quello che ci sembrava un evento eccezionale qui è la normalità. «Eccezionale è che non succeda nulla», dice: «In questo palazzo è già successo la scorsa settimana». «A voi è andata meglio che a me», dice un altro testimone diretto, «mi hanno fatto uscire di casa alle nove di sera, con tutta la famiglia. Dicevano di voler controllare se nel palazzo erano nascoste armi. Ci hanno portati in una scuola per ore, e quando siamo tornati avevano minato e abbattuto la casa». Non voglio scrivere i loro nomi.
È normale, ci dicono i vicini...A cose fatte il bilancio dell'operazione è ridicolo. E' stato arrestato un palestinese che era nella «lista» dei ricercati. Di feriti non se ne sa niente e tutti ripetono: «E' normale».
Ma è difficile immaginare cosa sia normale in una città che vive sotto assedio all'interno del suo territorio. Perfino il sindaco, regolarmente eletto (di Hamas), è stato arrestato alcuni mesi fa in un operazione simile, ed è tuttora in carcere in Israele. Da Nablus non esce nessun uomo che abbia meno di trentacinque anni, nessuna automobile privata, senza un permesso speciale israeliano. Le merci passano attraverso un check point dove avvengono gli scambi commerciali autorizzati.
In tutti i nove check point che regolano il flusso di persone in entrata e in uscita dalla città c'è una confusione assurda di taxi gialli. Si arriva in taxi, si passano i controlli a piedi e si prende un altro taxi al di là della zona proibita alle macchine. Un continuo andirivieni di gente, molte donne. Soste che non si può mai prevedere quanto dureranno. Un caos surreale, dove gli unici che sembrano contenti sono i venditori ambulanti e gestori di chioschi di bibite e panini. Ci si attrezza per gestire le attese. E' l'economia dei check point.
Questa è la cronaca di notte di un giorno qualsiasi, nella seconda città della west bank (dopo Hebron), in pieno territorio di quella che la diplomazia internazionale si ostina a chiamare «Autorità Nazionale Palestinese». E pensare che siamo qui per realizzare un libro sul suo splendido centro storico, unico al mondo. Anzi: sei piccoli libri da raccogliere in un unico cofanetto. Tre città palestinesi e tre città israeliane, secondo la filosofia di un progetto sponsorizzato da una regione italiana e dall'Unione europea.
C'è tanta storia da scoprire, tradizioni, ospitalità e persone belle da incontrare sulla strada tra Acco, Haifa, Taybe, Tulkarem, Nablus e Gerico. Ma gli itinerari del turismo consapevole passano attraverso continui check point, provocazioni e incursioni notturne «cinematografiche» di commandos da film americano.
Questa terra forse sarà anche «santa», come dicono in molti, ma certamente è priva di diritti, all'infuori di quello del più forte.
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