28 persone, 21 ore, 1 sola camera
Rete Radié Resch
Cosa fanno per 21 ore, imprigionate in una sola stanza, 28 persone tra cui numerosi bambini, alcuni molto piccoli? Come passano il tempo che si trascina? Come calmano i bambini che piangono e sono terrorizzati? Come curano la nonna dalla salute fragile? Proibito accendere la luce, proibito accendere la tivù, proibito parlare. Soldati armati all’entrata della camera. I cellulari confiscati. Provate ad immaginare la scena. E’ permesso andare alla toilette ma solo dopo aver avuto l’autorizzazione, I pannolini usati si ammucchiano in un angolo della stanza. Due donne sono state autorizzate ad andare a cucinare, ma solo dopo lunghe trattative.
Perché bisogna imprigionare così 6 famiglie innocenti? Se l’esercito israeliano ha bisogno della loro casa a più piani per le esigenze dell’operazione, perché non autorizzarli a recarsi dai vicini? E perché proprio questa casa, quando lì a fianco c’è un immobile a più piani in costruzione, vuoto? Si tratta di una specie di scudo umano costituito di bambini e neonati per i soldati? E che traumi seminano i soldati nelle anime dei bambini piccoli che hanno vissuto questa esperienza dura e incomprensibile, in un luogo dove non ci sono mai dei «traumatizzati» [come a Sdérot - NdT]?
Ho sentito la spiegazione alla radio: bisogna «tosare l’erba». E’ così che nel loro linguaggio immaginifico, le fonti militari hanno spiegato l’attività dell’esercito israeliano a Nablus. Ecco perchè l’esercito penetra nella città quasi ogni notte. Ecco perchè, quasi tutte le settimane, lancia delle operazioni di grande ampiezza, come quest’ultima, alla fine della settimana scorsa – un’operazione che non ha, questa volta, nessun nome. Due ufficiali dell’esercito israeliano sono stati gravemente feriti, due soldati feriti lievemente, un passante ucciso – e la famiglia allargata Adalay, una famiglia numerosa, è stata rinchiusa senza essere colpevole di niente.
E’ una stanza spaziosa la camera da letto di Raaf Adalay e della sua famiglia. Si scendono alcuni scalini verso un seminterrato. Un immenso letto matrimoniale, una culla, un comò, un divano, un guardaroba, uno specchio, una piccola finestra a sbarre che da sull’esterno. Per la coppia e i suoi bambini piccoli, questa camera è sufficiente ma per accogliere 28 persone per un giorno e una notte, versione familiare di una prova di selezione da parte di un’unità d’elite?
Fa caldo nella camera. Un vecchio ventilatore tenta di dare un po’ di sollievo, era così quando siamo passati domenica scorsa, dopo la fine del grande caldo. Ma giovedì il caldo era ancora più forte. La notte precedente, quella tra mercoledì e giovedì, verso le 3 del mattino, la famiglia si era svegliata per il rumore di pietre lanciate contro la porta di casa. 6 famiglie abitano i 4 piani della casa, 6 fratelli, le loro mogli, i loro figli e la nonna. I soldati che avevano lanciato le pietre hanno ordinato a tutti di uscire immediatamente. I 4 piani si sono svuotati rapidamente – l’esercito israeliano era lì – e qualche minuto dopo, tutti, uomini, donne e bambini, molti bambini, erano in strada, mezzo addormentati. Fuori, stazionavano delle jeep. «E’ rimasto qualcuno in casa? Se trovo qualcuno, gli sparo e lo ammazzo», ha detto uno dei soldati con gran delicatezza. Il gruppo di soldati è entrato in casa per ispezionarla, piano dopo piano. I 28 occupanti della casa sono stati ammassati nel seminterrato. Prima nella camera dei bambini, e un’ora dopo, per un gesto umanitario, nella camera da letto, più spaziosa. 6 soldati sono rimasti con loro, per sorvegliarli: 4 nella camera dei bambini e 2 seduti in permanenza all’entrata della stanza. «E’ solo per mezzora, un’ora», hanno assicurato i soldati all’inizio. Ma l’operazione si è prolungata.
I soldati hanno tagliato i telefoni della casa e confiscato i cellulari e le carte d’identità. Tuttavia i membri della famiglia sono riusciti a tenere di nascosto un cellulare. Era ancora notte, i soldati avevano permesso di tenere acceso solo un debole lumino rosso da notte che diffondeva un vago bagliore. 28 persone in una stanza quasi buia. Vietato muoversi nella camera. Quando un bambine ha cominciato a piangere, i soldati hanno ordinato di farlo tacere. Per andare alla toilette ci voleva il permesso che non era sempre accordato immediatamente. Il latte per i neonati bisognava andare a prenderlo di sopra, sotto scorta. C’è voluta un’ora circa, secondo i membri della famiglia, prima di ottenere il permesso per il latte. I soldati hanno anche portato 3 ventilatori dai piani superiori, ma non sono stati molto utili. I soldati, col volto dipinto di nero, facevano una paura terribile ai bambini.
La casa dà sulla via di Gerusalemme, uno degli assi principali della città, ed ha anche vista sull’ingresso del campo profughi di Balata, di fronte, a fianco della valle. Nablus agonizza. La città più rigidamente chiusa di Cisgiordania non evoca per niente i suoi bei tempi. Il sindaco è in una prigione israeliana. Malgrado ciò la città è relativamente in ordine, forse per il suo stesso letargo. Nel quartiere di Rafidiya, all’interno del ristorante «La tavola d’oro», una volta il più fiorente della città, solo due coppie di persone anziane pranzano. Che Guevara danza ancora sullo schermo della cassa, ma il ristorante è come la città: abbandonato, vuoto, decrepito.
Nel pomeriggio dei vicini inquieti del vicino villaggio di Roujib hanno telefonato dopo aver visto dei soldati sul tetto della casa degli Adalay. Temevano che gli occupanti della casa fossero rinchiusi. Uno dei membri della famiglia detenuta è riuscito a far scivolare 2 parole sul cellulare nascosto: «l’esercito è qui». Poi aveva chiuso. I vicini hanno telefonato a delle organizzazioni di difesa dei diritti umani, in particolare a «Medical Relief». Negli uffici dell’organizzazione situati nel centro della città, il direttore medico, il Dr Ghassan Hamdan, ci precisa gli avvenimenti di quel fine settimana. Spiega che questa volta l’incursione è stata particolarmente dura, perché l’esercito ha assediato i 2 principali ospedali della città, al-Watani e Rafidiya. Il Dr Hamdan dice che delle jeep dell’esercito hanno sbarrato l’accesso ai 2 ospedali. Lui stesso è stato trattenuto circa 3 quarti d’ora con un malato che era nell’ambulanza della sua organizzazione, prima di essere autorizzato a entrare in ospedale. Solo dopo aver telefonato a varie organizzazioni di diritti umani i soldati l’hanno autorizzato ad entrare in ospedale con 11 abitanti feriti nell’operazione. Ogni ambulanza che si avvicinava all’ospedale era fermata e i soldati chiedevano a tutti gli occupanti di uscire per essere controllati. I volontari del «Medical Relief» hanno ugualmente tentato di far passare provviste e medicine nella casbah sotto coprifuooco. Uno dei volontari è stato arrestato e condotto per interrogatorio a Hawara. «E’ così che si comportano con le equipe mediche», dice il Dr Hamdan, mentre un incaricato dell’associazione «Medici per i Diritti Umani», Salah Haj Yihia, registra le sue parole. Il Dr Hamdan dice ancora di aver cercato, invano, di liberare un vecchio di 83 anni la cui casa vicina alla sua era stata distrutta. Il vecchio è sopravvissuto benché non si sia riusciti a tirarlo fuori di casa.
«Gli Israeliani dicono che era un’operazione di routine», aggiunge il Dr Hamadan, «Non so se ci fossero delle manovre o se l’esercito israeliano volesse che ci ricordassimo di loro. Era proprio dopo l’incontro di Sciarm al-Sceikh. Forse avevano deciso di dirci che tuttti questi negoziati non interessavano l’esercito. Era anche l’ultimo giorno degli esami di maturità e abbiamo dovuto tirare fuori 15 studenti dal quartiere di Yasmina, nella città vecchia, perché potessero andare a fare gli esami. Loro attaccano la città tutte le notti. Personalmente non capisco la loro strategia. Non vogliono negoziare con Abu Mazen Vogliono di nuovo solo indebolirlo? Non vogliono negoziati, ne sono convinto». Il Dr Hamdan ha anche tentato di entrare dagli Adalay imprigionati. I vicini avevano richiesto assistenza medica per la nonna di 60 anni, Kawtar, che soffre di diabete ed ha bisogno d’insulina. Il Dr Hamdan è andato da loro con la sua ambulanza e i farmaci necessari. Si è rivolto ai soldati con l’alto-parlante dell’ambulanza ma nessuno ha risposto. Ha telefonato all’organizzazione della Croce Rossa perché intervenisse per farlo entrare nella casa. L’autorizzazione gli è stata data, secondo lui, solo 2 ore più tardi. Il Dr Hamdan ha provato a convincere i soldati che erano dentro la casa, a liberare Kawtar e a permetterle, viste le sue condizioni, di andare in una camera meno affollata. «Sono io che decido e non tu», gli ha detto il soldato, «Non tornare qui». Solo più tardi i soldati hanno autorizzato Kawtar e una delle sue nuore a salire in un altro appartamento della casa.
Il pomeriggio avanzava e il caldo aumentava. Rafat Adalay, sua moglie e i loro 5 figli; Ra’af Adalay, sua moglie e i loro 4 figli; Nafez Adalay, sua moglie e i loro 2 figli; Rafa Adalay, sua moglie e i loro 2 figli; Ramez Adalay, sua moglie e il loro figlio; Ala Adalay, sua moglie e il loro figlio; e Kawtar Adalay. Nella stanza assediata ci sono bombole di gas – la famiglia dirige un’impresa di fornitura di gas. Uno dei fratelli è insegnante, un altro consegna bombole di gas, il terzo è ingegnere, il quarto è autista di taxi, il quinto è operaio e il sesto lavora nell’impresa familiare. Grazie al gas, la famiglia Adalay è una famiglia conosciuta in città.
Per quanto riguarda i pasti: al mattino hanno tentato di scaldare delle pite surgelate, ma i soldati hanno portato via il fornello che si trovava nella camera. A mezzogiorno hanno detto ai soldati che avevano fame. Secondo i membri della famiglia, la trattativa è durata un’ora. I soldati alla fine hanno autorizzato 2 donne, Amira e Muntaha, a recarsi in cucina. Sotto scorta, naturalmente. Le 2 donne hanno cucinato, sotto lo sguardo dei soldati che, dalla porta, vigilavano che non bruciassero la casseruola. Cos’hanno preparato? Quel che c’era nel frigorifero. Hanno fatto friggere degli ortaggi e preparato da mangiare per tutti. Gli adulti dicono di non aver mangiato niente. Nel pomeriggio hanno chiesto di poter traslocare in un ambiente più spazioso della casa, perché l’affollamento diventava sempre più intollerabile, ma i soldati non hanno accettato. «Andrà tutto bene», gli ha detto uno dei soldati dall’accento russo.
Il televisore, nel corridoio che va alla camera da letto, è rimasto spento. Proibito accenderlo. Perché poi? I soldati hanno riunito le bottiglie d’acqua di tutti i frigoriferi di tutti gli appartamenti per portarle nella camera assediata. Un soldato ha ordinato loro di non bere troppo, per non dover «andare troppo spesso alla toilette». Una delle madri è andata a cercare dei pannolini nel suo appartamento. I pannolini usati e maleodoranti s’accumulavano in un angolo della camera. Un bambino aveva la diarrea. Islam, un bambino di 9 anno con un berretto da baseball portato alla rovescia, ripensa alla sua confusione e, facendo ruotare il berretto tra le dita,: «Ho avuto molta paura dei soldati... Sono uscito una volta con papà per andare alla toilette, una volta con mio zio e una volta mi hanno permesso di andare solo». Sua cugina, la figlia di Rafat, da allora dorme con i genitori, in camera con loro. Ha paura.
Il portavoce dell’esercito israeliano ha spiegato questa settimana, in risposta alle nostre domande, che «nel quadro della sua operazione mirante a combattere il terrorismo e a proteggere i citadini israeliani, l’esercito ha seguito vie diverse, in particolare occupando degli edifici per necessità operative. L’esercito israeliano bada a preservare i beni degli abitanti e a limitare i danni alle loro vite».
Alle 11 di sera, nella notte tra giovedì e venerdì, quasi un’intera giornata dopo che i soldati hanno invaso la casa, il rumore di un veicolo è arrivato improvvisamente dalla strada. I soldati avevano deposto le carte d’identità, in mucchio, a fianco della porta della camera e i cellulari, che avevano confiscato, in uno degli appartamenti, e avevano lasciato la casa in fretta. «Nemmeno arrivederci hanno detto», si lamentano gli Adalay.
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