Palestina

Intervista a Kassem Aina, fondatore della prima associazione creata dai rifugiati palestinesi in Libano

L'umanità del sottosuolo

Kassem Aina è il fondatore di Beit Aftal Assumoud, la prima associazione creata dai rifugiati palestinesi in Libano, nel 1982, per una sorta di adozione collettiva degli orfani di Sabra e Chatila, dove nel 1982 le milizie maronite uccisero 3500 palestinesi con la complicità dell'esercito israeliano. Oggi l'associazione è attiva in tutti i campi profughi palestinesi in Libano e rappresenta la più ampia rete di assistenza sociale e sanitaria e di sostegno agli studi
5 agosto 2009

manifestazione di rifugiati

Cappuccino e cornetto sono dieci dollari, la mattina, seduti alla Beirut di Hariri. A cinque minuti da qui, dritto in fondo e alla moschea a destra, è quanto un palestinese riceve ogni tre mesi dalle Nazioni Unite.
L'11 percento della popolazione libanese, 450mila rifugiati diluiti in 12 campi, in media 40 metri quadri per 10 persone e per metà niente acqua, né elettricità né fognature. Il 60 percento è sotto la soglia di povertà, il 20 percento all'ergastolo di una malattia cronica. Chiedi come immaginano la Palestina, siamo alla terza generazione, ormai, e per molti non è che una fotografia - eppure la risposta è sempre la stessa, una sola parola: un sussurro pastello: bellissima.
Kassem Aina è nato ad Alma nel 1946. Esiste ancora, mi dice - posso andare a sud, e guardarla dal confine. Ma anche la fotografia che mi spolvera leggero è in realtà sempre la stessa, perché "a volte città diverse si succedono sopra lo stesso suolo sotto lo stesso nome, nascono e muoiono senza essersi conosciute, incomunicabili tra loro" - perché ogni Palestina invisibile, qui, non è che la Maurilia di Italo Calvino, in cui "le vecchie cartoline non rappresentano la città com'era, ma un'altra città che per caso si chiamava Maurilia come questa".
Perché Alma, è vero, esiste ancora. E ancora con lo stesso nome. Ma è un kibbutz.

"Il ragionamento è semplice e infondato. Se qui avessero casa e lavoro, si dice, perderebbero ogni interesse a tornare in Palestina, e a mantenere accesa l'opposizione a Israele. Così, con il pretesto della solidarietà araba, il Libano ha adottato una politica di negazione dei nostri diritti fondamentali. Ma tutti i palestinesi della diaspora, ovunque, anche quelli che hanno conquistato una vita normale, sognano il ritorno. Le due questioni non sono minimamente connesse. L'obiettivo è non dimenticare la nakbah: ma il risultato intanto è solo continuarla".

"Non è neppure la violazione, ma direttamente l'eliminazione dei diritti basilari sanciti dalla Dichiarazione Universale. A cominciare dall'articolo 23, il lavoro, che consente autonomia e dignità ed è dunque preliminare a tutti gli altri diritti. In Libano la regola generale, per gli stranieri, è la reciprocità: una volta ottenuto un permesso di lavoro, il trattamento è analogo a quello che il proprio paese riserva ai libanesi. Ma la reciprocità è un non-senso per noi che non abbiamo uno stato. Settantuno professioni sono semplicemente vietate: dal gioielliere al meccanico al commesso... e ovviamente tutte le pubbliche amministrazioni. Ad altre, l'avvocato il medico, l'ingegnere, si accede solo mediante ordini professionali: e per gli ordini professionali vige la reciprocità. Per il resto, e cioè essenzialmente braccianti e operai, abbiamo bisogno di un permesso di lavoro come tutti gli altri - anche se non siamo affatto immigrati. Ma viene accolto lo 0,3 percento delle richieste, 223 su 70mila nell'ultimo anno - per capire: per gli egiziani la percentuale è l'87 percento. Per cui non rimane che il lavoro nero, oppure dentro i campi, nel commercio al dettaglio o in quell'artigianato minimo a cui forma l'Unrwa. Riparazione di scarpe cucito, falegnameria. I campi ormai sono il nostro acquario. Perché la Dichiarazione Universale, all'articolo 17, parla anche di diritto alla proprietà: ma adesso la reciprocità si applica anche qui. E quanto è già di nostra proprietà, non può più essere trasmesso in eredità. Il risultato è il sovraffollamento, e il deterioramento di situazioni già drammatiche. Pensi anche l'articolo 26, il diritto all'istruzione. L'Unrwa offre l'istruzione primaria. Ma per il resto licei e università libanesi ammettono solo quote limitate di stranieri, al triplo delle tasse. E comunque - perché mai laurearsi in medicina, se non è possibile diventare medici? Un terzo dei palestinesi non completa neppure le elementari".

"Il rispetto dei diritti umani non può essere subordinato a considerazioni politiche. La povertà genera solo tensioni, non aggiunge niente alla nostra determinazione a tornare. Anche perché molti campi, in realtà, non sono più palestinesi. Chiunque può trasferirsi qui. Ed è una scelta sempre più frequente per i disoccupati, gli immigrati. I disperati di altre guerre, come gli iracheni - l'umanità del sottosuolo. Ma per i libanesi tutto questo non esiste. Ed è qui che la condizione palestinese si fa metafora del nostro tempo. Questa non è più semplicemente la periferia di Beirut, ma una delle infinite discariche della globalizzazione. Le statistiche, per noi, sono sempre solo stime, perché la vaghezza è il margine per la strumentalizzazione, per il governo attraverso la costruzione dell'incertezza e della paura: nessuno sa con precisione quanti siamo, e dove, a fare cosa, e con quali intenzioni. Siamo l'ombra in agguato all'angolo della vostra vita. Non è solo questione di arabi e israeliani. Sono palestinesi i migranti che abitano i fondali del suo Mediterraneo".

I libanesi vi accusano di essere un fattore di instabilità. L'origine della guerra civile.
La guerra civile è stata uno scontro tra estremisti cristiani e nazionalisti progressisti, a cui i palestinesi si sono uniti. Ma la frattura esisteva già: tra cristiani e musulmani. Perché il Libano ha un assetto istituzionale confessionale, basato cioè su una ferrea ripartizione in comunità religiose, complessivamente diciotto, e la distribuzione in quote prefissate di tutti gli incarichi pubblici, di qualsiasi livello. Ma secondo un censimento del 1926: e la forza demografica dei musulmani è invece largamente maggiore di quella dei cristiani. In più, la differenza tra musulmani sunniti e sciiti: con i primi legati all'Arabia Saudita, e i secondi all'Iran, i due opposti riferimenti della comunità islamica contemporanea. A fronte di una simile complessità, è insensato attribuire responsabilità in bianco e nero... siamo i nuovi ebrei. La ragione per cui l'unica cosa su cui i libanesi concordano è il nostro diritto al ritorno, è che altrimenti saremmo uno sconvolgimento per il loro equilibrio confessionale. Già in Siria i palestinesi hanno gli stessi diritti dei siriani, con la sola esclusione del voto. E in Giordania poi, sono completamente equiparati ai giordani. L'instabilità di questo paese deriva dal sistema confessionale, da una frammentazione che richiede il cemento di un nemico - e dal colonialismo, naturalmente: passato e presente.

Rimanete comunque un onere economico insostenibile per un paese così piccolo.
Il Libano ospita centinaia di migliaia di lavoratori stranieri. La realtà è molto diversa. Per cominciare, siamo arrivati da un paese economicamente e culturalmente più avanzato, rispetto a un Libano dell'epoca essenzialmente rurale. I nostri imprenditori investirono qui capitali e competenze. Rapidamente ricompensati con la cittadinanza: tutto più semplice se si è ricchi - e in prevalenza cristiani. Ma anche oggi, la presenza palestinese non ha affatto un impatto negativo. Gli altri stranieri, penso i filippini al servizio delle famiglie di Beirut, inviano in patria quanto guadagnano, per noi è il contrario. Viviamo di rimesse dall'estero. E per il resto, produciamo e consumiamo qui. Più milioni di dollari di indotto delle varie organizzazioni internazionali, che acquistano ogni cosa sul mercato libanese. E tutto questo in cambio di niente, perché non abbiamo la minima assistenza sociale. Anche quei pochi con un lavoro vero: paghiamo tasse come tutti, contributi inclusi: ma la copertura sociale, per gli stranieri, è subordinata alla reciprocità. Niente pensione, niente assicurazione. Niente ferie e malattie. Non è socialismo. Solo l'articolo 25 della Dichiarazione Universale.

Ma senza diritto di voto e rappresentanza politica, come si conduce una battaglia per le proprie rivendicazioni?
Con l'impegno su se stessi. Nei campi. Non abbiamo neppure libertà di riunione e associazione. Ma alla fine questa è la nostra sola vita, giorno dopo giorno. Abbiamo cominciato dagli orfani perché il dolore potesse convertirsi in capacità di comprensione e dolcezza, cura, attenzione per gli altri - non odio e rancore: perché siamo qui, ormai, e l'unica è tentare di rendere l'inferno un po' migliore. Ma proprio in questo si fa chiaro quanto la questione sia politica, e non umanitaria. Dall'inizio, invece, si pensò di offrire ai palestinesi sistemazioni alternative, e lasciare che il tempo sbiadisse il desiderio del ritorno. Fu una scelta intenzionale. I terreni per i campi furono presi in fitto per cento anni - ma la giustizia non è in vendita. E così, come l'Unifil, l'Unrwa ha contribuito a congelare la situazione, e trasformarci da rifugiati in ostaggi: né insediamento né ritorno: solo sopravvivenza, mentre la politica è altrove. Ma vogliamo diritti, non sacchi di riso. In un conflitto, separare la dimensione politica dalla dimensione umanitaria significa semplicemente abdicare alla decisione, alla responsabilità - assecondare i più forti. Solo noi palestinesi siamo sottratti alla competenza dell'Alto Commissariato per i rifugiati. Perché la tutela dei rifugiati è molto più ampia. E soprattutto, a differenza dell'Unrwa, parla il linguaggio dei diritti, non dell'assistenza. A partire dalla libertà di lavorare.

Il Libano è affollato anche di ong internazionali.
E infiniti altri sacchi di riso, sempre nel nome di una illusoria neutralità - non a caso si trovano ormai a rimorchio delle cosiddette missioni di pace, a garantire in sub-appalto che possiate bombardarci vivi. E ong non tutte trasparenti, poi, è amaro dirlo. Alla fine, le mani nel fango sono le nostre: ma i finanziamenti arrivano asciugati delle spese più svariate - destinati alla sopravvivenza dei cooperanti, invece che dei palestinesi. Ma soprattutto, moltissime ong insistono testarde a occuparsi arbitrarie di cose di cui non abbiamo bisogno. Con alcune eccezioni, penso la vostra Un Ponte Per... Ma in genere sbarcano qui con progetti preconfezionati: semplicemente in cerca di manodopera indigena. Una forma raffinata di colonialismo. E siamo costretti a adeguare la nostra realtà alle loro teorie. Oggi per esempio non si ottiene un dollaro senza includere prospettive di genere. La violenza contro le donne, le discriminazioni contro le donne. La microimpresa femminile. Ma una comunità è un'alchimia delicata. Non è insegnare alle donne a ricamare tovaglie. E prima che lei mi classifichi il solito musulmano retrogrado... Sono arabo e ateo. Ma ricamare tovaglie si impara dalla nonna. Gratis.

A partire da Oslo, la questione dei rifugiati sembra essere sempre meno una priorità, per l'Autorità Palestinese. Come fosse il punto su cui maggiormente negoziare un compromesso, in nome della pace con Israele.
Ma è anche il momento di smentire una leggenda: perché non siamo mai stati finanziariamente sostenuti dall'Autorità Palestinese, né prima dall'Olp. Si dice in genere che dopo la guerra del Golfo, e le sue sconsiderate opinioni su Saddam, i paesi arabi abbiano deviato su Hamas le risorse prima concentrate su Arafat, costretto allora a tagliare l'assistenza alla diaspora. Ma non è così. Arafat ha avuto molti meriti, ma anche compiuto un errore fondamentale: confondere i confini tra Fatah, l'Olp, e poi l'Autorità Palestinese. Le risorse dell'Autorità Palestinese, da sempre, sono finite a Fatah. Ancora adesso, riceve denaro solo chi è legato a Fatah o Hamas. Quelli come noi, nel mezzo, e cioè la larga maggioranza, sono semplicemente dimenticati. Ma è il momento di archiviare anche questa dicotomia Hamas-Fatah, e concentrarsi un po' sulle cose serie. Il successo di Hamas è nell'inefficienza e corruzione di Fatah: ma noi, da qui, non chiediamo che unità nazionale, perché onestamente - vorrei smentire un altro mito: non credo che i vertici di Hamas a Gaza siano alla fame. Non è vero che i negozi sono vuoti. Dall'Egitto si contrabbanda di tutto. Solo che la guerra non è mai uguale per tutti.

Non rimane che Hezbollah?
Diciamo così - certamente sono gli unici a non avere mai ucciso un palestinese. Cercano di difenderci, ma intendiamoci, dal punto di vista del diritto al ritorno, non per quanto riguarda la nostra condizione in Libano. Il parlamento ha deciso all'unanimità, Hezbollah compreso, di privarci del diritto di proprietà.

Ma alla fine - o i rifugiati rinunciano al diritto al ritorno, o Israele rinuncia alla sua natura ebraica.
Molti dicono che siamo troppi, per una terra così piccola. Eppure Israele continua ad accogliere nuovi immigrati da ogni angolo di mondo, e garantire rigorosamente il diritto al ritorno per chiunque sventoli una vecchia zia ebrea. Dunque non è un problema di sostenibilità, ma di volontà. Prima del 1948, o meglio, prima della distorsione sionista dell'ebraismo, vivevamo insieme senza problemi. Non capisco perché non concentrare su questo la nostra capacità di immaginazione e innovazione, su come tornare insieme, invece che su ripartizioni e percentuali, e progetti surreali di circonvallazioni, e ponti e gallerie, paracadute, paesi di sotto e di sopra. Il futuro non è in stati religiosi, né islamici né ebraici. Non si tratta di rinunciare a niente, ma di completarsi, e tornare a arricchirsi reciprocamente. Gli israeliani hanno bisogno per loro stessi, non per noi, di riconoscere le proprie responsabilità. Non capiscono che è stata la loro nakbah: la condanna a uno stato permanente di eccezione, e guerra e paura, prigionieri dietro un muro. E comunque, se proprio vogliono pensarla in termini di rinuncia - hanno già al loro interno un'ampia minoranza araba: la rinuncia non è alla natura ebraica, ma alla natura democratica di Israele.

 

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