«Boicottaggio», e la conferenza Onu fa infuriare Israele
La partecipazione di uno dei più noti giornalisti israeliani alla conferenza annuale della Federazione sionista (Zf) cancellata. Proteste delle autorità di Tel Aviv contro le Nazioni Unite e l'Unione europea, «colpevoli» di aver organizzato un incontro «di virulenta propaganda anti-israeliana». Alcune richieste di «boicottaggio» contro «l'apartheid in Israele» e un forte appello al rispetto della legalità internazionale pronunciati ieri al termine della due giorni di dibattito promossa a Bruxelles dal Comitato per l'esercizio dei diritti inalienabili del popolo palestinese (un organismo dell'Onu) hanno fatto infuriare le autorità di Tel Aviv.
Danny Rubinstein, editorialista del quotidiano Ha'aretz, non parteciperà alla riunione della Federazione sionista, «I 60 anni d'Israele», in svolgimento in questi giorni a Londra. Rubinstein a Bruxelles ha dichiarato che «Israele oggi è uno stato d'apartheid con quattro diversi gruppi palestinesi: quelli di Gaza, di Gerusalemme est, della Cisgiordania e i palestinesi d'Israele, ognuno dei quali con uno status differente». Il riferimento è alle discriminazioni - sui diritti di cittadinanza, istruzione e sanità tra gli altri - che i palestinesi, tutti soggetti all'autorità israeliana, subiscono in maniera diversa a seconda del luogo di residenza.
Andrew Balcombe, presidente della Zf, ha commentato che «criticare la politica d'Israele è accettabile. Ma utilizzando la parola apartheid in una conferenza dell'Onu ospitata dal Parlamento europeo, Rubinstein incoraggia la demonizzazione di Israele e del popolo ebraico». «È criticabile che un organismo dell'Onu e specialmente il Parlamento europeo abbiano deciso di partecipare a un simile evento», ha protestato con un comunicato la delegazione israeliana presso l'Unione europea. Per il Centro Wiesenthal «l'evento ha permesso la promozione della campagna per il boicottaggio e le sanzioni», la tattica invocata da parte della società civile - palestinese, israeliana e internazionale - per la risoluzione del conflitto.
Non è d'accordo Luisa Morgantini, vice presidente dell'Europarlamento, che al telefono da Bruxelles dichiara al manifesto che «quello sul boicottaggio rappresenta solo uno dei punti toccati del documento finale approvato dal Comitato». «Ma il risultato della discussione - continua Morgantini - è stato soprattutto un forte appello alla Comunità internazionale per il rispetto del diritto internazionale, costantemente violato da Israele».
L'eurodeputata eletta come indipendente nelle liste di Rifondazione comunista fa riferimento in particolare al Trattato di associazione tra Israele e Unione europea che prevede (all'articolo 2), in caso di mancato rispetto dei diritti umani, la possibilità sospensione dell'associazione.
A Bruxelles c'è stato chi però, come la deputata britannica Clare Short, la campagna internazionale Stop the wall, l'associazione palestinese per i rifugiati Badil, l'associazione giovani palestinesi Wael Zuaiter di Roma e altri, ha posto l'accento proprio sulla campagna di boicottaggio, disinvestimento e sanzioni (Bds), l'insieme di azioni concrete che - sull'esempio della lotta vittoriosa contro l'ex regime segregazionista sudafricano - nelle intenzioni dei loro promotori potrebbero costringere lo Stato ebraico a rispettare i diritti dei palestinesi, primo tra tutti quello a ottenere uno stato.
Le associazioni della società civile, anche quelle che, come Machsom Watch, non fanno appello al boicottaggio, puntano tutto sulle campagne per i diritti dei palestinesi, che a loro parere i partiti - quelli israeliani che non vogliono negoziare e quelli palestinesi in lotta tra loro - non s'impegnano a garantire. Il gruppo di donne israeliane che monitora i check point ha portato all'incontro di Bruxelles un video che mostra «come quello dei posti di blocco - spiega al manifesto da Gerusalemme Roni Hammermann - rappresenti ormai solo la punta di un iceberg».
«La vita dei palestinesi - continua Hammermann - è regolata da un sistema di permessi dalle autorità d'occupazione. Possono spendere fino a metà della propria vita negli uffici, alla ricerca di un permesso per garantirsi il diritto alla mobilità».
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