Le nuove 'frontiere' del giornalismo: il caso Malsin
La sua storia è quella di decine di cooperanti e giornalisti che lavorano nei Territori Palestinesi.
Redattore Sociale (http://www.redattoresociale.it/) - 26 gennaio 2010
Otto giorni in una stanza senza finestre e senza la possibilità di comunicare con l'esterno. Otto giorni in stato di fermo nell'aeroporto di Tel Aviv. È quanto è accaduto a Jared Malsin, caporedattore di origine ebraica di una delle principali agenzie di stampa palestinesi, la Ma'an, espulso mercoledì da Israele con l'accusa di costituire "una minaccia per la sicurezza del paese".
A dare la notizia è stato uno dei suoi colleghi, George Hale: "Mi ha detto che era su una jeep militare e lo stavano portando a bordo di un aereo, ma era molto confuso e non sapeva dove stesse andando". I colleghi e il legale di Malsin temono che il giovane cronista statunitense sia stato forzato, dopo otto giorni di detenzione, a firmare il documento di espulsione.
Così il ventiseienne originario del New Hampshire è tornato negli Stati Uniti dopo essersi opposto per oltre una settimana al procedimento delle autorità israeliana. Le accuse mosse nei suoi confronti, secondo quanto si legge nella trascrizione dell'interrogatorio avvenuto all'aeroporto di Tel Aviv lo scorso 12 gennaio, sono di "aver mentito alle forze di sicurezza, non aver collaborato con le autorità e aver violato i termini dei precedenti visti".
La vicenda del suo arresto ha scatenato un acceso dibattito sia sulla stampa internazionale che in ambito politico. Associazioni internazionali e locali come il "Comitato per la protezione dei giornalisti" (Cpj) e "Reporter senza frontiere" hanno immediatamente espresso solidarietà nei confronti di Malsin, chiedendo a Israele "garanzie per i cronisti internazionali che lavorano in quella regione".
Malsin, che lavorava a Betlemme dal 2007, non ha mai ottenuto un visto di lavoro regolare perché la sua testata, vicina alle posizioni del presidente dell'Autorità Palestinese Abu Mazen, non è tra quelle ufficialmente riconosciute dal governo israeliano.
Da anni, in mancanza di una normativa chiara, operatori umanitari stranieri che lavorano o svolgono attività di volontariato in Cisgiordania, entrano in Israele con il visto turistico di tre mesi. In questi giorni sulla stampa israeliana si è aperta un'ampia discussione sulle recenti disposizioni del Ministero degli Interni per la concessione di visti agli operatori umanitari e agli impiegati stranieri che lavorano per le principali organizzazioni non governative internazionali presenti nei Territori palestinesi, compresa Gerusalemme Est.
Oltre che ai cooperanti, il governo israeliano sta rifiutando i permessi di lavoro anche ai docenti o agli uomini d'affari stranieri che vogliono recarsi nei Territori.
Un ulteriore giro di vite sugli ingressi nel Paese è quello proposto la settimana scorsa dall'Ufficio stampa del Governo israeliano che, attraverso le colonne del Jerusalem Post, ha suggerito l'introduzione di un visto giornalistico per i reporter stranieri da concedere solo a coloro che possono dimostrare di essere accreditati presso una testata internazionale.
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