I CORPI CIVILI DI PACE
Di Alberto L’Abate
Il secolo ventesimo è stato uno dei secoli della storia del nostro mondo più tormentati dal fenomeno guerra. Infatti i morti a causa delle guerre sono stati più numerosi di tutti quelli dei secoli precedenti messi insieme. Non può meravigliare perciò che in questo secolo si sia cominciato, più seriamente che nel passato, a pensare su come “eliminare la guerra dalla storia”, ed a cercare i metodi per prevenire e risolvere pacificamente i conflitti armati. Ma questo non significa che anche in passato non ci siano stati pensatori, e movimenti sociali, che abbiano fatto riflessioni importanti, o che abbiano agito, per dar vita ad un mondo più giusto, meno funestato da questo problema. Oltre ai fondatori di molte religioni, che hanno sottolineato la sacralità della vita umana, e l’obbligo morale di non uccidere il nostro prossimo, nel mondo Occidentale, ad esempio, ci sono stati pensatori come Erasmo da Rotterdam che nel suo “Elogio della Follia” mostra la stupidità e l’assurdità del ricorso alla guerra ed alla violenza; o come Kropotkin che, nel suo “Il mutuo appoggio”, attraverso una lettura attenta e precisa dei testi di Darwin, contesta l’interpretazione corrente del darwinismo sociale che la sopravvivenza degli esseri umani sia legata all’uso della forza e della violenza, sostenendo invece che gli esseri umani ed animali che sopravvivono sono quelli che hanno una maggiore capacità di collaborare con gli altri; o come Kant, che, nella sua “Per la pace perpetua” cerca di immaginare ed anticipare un mondo senza guerra, basato sul rispetto reciproco degli esseri viventi. E vari gruppi sociali, come i Dukobori in Russia, i Quaccheri in Inghilterra e negli USA, hanno seguito l’esempio dei primi cristiani che si rifiutavano di prendere le armi e di combattere, uccidendo il loro prossimo, ed hanno dato inizio ad un movimento, che presto si estenderà a livello mondiale, degli Obiettori di Coscienza all’uso delle armi ed alla coscrizione militare obbligatoria, ed hanno sviluppato idee e pratiche di nonviolenza.
Ma è sicuramente in questo secolo che questo modo di pensare e di agire si è trasformato in azione politica, portata avanti anche da popolazioni intere (in India, negli USA, nelle Filippine, nei paesi dell’EST, ecc.) con risultati spesso notevolissimi, di liberazione dal colonialismo, o di superamento di leggi che sancivano forme di discriminazione razziale e di apartheid, oppure di abbattimento di dittature militari e di apertura invece a forme democratiche, ecc..
E’ in questo clima, di ricerca di alternative credibili alla guerra ed alla violenza armata, che sta prendendo piede, a livello politico, l’idea di organizzare quello che Gandhi aveva definito un “Esercito di Pace”. E cioè nuclei di persone ben preparate all’intervento nonviolento (prima, durante e dopo un conflitto armato) che lavorino per la prevenzione ed il superamento dei conflitti armati. Il primo esercito di pace, lo Shanti Sena, su ispirazione di Gandhi, fu organizzato dai suoi seguaci più importanti (Vinoba, J.P. Narajan), ed ha lavorato in molte zone dell’India per prevenire, ridurre e superare i conflitti interetnici ed interreligiosi.
L’idea è stata ripresa da molte ONGs che lavorano per l’obiezione di coscienza e per la pace che hanno dato vita, in Libano, nel 1960, alla World Peace Brigade, che ha operato in vari paesi del mondo. Uno degli interventi più importanti è stato quello nell’isola di Cipro, nella quale si confrontavano e si combattevano reciprocamente, per il possesso di parti importanti dell’isola stessa, Turchi e Greci. La presenza della W.P.B. è servita a ridurre gli odi reciproci tra i due gruppi, ed a mettere insieme persone delle due parti in conflitto per ricostruire case di ambedue i gruppi distrutte durante il conflitto aperto. Il lavoro fatto da questa organizzazione è stato tanto importante che il comandante dei Caschi Blu delle Nazioni Unite (erano presenti nella zona per pacificare l’area) si rese conto che l’intervento non armato e nonviolento della WPG era più valido di quello dei Corpi da lui guidati, perché il fatto di non essere armati li rendeva più vicini alle due popolazioni e permetteva loro di mediare e di superare più facilmente i loro conflitti. Il comandante si chiamava Harbottle ed era l’autore del primo manuale delle Nazioni Unite per il “Peace Keeping”. Dal confronto tra i due tipi di interventi, quello armato e quello nonviolento, si convinse che quest’ultimo era più efficace (come ha raccontato lui stesso in un convegno delle Peace Brigades International – PBI - in Inghilterra) di quello armato, e questa convinzione lo porterà a diventare un importante consulente delle P.B.I, che prenderanno il posto della W.P.B., ed a dar anche vita, in Inghilterra, ad un noto Centro Studi per la Risoluzione Nonviolenta dei Conflitti.
Le P.B.I., nate nel 1981, hanno operato ed operano tuttora in vari paesi del mondo, ma soprattutto nell’America Latina, e si sono caratterizzate per l’uso, giorno e notte, dell’accompa-gnamento nonviolento di persone che operano, nel loro paese, per il rispetto dei diritti umani e per la trasformazione nonviolenta della loro società, che sono sotto la continua minaccia degli squadroni della morte. Il lavoro dei volontari delle P.B.I. in questi paesi è collegato ed appoggiato dai gruppi di supporto, in molti paesi del mondo che, al momento che queste minacce vengono espresse e rischiano di trasformarsi in omicidi, mandano fax o telegrammi al Capo del Governo o al Ministro della Difesa di quel paese perché si diano da fare per evitare che quel particolare crimine venga commesso. O fanno comunicati stampa, manifestazioni in loco, ed appelli al proprio governo perché prema verso l’altro per il rispetto della vita e dei diritti umani delle persone minacciate. Per paura che l’effettuazione di quel crimine, ormai sotto gli occhi della comunità internazionale, incrini l’im-magine del loro governo ed allontani eventuali appoggi economici e politici da parte di altri paesi, le autorità di quel paese si sono date effettivamente da fare per bloccare l’iniziativa degli squadroni della morte. Perciò questo tipo di azione ha evitato che vari crimini venissero commessi, e vari attivisti nonviolenti di questi paesi si sono salvati (per esempio anche il premio Nobel per la Pace Rigoberta Menchu) grazie alle attività di questa organizzazione.
Un momento rilevante per la presa di coscienza dell’importanza di un lavoro per la prevenzione dei conflitti armati fatto da ONG è stata la guerra del Golfo, nel 1990/91. I “Volontari di Pace in Medio Oriente”, formati da membri di varie ONG italiane, intervennero infatti prima della guerra e riuscirono ad aprire a Baghdad, nell’“Isola delle Spose”, un “Campo per la Pace” Questa isola era abbastanza vicina al centro della città, ed in prossimità di molte Ambasciate, tra cui quella italiana. Vi era stato costruito un villaggio turistico (con casette prefabbricate bene attrezzate, e strutture di servizio, - ristorante, sale di riunione, ecc.) in occasione di un congresso mondiale per la pace che avrebbe dovuto tenersi a Baghdad per risolvere la crisi iraniana. Ma il congresso non si tenne e scoppiò invece la guerra, ma le posate ed i piatti e tutte le attrezzature riportavano ancora i segni ed i simboli dell’idea originale. Non essendo stata utilizzata per lo scopo per cui era nato il villaggio divenne il luogo tradizionale in cui venivano ospitate le coppie di aree esterne alla città che venivano in viaggio di nozze nella capitale, da lì il soprannome datogli.
Dal momento dell’apertura del “Campo per la Pace” questo divenne il luogo in cui venivano ospitate le delegazioni di tutte le parti del mondo che venivano per cercare di evitare la guerra e trovare forme di mediazione al conflitto che si preannunciava. Questo ha permesso a tutte queste organizzazioni di conoscersi, di rendersi conto che avevano quasi tutte gli stessi scopi e spesso anche la stesse radici nonviolente, e cominciare a lavorare insieme tanto da poter dar vita ad un secondo “Campo per la pace” ai confini tra l’Iraq e l’Arabia Saudita, proprio nell’area in cui più tardi avverrà lo sfondamento in Iraq delle truppe alleate. L’iniziativa dell’apertura di questo secondo campo era stata del “Gulf Peace Team”, una organizzazione di cui facevano parte anche le PBI ed altre associazioni che erano presenti anche tra i Volontari di Pace italiani. Questi infatti parte-ciperanno anche all’esperienza del secondo campo. Durante la cerimonia della fine dell’anno, davanti alle Telecamere di moltissimi paesi del mondo (ma non di quelle italiane che sembra avessero avuto ordine di non occuparsi dei “pacifisti”) fu firmata dai presenti e presentata anche alla stampa la piattaforma di mediazione elaborata dai Volontari di Pace, che aveva trovato un notevole interesse anche da parte irachena. Questa prevedeva il ritiro unilaterale delle truppe irachene dal Kuwait, per essere però sostituite, come aveva proposto anche il Governo Svedese, da “Caschi Blu” delle Nazioni Unite formati però da truppe di paesi neutrali, non ancora presenti nell’area, come appunto la Svezia, la Norvegia ed altri, e da un corpo di pace non armato, denominato di “Caschi Bianchi”, formato da membri delle moltissime ONG presenti nell’area, che facevano parte dell’ECOSOC, organismo di consulenza delle Nazioni Unite stesse. Questi Corpi avrebbero dovuto restare in Kuwait per aiutare la popolazione di quel paese ad organizzarsi democraticamente per decidere sul proprio destino. E fino all’organizzazione, se possibile nello stesso Kuwait, di una conferenza delle Nazioni Unite che avrebbe dovuto cercare delle valide soluzioni per tutto il Medio oriente. La proposta è stata inviata anche alle Nazioni Unite, sia al Segretario Generale che al suo collaboratore Picco. Ma il Consiglio di Sicurezza ristretto dell’ONU (formato da USA, Inghilterra, Francia, Russia, Cina, paesi che in un documento dell’Unicef risultano aver venduto negli anni precedenti l’85,6 % di tutte le grandi armi del mondo) impedirà al Segretario Generale di svolgere un vero e proprio ruolo di mediazione, come sarebbe stato suo compito (sia Boutrous Gali che Picco si lamenteranno di questo in varie interviste successive, e questa è la ragione principale che ha impedito a Gali di essere rinominato), e li ha mandati a Baghdad solo per ripetere la risoluzione del Consiglio di Sicurezza che richiedeva solo il ritiro delle truppe irachene senza dare alcuna indi-cazione per soluzioni in positivo. Da lì il rifiuto degli iracheni e la guerra successiva.
Ma questo lavoro ha fatto prendere coscienza alle tante ONG intervenute sul fatto che: 1) la guerra avrebbe potuto essere evitata se si fosse lavorato in modo più coordinato anche prima dello sviluppo del conflitto; 2) che era perciò importante dar vita a coordinamenti nazionali ed internazionali per la costituzione di un vero e proprio “esercito di pace” delle Nazioni Unite, che potesse intervenire, con la nonviolenza, prima, durante, e dopo il conflitto armato. E questo è stato uno stimolo notevole per le iniziative successive delle ONG.
Infatti molte organizzazioni non governative, in vari paesi del mondo, hanno in seguito cominciato a lavorare in questo campo, organizzando, ad esempio, marce nonviolente nelle zone di conflitto che sono riuscite ad interrompere i combattimenti almeno per i giorni della marcia (Sarajevo 1992), oppure attivando, in zone calde del mondo (Kossovo, Israele-Palestina, ecc.) Ambasciate di Pace per portare avanti forme di diplomazia popolare, studiare a fondo il problema, e vedere le possibilità di trovare forme di mediazione e di prevenzione dell’esplodere del conflitto armato..
Nel 1999, all’Aia in Olanda, ad un grande congresso per la pace nel mondo (oltre 9000 partecipanti), è stato elaborato un documento per la costituzione di una “Forza Nonviolenta di Pace” (Nonviolent Peace Force) cui hanno aderito 7 premi Nobel per la Pace, ed oltre 200 Organizzazioni Non Governative di tutto il mondo, molte delle quali avevano già esperienza di questo tipo di attività, come appunto le PBI. Nel novembre 2002 si sono ritrovate a Delhi, per la costituzione ufficiale di queste Forze e per scegliere il primo intervento comune che è stato deciso di realizzare, nei prossimi mesi, nello Sri Lanka. Ed in molti paesi del mondo le ONG che intervengono nonviolentemente in situazioni di conflitto armato, per cercare di evitarlo, portando avanti iniziative di diplomazia popolare, e lavorando al livello della mediazione dei conflitti, sono notevolmente aumentate e stanno cercando di dare vita a dei coordinamenti per rendere più efficace la propria azione, e superare i limiti di improvvisazione e di scarsa preparazione che qualche volta ha il personale di queste organizzazioni che intervengono. La creazione di questi coordinamenti è avvenuto e/o sta avvenendo in Germania, in Francia, in Italia, in Inghilterra, ecc.
Ma mentre sono in grosso fervore queste iniziative di Organizzazioni Non Governative, Organismi Governativi, come le N.U., si stanno muovendo, anche su sollecitazione di queste stesse ONG che, con il loro lavoro, non intendono sostituire i Governi e le O.I.G, ma stimolarli ad una maggiore comprensione dell’importanza della prevenzione dei conflitti armati, e dell’uso della nonviolenza per evitarli e risolverli pacificamente. Così nell’Agenda per la Pace dell’ex Segretario delle Nazioni Unite, Boutrous Gali, si parla dell’importanza di attrezzare le Nazioni Unite per dar vita ad interventi civili di questo tipo. Ed anche il suo successore, Kofi Annan, ha scritto ripetutamente sulla necessità di prevenire le guerre, anche grazie ad organismi civili di questo tipo, ed ha chiesto alla società civile dei vari paesi del mondo di organizzarsi e premere dal basso verso i loro stati, che compongono le Nazioni Unite, perché superino l’attuale concezione che le guerre si risolvono con le armi e con le forze armate, e diano più importanza al lavoro civile ed alla prevenzione degli stessi conflitti. Ed il Parlamento Europeo, già nel 1995, ha approvato una mozione, poi ripetuta ed approfondita in varie occasioni, perché si creasse, a livello della Comunità Europea, un “Corpo Civile di Pace”, di persone ben preparate all’azione nonviolenta, prima, durante e dopo l’esplodere dei conflitti armati, per evitarli e superarli pacificamente. E l’OSCE (Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione Europea), nel suo congresso di Istambul, nel 1999, ha deciso di dar vita a gruppi di intervento rapido (REACT- Rapid Expert Assistance and Cooperation Team) formati da esperti civili di risoluzione nonviolenta dei conflitti che vadano nelle zone calde per prevenire l’esplosione del conflitto, per gestire pacificamente la crisi, o per mettere in atto attività per la riabilitazione dopo il conflitto.
Ed alcuni paesi, tra cui l’Italia, hanno approvato leggi che legalizzano i cosiddetti “Caschi Bianchi” (per distinguerli dai “Caschi Blu” armati) riconoscendoli come sostitutivi di un eventuale servizio militare obbligatorio, e permettono, anche con l’aiuto dello stato, alle persone che ne fanno parte di fare interventi nonviolenti in aree di conflitto anche all’estero.
Purtroppo queste iniziative istituzionali, sia a livello internazionale che nazionale, trovano ostacoli in quella violenza culturale che fa si, a livello dei governi, e della gran parte della gente, che si creda che la “guerra”, e l’uso delle armi, sia il modo naturale di risolvere i conflitti, e che la loro soluzione con mezzi pacifici e nonviolenti sia una utopia. Questa credenza è rinforzata, e stimolata, dai grandi guadagni che le nazioni più potenti e più ricche del mondo traggono dalla costruzione e dalla vendita di armi nel mondo.
Per questo, affinché i Corpi Civili di Pace, o le N.P.F., possano svilupparsi nella loro pienezza e mostrare la propria validità andando oltre gli interventi, spesso solo simbolici, fatti finora, è necessaria una forte rivoluzione culturale e sociale, che si sviluppi a livello mondiale, e che faccia capire, non solo ai governanti ma anche alla gente comune, la stupidità e l’assurdità del ricorso alla guerra ed alla violenza armata, come sosteneva Erasmo da Rotterdam, e dia uno spazio reale alla prevenzione, alla mediazione, ed alla risoluzione nonviolenta dei conflitti, e sviluppi la cultura della trasformazione dei conflitti, a tutti i livelli, da quello micro a quello macro, in occasioni di confronto e di dialogo, e non di scontro o di violenza armata.
Bibliografia
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