Palestina

Appello: Coordinamento Italiano dei Giuristi Democratici

Coordinamento Italiano dei Giuristi Democratici

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Al Rappresentante Permanente

dello Stato di presso

l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite

Roma, il ____ ottobre 2002

Signor Rappresentante Permanente,

Il Coordinamento italiano dei Giuristi democratici è gravemente preoccupato per la situazione di grave degenerazione che ha assunto il conflitto israelo-palestinese dopo il fallimento del processo negoziale iniziato con gli accordi di Oslo. Il conflitto, riacutizzato dal fallimento delle speranze di pace, ha precipitato i due popoli in una spirale di punizioni, vendette e rappresaglie che si alimentano a vicenda in un crescendo infinito.

In questa situazione, l’offensiva militare su vasta scala lanciata da Israele, a partire dal 29 marzo 2002, con l’operazione “muro di difesa” ha creato un vero e proprio disastro umanitario, facendo superare al conflitto una nuova soglia in termini di violazione su vasta scala dei diritti dell’uomo. Tale operazione, lungi dal facilitare una soluzione politica, l’ha resa ancora più difficile perché sono proprio le gravi e ripetute violazioni dei diritti dell’uomo, che in questo momento affliggono in modo massiccio ed indiscriminato soprattutto la popolazione palestinese, ad alimentare il conflitto e a renderlo irrisolvibile, incrementando l’odio fra le parti e l’incomprensione fra i due popoli.

Preoccupata per la gravità di questi eventi la nostra Associazione ha inviato una delegazione di due membri[1] in Israele e nei Territori Occupati, dal 2 al 7 maggio 2002. La delegazione ha avuto modo di rendersi conto in modo immediato e diretto i gravi effetti negativi dell’iniziativa militare israeliana, che è stata accompagnata dal chiaro tentativo di distruggere le infrastrutture civili, da ogni sorta di abusi e in alcuni casi da veri e propri crimini di guerra e contro l'umanità, come documentato dai recenti rapporti di Amnesty Internazionale e di Human Rights Watch. Particolarmente preoccupante è apparsa la situazione determinatasi a Jenin.

La gravità di tale situazione è stata immediatamente percepita dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite che, con la Risoluzione n. 1405 adottata il 19 aprile 2002 aveva incaricato il Segretario Generale delle Nazioni Unite di stabilire una Commissione per l’accertamento dei fatti.

Com’è noto tale Commissione non è stata mai attivata a cagione dell’ingiustificato rifiuto del Governo israeliano a cooperare con la Commissione medesima. Inspiegabilmente il Consiglio di Sicurezza ha omesso di adottare delle sanzioni per rendere attuabile la Risoluzione 1405. L’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, invece, riunita nella sua decima sessione speciale di emergenza il 7 maggio 2002, con la Risoluzione ES – 10/10, ha condannato il rifiuto di Israele di cooperare con la Commissione di accertamento dei fatti ed ha chiesto al Segretario Generale di redigere un rapporto da sottoporre all’Assemblea relativo alle atrocità ed ai crimini di guerra commessi dalle forze armate israeliane. Tale rapporto è stato consegnato dal Segretario Generale in data 30 luglio 2002.

Malgrado la mancata implementazione della Commissione di accertamento dei fatti dell’ONU, alcuni avvenimenti accaduti a Jenin sono stati documentati, in modo incontestabile dalla stampa internazionale e dagli osservatori inviati da numerose organizzazioni non governative attive nel campo della protezione dei diritti umani, tanto da potersi considerare pacificamente accertati.

In particolare dalle fotografie e riprese televisive diffuse sui network internazionali e dal rapporto redatto dalla ONG americana Human Rights Watch[2], emerge che almeno 140 edifici, nella maggior parte dei quali dimoravano più famiglie, sono stati completamente distrutti e rasi al suolo dai buldozer israeliani, in aggiunta oltre 200 edifici sono stati seriamente danneggiati. Tale accertamento è stato confermato anche dal rapporto del Segretario Generale della Nazioni Unite, che ha stimato in 150 il numero degli edifici abbattuti.

Le distruzioni si sono concentrate soprattutto nel distretto di Hawashin dove più di 100 abitazioni sono state rase al suolo, come si evince chiaramente dalla mappa[3] radatta da Human Rights Watch che alleghiamo alla presente lettera.

Come risulta evidente dall’esame dello stato dei luoghi, le demolizioni di abitazioni private non si sono limitate all’allargamento delle strade o all’abbattimento degli ostacoli per consentire l’accesso e l’operatività dei carri armati e degli altri mezzi corazzati durante lo svolgimento delle operazioni militari, ma hanno comportato la completa demolizione di una intera area urbana.

Si tratta della stessa area dove il 9 aprile, nel corso di una imboscata, 13 soldati israeliani hanno perso la vita. La distruzione è stata effettuata dopo che le operazioni militari erano quasi completamente cessate ed ha lasciato senza tetto circa 4000 persone.

Tali fatti sono assolutamente pacifici, tanto che il rapporto di Human Rights Watch ipotizza che il compito della Commissione di accertamento dei fatti delle Nazioni Unite sarebbe stato solo quello di stabilire se una distruzione così vasta e così eccedente le necessità delle operazioni militari, costituisca una distruzione arbitraria o un crimine di guerra.

Dal punto di vista del diritto internazionale, non v’è dubbio che i fatti come sopra descritti costituiscono una palese violazione delle obbligazioni che vincolano Israele, quale Potenza occupante, in particolare costituiscono una grave infrazione delle norme della IV Convenzione di Ginevra del 18 agosto 1949.

Infatti, dal momento che Israele ha occupato la Cisgiordania e Gaza fin dal giugno del 1967, le persone che vivono in questi territori devono essere considerate “persone protette” ai sensi della suddetta Convenzione.

Sebbene il Governo di Israele, accampando pretesti vari rifiuti di considerarsi formalmente vincolato al rispetto della IV Convenzione di Ginevra, non v’è dubbio che tale Convenzione si applichi anche ai Territori Occupati, come ribadito più volte dal Consiglio di Sicurezza (con le Risoluzioni n. 465, 468, 469, 607) e, da ultimo, dall’Assemblea Generale con la Risoluzione n. 55/131 del 8 dicembre 2000.

A questo riguardo occorre prendere in considerazione le norme di cui all’art. 33, all’art. 53 e all’art. 147 della IV Convenzione

L’art. 33 recita:

“Nessuna persona protetta può essere punita per una infrazione che non ha commesso personalmente. Le pene collettive, come pure qualsiasi misura di intimidazione o di terrorismo sono vietate. E’ proibito il saccheggio. Sono proibite le misure di rappresaglia nei confronti delle persone protette e dei loro beni.”

L’art. 53 recita:

“E’ vietato alla Potenza occupante di distruggere beni mobili o immobili appartenenti individualmente o collettivamente a persone private, allo Stato o a Enti pubblici, a organizzazioni sociali o cooperative, salvo nel caso in cui tali distruzioni fossero rese assolutamente necessarie dalle operazioni militari.”

L’art. 147 recita:

“Le infrazioni gravi indicate nell’articolo precedente sono quelle che implicano l’uno o l’altro dei seguenti atti, se commessi contro persone o beni protetti dalla Convenzione: l’omicidio intenzionale, la tortura, i trattamenti inumani (..) la distruzione e l’appropriazione di beni non giustificate da necessità militari e compiute in grande proporzione ricorrendo a mezzi illeciti ed arbitrari.”

La Convenzione, pertanto, proibisce ogni forma di distruzione di beni e proprietà appartenenti alla persone protette, salvo il caso che ciò sia assolutamente necessario per il compimento delle operazioni militari in corso.

L’esigenza di effettuare una operazione militare non può perciò giustificare distruzioni arbitrarie o sproporzionate rispetto al vantaggio militare, tantomeno può giustificare il ricorso a forme di rappresaglia o di punizione collettiva nei confronti delle persone protette, come avviene nel caso in cui si rade al suolo un intero quartiere per rappresaglia contro atti di resistenza armati.

Quando le distruzioni di beni e proprietà non costituiscono un fatto isolato, ma vengono praticate in grande proporzione e non sono giustificate da esigenze militari, esse costituiscono una grave infrazione della IV Convenzione, come specificato dall’art. 147.

Essendo, pertanto, pacifici i fatti relativi alle massicce distruzioni di beni compiute dall’esercito israeliano in Jenin ed essendo evidente che tali fatti integrano una grave violazione della IV Convenzione di Ginevra, sorge il problema di considerare quali rimedi appresta il diritto internazionale per riparare a violazioni di tale genere.

Fermo restando l’obbligo di tutti gli Stati parti della Convenzione di assicurare alla giustizia gli individui responsabili di tali violazioni, rimane il problema di eliminare le conseguenze dannose di tali fatti per la popolazione protetta.

Non v’è dubbio che tutti gli Stati parti della IV Convenzione (compreso Israele) hanno l’obbligo di porre fine e di reprimere il più rapidamente possibile la violazioni accertate della medesima Convenzione, adottando le misure del caso, ivi compreso il ricorso alle sanzioni nei confronti della Potenza occupante che rifiuta di adempiere alle proprie obbligazioni. Nell’ambito di queste obbligazioni rientra – in base ai principi generali del diritto – il dovere del risarcimento dei danni nei confronti dei singoli e delle comunità vittime dei comportamenti illegittimi dei belligeranti

Nel caso di Israele e dei Territori Occupati non è possibile instaurare il meccanismo di inchiesta, volto all’accertamento ed alla repressione delle gravi violazioni, delineato dall’art. 149 della IV Convenzione, mentre il meccanismo sostituitivo, delineato dalla Risoluzione 1405 del Consiglio di Sicurezza, è rimasto inoperante per l’ingiustificato rifiuto di cooperare opposto dal Governo di Israele.

E’ interesse, tuttavia, della Comunità internazionale ottenere da tutte le parti coinvolte nel conflitto israeliano-palestinese il rispetto rigoroso delle norme del diritto bellico umanitario, anche sotto il profilo della riparazione dei torti che sono stati commessi dai belligeranti.

Se è evidente, infatti, che la soluzione del conflitto non può che essere politica, è anche evidente che la pace non può essere ottenuta senza giustizia o addirittura al prezzo della giustizia. E la giustizia non postula vendette ma richiede che i torti vengano riparati.

Stante la situazione di stallo e di incertezza giuridica che si è creata a seguito del rifiuto di Israele di cooperare con l’ONU per l’accertamento dei fatti, appare utile ed opportuno interpellare la massima istanza di giustizia del sistema delle Nazioni Unite, la Corte Internazionale di Giustizia, per ottenere una pronunzia che chiarisca quali sono le obbligazioni gravanti sulle parti.

Pertanto noi Le rivolgiamo un pressante appello perchè, nella sua qualità di Rappresentante di uno Stato Membro dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, suggerisca all’Assemblea Generale di richiedere alla Corte Internazionale di Giustizia, ai sensi dell’art. 96 della Carta, un parere consultivo, introducendo un quesito che potrebbe essere formulato in questo modo:

1. Le distruzioni su vasta scala di case e proprietà pubbliche e private effettuate nel campo profughi di Jenin, ed in particolare nel distretto di Hawashin, dall’esercito israeliano durante le operazioni militari compiute dal 3 al 15 aprile 2002 costituiscono delle gravi infrazioni alla IV Convenzione di Ginevra del 1949 e/o delle altre norme che regolano i conflitti armati?

2. Alla luce delle obbligazioni derivanti dal diritto internazionale dei conflitti armati, ed in particolare dalla IV Convenzione di Ginevra del 1949, lo Stato di Israele è obbligato a risarcire i danni provocati dalle distruzioni di cui sopra?

Confidando che il Suo Governo condividerà con noi la preoccupazione di moderare il conflitto ristabilendo il rispetto dei diritti dell’uomo, e che vorrà interpellare la Corte Internazionale di Giustizia richiedendo un parere consultivo sulle questione che Le abbiamo proposto, La preghiamo di accettare, Signor Rappresentante Permanente, l’espressione dei nostri sentimenti più devoti.

il Coordinamento

La Coordinatrice nazionale

Desi Bruno

(avvocata - Bologna)

Domenico Gallo Fabio Marcello

(Magistrato – Roma) (CNR - Roma)

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