Qualcuno con cui parlare
“Arrivarono qui dalla Russia, sionisti ma soprattutto socialisti, l’obiettivo era uno stato binazionale, e per cui quando nel 1948 gli offrirono una bella casa espropriata a dei palestinesi, mio padre rifiutò - eravamo sionisti, ma di minoranza, clandestini delle narrazioni dominanti, solo ‘gente del Medio Oriente’, senza nessuna distinzione dagli arabi...”
“Una famiglia normale, sopravvissuti alla nakbah, sono nato in mezzo al deserto, in una grotta come casa, come tanti, in una vita di povertà, senza alcuna prospettiva, onestamente non ricordo se ho mai avuto dei sogni, dei progetti, a un certo punto semplicemente mi sono ritrovato un combattente... Non sapevo niente della guerra, sapevo solo di questi soldati, catapultati addosso dal buio a sparare, lacrimogeni e proiettili e manganelli e odiavano quella bandiera nera, verde rossa e bianca, sapevo solo questo, e ma non avevo armi, solo dei vecchi vestiti da cucire insieme - e allora di notte entrai nel cortile della scuola, e legai la mia bandiera all’albero più alto: e al mattino i soldati la tolsero, e io la legai di nuovo, e di nuovo i soldati la tolsero e di nuovo la legai, fino a quando non spianarono via ogni albero...”
“Sapevamo della loro esistenza, certo, ma per quanto fossimo di Gerusalemme, e tutti di sinistra, non avevamo contatti, la prima volta che ho incontrato dei palestinesi studiavo letteratura, e già vivevo a Parigi...”
“Poi un giorno trovammo delle armi, avevo sedici anni, abbandonate, granate e una pistola, e pensammo che finalmente Israele sarebbe finito, avevamo delle armi adesso, un proiettile per ogni israeliano e tutto sarebbe finito... Ma le granate non ferirono nessuno, e il proiettile mancò la jeep, e ci risvegliammo tutti in carcere, io per sette anni, anche se non era stato colpito nessuno, e anche se io neppure ho mai sparato, perché zoppico, e quel giorno sarei stato solo di intralcio - e però è così che per la prima volta ho incontrato un israeliano, in carcere”
“Poi fu nominato comandante di Gaza, e fu allora che decise di studiare l’arabo, perché capì di avere potere di vita e di morte su decine di migliaia di persone di cui non sapeva assolutamente nulla, con cui non poteva neppure parlare... In seguito fondò un partito arabo-israeliano, organizzò i primi incontri illegali con Arafat, e quando ero giovane questo è quello che ricordo, vivevamo nella paura, minacciati perché traditori - ma mio padre rimase un sionista fino all’ultimo, voleva solo realizzare i princìpi della Dichiarazione di Indipendenza, l’eguaglianza, la libertà per tutti, il suo arabo non era una scelta eversiva, un impegno politico, voleva solo chiacchierare con i suoi vicini...”
“Fino a quando una sera non proiettarono Schindler’s List, e io non sapevo dell’Olocausto... E vedevo tutti quegli ebrei morire, umiliati, e accatastati e nudi, e per nessuna colpa che fosse loro, solo perché ebrei e vedevo tutte quelle persone morire, e tutti quei palestinesi, umiliati e accatastati e nudi, e per nessuna colpa che fosse loro - ma come poteva, un popolo che aveva conosciuto quella sofferenza, e l’ingiustizia e il razzismo, la deportazione, come poteva adesso quel popolo fare ad altri la stessa cosa?”
“Oslo è stata una grande speranza ma è svanito tutto, ovunque è la stessa area la stessa prigione, spediscono qui migliaia di giovani convinti di essere eroi, non capiscono che sono solo assassini che minano la sicurezza di Israele...”
“Ma chi mai può rovesciare Israele in mare? Una potenza nucleare, uno tra i migliori eserciti al mondo: la verità è che questa guerra si combatte ora dopo ora ai checkpoint, non è una guerra di grandi scontri, ma di ragazzini, soldati il cui compito è solo stare lì, aspettare che la giornata goccioli via... E invece arriva il momento che ti accorgi di cosa è densa quella noia: impregnata di centinaia di migliaia di persone affamate, disperate cancellate - disposte a esplodere contro tutto questo... E non mi si inganni, ancora, che è per la mia sicurezza: perché sappiamo tutti come aggirare il Muro, e perché le barriere esistono da molto prima degli attentati suicidi: l’obiettivo è solo stremare, e costringere a emigrare è solo apartheid, e infatti io questo Muro non lo sento, non mi tocca...” “Ma è una normalità che è solo un’illusione, sono fisicamente liberi, mentalmente occupati, è un paese di sfiducia reciproca, paura sospetto, ogni giorno, vivono blindati e per non dire l’economia, perché ormai è un paese povero, solo un nuovo ghetto di ipocondrie, non fabbricano che armi e per ogni mitragliatrice altre emarginazioni e periferie, e più emigrati che immigrati...” “E noi poi, ma come avremmo reagito se fossimo stati sorteggiati dall’altra parte del Muro? Perché sono certa che avremmo organizzato la resistenza, e avremmo combattuto per la libertà - e ne sono certa perché è anche la storia di Israele, perché è la storia di mio padre”
“E quando mi ha detto che sarebbe rimasta da un’amica a giocare, le ho detto Non se ne parla neppure, perché il giorno dopo aveva un esame - se ancora potessi dirle qualcosa, direi solo Vai... Vai, gioca - vivi... E so quello che sostiene la polizia, ma che importa se i ragazzi tiravano o non tiravano pietre? Se è stata una granata o un proiettile, e se il soldato voleva o non voleva sparare, se è stato omicidio doloso o colposo - l’unica domanda sensata è perché mai deve esserci la polizia in una scuola... Cosa ci fa una frontiera in una scuola? Cosa ci fa un Muro, tra le aule e il cortile...” “Perché il dramma è quando tutto questo non è l’esito tragico di un errore, ma della corretta applicazione delle procedure, della banalità del male, diciottenni a cui si affida una mitragliatrice e si insegna che i nostri bambini sono il loro peggiore nemico, l’incubo demografico di Israele, e loro sanno che qualsiasi cosa accada, non ci sarà nessun processo, e nessun carcere...” “Perché Abir aveva nove anni, e era armata solo di un righello, e hanno detto che avrebbe tirato una granata, Abir, che le sarebbe esplosa tra le mani, ma le sue mani erano intatte, e aveva invece solo questo foro alla nuca, perché è stata colpita alla schiena, che autodifesa è?, un soldato che spara da un blindato alla schiena di una bambina di nove anni? che stato di necessità è, che pericolo è, per la quinta potenza militare al mondo, una bambina con un righello?” “E quando allora quella mattina uscì di casa, io non volevo, perché erano mesi di attentati a Gerusalemme, ma poi lei disse Mamma, lasciami vivere”
“Si dice che l’occupazione ci corrompe, ma l’occupazione prima che corrompere noi devasta gli altri, io non potrò mai essere sullo stesso piano di una madre che oltre ad avere perso una figlia, sa che non avrà mai giustizia, io non ho che ammirazione per queste donne che in condizioni terribili - causate dal mio esercito, finanziato dalle mie tasse - hanno il coraggio di vivere comunque, amare, creare famiglie futuro in case bombardate all’improvviso, mentre accompagnano i bambini a scuola attraverso chilometri di macerie, tra i fucili dei soldati e gli sputi dei coloni... Ma è la sola cosa che qui abbiamo in comune, il dolore, perché se invece l’assassino di Smadar non fosse esploso, sarebbe stato immediatamente ucciso, e la sua casa demolita sul resto della sua famiglia - e quando sono con Salwa, e le dico che siamo vittime della stessa occupazione, so che è solo parte della verità, perché l’assassino di Abir in questo momento probabilmente gioca alla playstation, e il suo inferno è più inferno del mio...” “Dopo l’Undici Settembre tutto è diventato più difficile, perché il nostro nemico non è il terrorismo, ma la parola terrorismo, questa minaccia, questo ricatto indefinito... Ma in quanti paesi è Undici Settembre ogni giorno? Hamas offre prima di tutto moltissimi servizi sociali - e comunque, qualunque sia la mia opinione, non dimentico che tutto questo arriva dall’occupazione... E che quando Hamas ha vinto regolari elezioni, avete tagliato ogni dialogo e sostegno - finanziate la pubblicità della democrazia, ma mai la sua attuazione...” “Hamas non fa che proporre tregue, ma nessuno ascolta, io non amo i movimenti religiosi, ma queste sono scelte dei palestinesi, non ho il diritto di decidere per loro, e poi cosa posso insegnare?, dite che vivo in una democrazia, e poi dite l’Iran ma qui abbiamo la Torah invece che una costituzione - quando Gaza è divelta dalla malnutrizione, non è uno scontro di civiltà, è solo una civiltà che aggredisce l’altra, è genocidio... Io combatto le ingiustizie, la religione è una questione personale - e invece i ministri israeliani sono dei criminali secondo qualsiasi ordinamento giuridico”
“Mio padre fu uno dei generali alla guida del 1967, ma capì presto che quella vittoria sarebbe degenerata in un cancro, e finì per sostenere il ritiro, fino a definire l’invasione del Libano un crimine contro l’umanità - ma nella mia famiglia non siamo mai stati pacifisti, abbiamo sempre pensato che a volte combattere è necessario: però poi bisogna sapersi fermare, ottenere la pace, altrimenti è tutto inutile...” “E allora abbiamo fissato un incontro a Betlemme, quattro palestinesi, sette israeliani: temevamo tutti fosse un’imboscata, ma poi ci siamo guardati... E non è stato facile, davanti ad uno che ogni giorno ti umilia al checkpoint, e ti arresta ti spara contro, fa le incursioni di notte a casa tua - e eppure ti appare così simile, improvviso, così fragile e incerto... Ma non è in discussione la loro fedeltà a Israele, siamo stati tutti combattenti, qui, e molti ancora sono riservisti, solo si rifiutano di servire nei Territori - come non è in discussione la nostra fedeltà alla Palestina, la resistenza armata è un diritto... Ma semplicemente non funziona”
“Ci accusano di antisemitismo, ma non siamo traditori, al contrario, il vero patriottismo oggi è criticare Israele, e chi usa l’Olocausto per giustificare l’oppressione di un altro popolo, profana lui per primo l’ebraismo, il vero antisemitismo è quello di chi si ostina in una guerra che non uccide che noi stessi, non conquista che odio nei nostri confronti - uno stato democratico e uno stato ebraico sono due cose incompatibili...” “Ma non siamo dei codardi, perché quanto sarebbe stato più facile odiare... Recuperare un fucile, e sparare, tre, quattro soldati, a un checkpoint qualunque, vendicarmi... E lo so meglio di altri, perché quando nessun israeliano fu neppure ferito, rimasi molto deluso, volevamo uccidere, era l’unica soluzione, armi e munizioni, e giù gli israeliani, uno a uno... Ma adesso ho parlato con i miei carcerieri, adesso conosco la loro sofferenza... Qui abbiamo tutti sparato, torturato ucciso - ma il solo patriottismo possibile è combattere l’odio tra di noi, il solo modo per fermare quest’onda che ci travolge, il solo coraggio, fermare noi stessi, cercare non la vertigine della vendetta, ma il punto fermo della giustizia, perché è l’odio a costringerci prigionieri più di ogni Muro...” “E invece tra Oslo e la Seconda Intifada, ai progetti di incontro tra palestinesi e israeliani non è stata destinata che la metà del costo di un singolo carroarmato - oggi che la cosa più difficile non è superare le differenze di idee, ma il Muro, perché noi non possiamo entrare in Israele, loro non possono entrare nei Territori...” “La verità è che siamo soli, e invece come in Sudafrica, l’unica strada è una tenaglia internazionale - mentre voi europei vi limitate pigramente a rispolverare ogni tanto l’idea del boicottaggio: ma boicottare chi? Il boicottaggio condanna tutti in modo vago e indistinto - cominciate piuttosto a non commerciare armi, a boicottare i criminali di guerra, arrestateli alle frontiere, usate questa cosa chiamata giurisdizione universale, non colpite a caso, inchiodate le responsabilità al loro nome e cognome”
“Oggi che il ‘terrorismo’ è la violenza dei poveri e deboli, e ‘guerra al terrorismo’ quella dei ricchi e dei forti, noi siamo qui, vittime del terrorismo e della guerra al terrorismo, perché abbiamo titolo per dire che non esiste un modo civile oppure barbaro di uccidere innocenti, solo un modo criminale... Siamo qui perché non è vero che non esiste un partner per la pace, qui per dimostrare che esiste qualcuno con cui parlare - perché l’obiettivo non è perdonare, dimenticare, ma solo cominciare a stare insieme: se continuiamo a rovistare nelle nostre vite, a scavare domande, non impileremo che ragioni per scontrarci ancora, perché tutti abbiamo sangue sulle mani, e dolore alle spalle...” “Nessuno contesta il diritto di entrambi a questa stessa terra, ma dobbiamo cominciare a raccontare la storia di qui, imparare a localizzare - perché ormai questa terra appartiene più agli ebrei e arabi di ogni luogo e tempo che a noi che ci abitiamo, e che come tutti voi abbiamo molteplici identità, e sovrapposte, non siamo interamente rappresentati da un’etichetta etnica, o nazionale o religiosa, un’etichetta sola... Io non ho paura dei rifugiati palestinesi - ma perché mai dovrei preferire un ebreo sperduto, paracadutato qui a blindarsi nella sua piccola Russia di plastica in mezzo al deserto, e che neppure parla la mia lingua?” “La parola popolo ci viene sguainata contro come un destino... I giornalisti mi chiedono sempre come posso accettare condoglianze ‘dall’altra parte’ - ma quando Ehud Olmert, che era sindaco di Gerusalemme, è venuto a trovarci io non gli ho stretto la mano, e sono andata via, perché non accetto condoglianze dall’altra parte, e questa ‘altra parte’ per me sono loro, io distinguo solo, qui, tra criminali e pacifisti... Ma perché mai il mio ‘noi’ dovrebbe riferirsi agli ebrei o agli israeliani? La fraternità non si coltiva su astrazioni come la nazione, la razza, ma vite in comune in un luogo comune”
“Ma i libri di testo definiscono i palestinesi ‘un problema da risolvere’ - sento l’eco di soluzioni terribili che la storia ha già proposto... Sono le scuole ad addestrare i soldati, non le caserme, perché sono le scuole a insegnare a non dubitare mai della ‘verità’, a insegnare una visione del mondo come necessità, come causalità in cui ognuno disciplinato deve adempiere il proprio ruolo... A insegnare che Israele non si trova negli atlanti, ma nella Bibbia: e ogni cosa ha un settore ebraico e un settore non ebraico, qui, un’agricoltura ebraica e un’agricoltura non ebraica, le città ebraiche e quelle non ebraiche - ma chi sono questi ‘non-ebrei’, questi ‘altri’?, non si sa...” “D’altra parte i libri sulla Palestina erano proibiti... Ma nessuno ha bisogno di essere indottrinato a combattere, qui, si nasce combattenti, perché da quando sei piccolo la normalità è essere umiliati e picchiati, e allora la normalità è reagire, resistere, in ogni modo, strana gente che non parla la tua lingua, che non capisci cosa vuole, e arrivano a picchiarti, sai solo questo, e allora è solo istinto di sopravvivenza, combattere...” “Sono riassunti cumulativamente come arabi - non vivono mai in città, giovani che navigano in internet, studiano per un dottorato: sono le mille e una notte, le babbucce ai piedi e un cammello al seguito, il contadino nero di terra dietro l’aratro trascinato dai buoi... E quando sono i cittadini dei Territori, sono il terrorista mascherato... Ed è così, con questo razzismo che non è educazione ma infezione, che uccidere non è più uccidere, ma evolve in altri nomi altre legittimazioni, operazione, missione contromisura...” “E li inganniamo che sono magnifici in uniforme, li chiamiamo martiri, il ritratto con la mitragliatrice, bisogna cominciare a dire che nessuno è bello vestito di brutalità”
“Eppure l’ebraico ha questo uso bellissimo, la stessa parola per reality e invention: significa che la realtà è quello che inventiamo, e che dunque può essere cambiata...” “Mi chiedono sempre come so essere così forte, ma la mia non è che vulnerabilità, ed è la mia unica ricchezza, l’impossibilità di guarire, perché le ferite non sono al fondo che un’apertura, una disponibilità al mondo all’altro, una possibilità che ci viene ancora proposta...” “Diceva, Dio abita dove lo si lascia entrare...” “Perché so solo che dopo quarant’anni, Israele non è sicuro e la Palestina non è libera... Ma c’è un giardino adesso, nel punto in cui Abir è caduta - perché quella non è l’unica relazione possibile tra israeliani e palestinesi, perché qualcosa di diverso può crescere al sole lì dove è stato versato il nostro sangue”.
Nurit Peled-Elhanan, figlia del generale Mattiyahu, membro della Palmach e tra i fondatori di Israele, poi del primo dipartimento israeliano di letteratura araba, insegna pedagogia all’università di Gerusalemme. Sua figlia Smadar aveva 13 anni il 4 settembre 1997, quando un palestinese è esploso lungo la strada per la sua lezione di danza, in rappresaglia a dieci civili uccisi a Gaza. Nei giorni precedenti, un’imboscata aveva falciato via dieci israeliani. Nei giorni precedenti, Arafat era stato bombardato a Ramallah negli uffici dell’Autorità Palestinese. Nei giorni precedenti, attentati suicidi per ventisei vittime israeliane avevano seguito l’assassinio di un leader di Hamas. Nei giorni preceden
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