L'autunno di Ramallah
"Naturalmente è importante, perché per la prima volta, e a livello di Nazioni Unite invece che paesi arabi, si riconosce che Israele non è semplicemente la vittima innocente che racconta di essere. Ma senza troppe illusioni, e non solo per la probabilità che poi tutto finisca spiaggiato in Consiglio di Sicurezza, contro il veto americano. Oggi si ha molta fiducia nel diritto, e in fondo - niente di inedito: già Kelsen intitolava la speranza Peace through Law. Ed è vero che le inchieste i tribunali, la forza della ragione, delle regole condivise sono l'unica arma per chi non ha che fionde e pietre da opporre a un nucleare. Ma in ultimo la soluzione di un conflitto è un accordo, non una sentenza. E il primo negoziato, qui, Oslo, è stato un fallimento: anche per nostre responsabilità. E allora, mentre è importante discutere le conseguenze giuridiche, e giudiziarie, di Piombo Fuso, non è meno urgente riflettere sui suoi effetti politici e sociali. Perché l'attacco a Gaza non è stato solo crimini di guerra - quelli, ormai, non sono più neppure una notizia".
"E perché erano questi effetti, in realtà, il vero obiettivo - il vero motivo per un attacco così violento, e ma soprattutto così sproporzionato rispetto ai fuochi d'artificio di Hamas. Dopo l'inattesa palude della guerra in Libano, per Israele era indispensabile recuperare l'immagine di invincibilità: chiarire che non è cambiato niente, solo un incidente di percorso - chiunque voglia colpirlo, o semplicemente ostacolarlo, sarà come sempre severamente punito: direttamente assassinato. Poi naturalmente, le legislative imminenti: perché è stata un'operazione elettorale, oltre che militare: e la caccia al voto come caccia all'arabo. Ma la spiegazione principale rimane altrove, e riguarda le relazioni tra Hamas e Fatah - incluso il tentativo di un governo di unità nazionale. La proibizione di qualsiasi reazione, qui, nella West Bank, e non parlo di una reazione militare, ma anche solo politica, anche solo morale, verrebbe da dire - la proibizione anche solo di manifestare solidarietà, proibizione arrivata dall'Autorità Palestinese, e cioè da Fatah, si noti, e non da Israele, con i cortei dispersi da lacrimogeni e proiettili di gomma - è questo oggi il metro della distanza tra la West Bank e la Striscia di Gaza: una distanza che non è più geografia. L'attacco è stato, e con successo, l'obiettivo di frantumarci, dopo averci frantumato la terra. Israele ripete sempre di non avere nessuno con cui parlare. In realtà, ogni sua azione mira esattamente a impedire che si consolidi, da questa parte del Muro, qualcuno con cui parlare".
"E in questo senso allora un attacco contro Hamas: un attacco politico, non solo militare: perché alla fine, tra l'embargo internazionale e le continue incursioni israeliane, di cui Piombo Fuso non è stata che la più feroce, Hamas non ha avuto l'opportunità di dimostrare le sue capacità di governo. E non era solo una questione palestinese. Perché la specificità del contesto, qui, si traduce nella specificità del movimento islamico: sperimentato già in anni di efficienza e trasparenza a livello municipale e sindacale: un movimento radicato, più che radicale - e con significativi aspetti laici: completamente diverso dalle distorsioni occidentali. L'affidabilità di Hamas sarebbe stata l'affidabilità di un certo Islam - l'infondatezza dello scontro di civiltà. Ma Fatah per prima ha boicottato Hamas: perché ha sempre concepito l'intero processo di pace, l'intera Palestina come cosa sua: non avrebbe mai immaginato di essere un giorno costretta a condividere il potere. Da qui allora il tentativo di minare la conferma di Hamas come una valida alternativa. Attraverso gli apparati di sicurezza, ma soprattutto i funzionari pubblici, che una gramigna di clientelismo vincola a Fatah: come una specie di diserzione dell'amministrazione dal governo. Un ammutinamento. E la risposta di Hamas non è stata che un clientelismo di segno opposto - a prezzo di ogni credibilità: perché il voto per Hamas era stato un voto contro Fatah, non un voto per l'Islam. Il disastro è che si è cercato di arginare lo scontro con la solita aritmetica delle quote: e inevitabilmente, si è finito per spartire anche la terra. Fatah e Hamas non sono più due diversi movimenti all'interno di un unico sistema istituzionale, un unico fronte di liberazione. Ognuno considera l'altro illegale. Il conflitto è totale".
"Il problema è che l'Autorità Palestinese è stata definita e strutturata in modo sbagliato - con la funzione di facilitare il processo di pace: nel senso, garantire la sicurezza sul terreno, la stabilità a negoziato in corso, invece che come nostro autentico spazio di autogoverno. Oltre un terzo del suo bilancio è destinato alla sicurezza - la sicurezza degli israeliani. E così ci ritroviamo al guinzaglio tra la moschea e la polizia. Parlano di semplice coordinamento con gli israeliani, non certo di collaborazione, e sostengono che è nel nostro interesse - non è che nel loro interesse: minimizzano che è uno strumento per migliorare intanto la nostra vita, in attesa di discutere tutto il resto - ma questo 'resto' è la nostra libertà: non è che svendersi: perché più si è vicini agli israeliani, più si ottengono compensi e benefici. Ha ragione Uri Avnery: ogni nuovo centro commerciale rafforza la nostra dipendenza e subordinazione. Perché tutto quello che si compra, qui, è prodotto in Israele o comunque importato attraverso Israele - l'Autorità Palestinese è come la Francia di Vichy: ogni nuovo centro commerciale non rafforza il nostro benessere, ma la nostra umiliazione. Questa è un'area sigillata, Israele controlla tutto. Decide sovrano. Abu Mazen ha cominciato a tentennare sul Rapporto Goldstone quando qualcuno gli ha ricordato che al-Wataniya, la nuova società di telecomunicazioni a cui partecipano i suoi figli, è ancora in attesa della concessione di frequenze. Concessione di competenza di Israele".
"Disillusione, smarrimento incertezza - né Fatah né Hamas: è solo questo, oggi, a prevalere, tra i palestinesi: moltissimi, nei sondaggi, indicano l'astensione. E moltissimi cercano di emigrare, soprattutto i giovani istruiti. E alla fine, abbiamo sempre riconosciuto che era questo l'obiettivo ultimo del sionismo, non lo sterminio ma il quiet transfer: convincere i palestinesi, volontariamente, a vivere altrove: è amaro ammetterlo, ma a uno a uno, Israele sta vincendo questa guerra. Perché poi, non meno pericoloso, si registra questo movimento interno, tutto in direzione di Ramallah. Perché è l'unica città relativamente tranquilla, qui, l'unica città in cui è possibile trovare un lavoro: dormire senza l'incubo di una sveglia in forma di ruspa: l'unica città che davvero somiglia a una città. E in prospettiva, il rischio è ridurre tutto a Ramallah - così come in Israele non rimane che Nazareth: e poi solo minoranze sparse di arabi impoveriti. Colpisce girare la West Bank, in queste settimane, e attraversare checkpoint deserti - a volte presidiati da manichini. E allora, improvvisamente, la strategia israeliana diventa chiara: esplosioni di violenza terroristica e indiscriminata, quello 'splendore del supplizio' di cui ha scritto il vostro Danilo Zolo richiamando Foucault, e un libro non a caso intitolato Sorvegliare e Punire, per sancire oltre ogni dubbio che possiamo essere inceneriti tutti in tre giorni: e poi, immediatamente dopo il trauma di un mattatoio a cui non si è potuto opporre neppure un corteo di solidarietà, lunghi mesi di normalizzazione, strade asfaltate lampioni, semafori, negozi di telefonini. L'apparenza della libertà, per convincerci che ha più senso il compromesso, la coesistenza con l'occupazione invece che la resistenza, perché la resistenza ottiene solo Gaza - e però l'apparenza, dico: perché poi, se necessario, i soldati piombano in un minuto: perché sono stati sostituiti da dispositivi elettronici, e perché ormai gli insediamenti fortificano il territorio come caserme - è la versione israeliana del panottico di Bentham. Fosforo bianco e militari di pezza, come quella pratica di tortura - strangolare fino quasi allo svenimento, per poi consentire di nuovo di respirare: perché un attimo di ossigeno si trasfiguri in pienezza di vita: è quella che Netanyahu definisce 'pace economica'. Da Ramallah, l'occupazione non si percepisce più. E in questo senso, allora, anche le conseguenze morali di Piombo Fuso. Per gli israeliani, è ovvio: e per voi: per la vostra indifferenza. Ma non solo. Perché dall'altra parte del Muro hanno statue di generali e conquistatori: e invece la nostra icona è sempre stata un poeta: e la difesa dal loro odio dalla loro violenza, la nostra immunità - solo la dignità e la bellezza. E è allora qui, nella banalità di Ramallah, in questo suo autunno che scintilla nella pioggia di nuove luci, che più sono profonde le conseguenze di Gaza, oltre ogni crimine di guerra - perché Da due a otto martiri, scriveva, giorno dopo giorno / E dieci feriti, e venti case e cinquanta ulivi... Ma aggiungeteci / La perdita intrinseca / Che sarà il poema, l'opera teatrale, la tela incompiuta".
"E la comunità internazionale, intanto, che si limita all'assistenza umanitaria. E non solo si avvertono ormai inequivoche le distorsioni di un'economia intossicata dagli aiuti allo sviluppo, come nei paesi africani - ma il Rapporto Goldstone è stato bocciato proprio da chi più ci sostiene in termini finanziari: a partire dagli Stati Uniti. Consentire di lavorare per i diritti umani, qui, consentire i nostri stipendi i nostri uffici, e poi però minare l'esito politico della nostra attività: non è che consentire al processo di pace di proseguire indefinitamente, scudo alla propria mancanza di idee e coraggio. Non è che foraggiare l'occupazione - che per inciso, per le convenzioni di Ginevra dovrebbe essere a carico di Israele. Persino voi, così attivi al nostro fianco, avete votato contro. E allora forse questo Rapporto Goldstone non è un allarme solo per israeliani e palestinesi. Perché un embargo a sanzione di elezioni pacifiche e regolari è la sintesi della democrazia che esportate da queste parti - un sistema in cui chi governa ignora i cittadini".
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