Non in mio nome
Troveranno una kippah un giorno, a Gerusalemme, tra le macerie di una casa in rovina. L'ha persa un americano alto, il passo leggero ma il sogno deciso, laurea a Harvard e inconsapevole, impeccabile bellezza. Dirige di carisma Rabbis for Human Rights, e come i nostri preti di frontiera, "per un'interpretazione altra dell'ebraismo che è ugualmente autentica, ugualmente basata sulle Scritture rispetto all'interpretazione nazionalistica e particolaristica oggi dominante".
Arik Ascherman ha lo sguardo di don Tonino Bello, e tutta quella libertà, quando raccomandava di tenere un grembiule in sacrestia, oltre alle stole e alle pianete - perché la fede è servizio reso al prossimo, spiegava, e non solo a Dio. Perché quella casa è a Silwan - era palestinese, sarà israeliana: la ruspa non si è lasciata fermare.
Si dice togliersi la kippah, distintivo dell'ebreo praticante, per dire allontanarsi dalla Torah. Troveranno una metafora un giorno, a Gerusalemme, tra le macerie di una morale in rovina.
"Ma perché ebraismo non è mai stato parola al singolare: certo non negli ultimi duemila anni, da quando è cominciata la diaspora, e il condizionamento dei vari retroterra etnici. Fino a Napoleone, siamo stati fondamentalmente un popolo a sé in paesi altrui. Con lo stato nazione, però, l'idea di un popolo distinto ospite all'interno dei propri confini è degenerata in contraddizione: Napoleone propose allora di eliminare ogni discriminazione: ma in cambio, avremmo dovuto limitarci a essere ebrei in privato - a livello individuale, non più anche come popolo. Ebrei in casa, francesi per strada. L'ebraismo contemporaneo non è che la risposta a questa ristrutturazione del mondo in stati nazione. Perché alcuni hanno rinunciato alla propria identità per l'assimilazione: altri hanno preferito rimanere nei ghetti. Ma tra gli estremi, smarrirsi ibernarsi, ognuno in definitiva ha elaborato un diverso equilibrio, un diverso compromesso con la più ampia società circostante e la modernità. Un gruppo particolare è quello ultra-ortodosso: impermeabile al tempo, vive sigillato nell'Europa orientale di alcuni secoli fa. Ma per il resto, il movimento che più cerca integrazione è il movimento riformato: con la preghiera nella lingua locale, per esempio, e il tempio invece della sinagoga, a indicare la rinuncia alla ricostruzione del tempio, e dunque a Gerusalemme e al ritorno: della modernità condivide soprattutto l'esaltazione e tutela della libertà individuale, dell'autonomia e scelta, con la distinzione tra prescrizioni di valore assoluto o solo contingente e un rapporto personale, diretto con Dio. La reazione è il movimento ortodosso: che comunque tenta l'adattamento alla modernità, ma secondo le norme della Torah, suo rigoroso pilastro - l'ambizione è l'evoluzione dell'ebraismo, ma con i suoi stessi strumenti. E il movimento conservativo, che è oggi numericamente prevalente, è in un certo senso la via di mezzo: il suo ebraismo è essenzialmente cultura. Più che il rapporto con Dio, più che le norme della Torah, gli ebrei come popolo: in una lettura dinamica della rivelazione, che si crede conferita non a Israele, ma attraverso Israele - una rivelazione cioè non data per sempre, ma che si afferma nel corso della storia: santificata non dall'origine divina, ma dall'osservanza di generazioni di ebrei. Poi, ancora, il movimento ricostruzionista: e cioè l'approccio conservativo fino alle sue ultime conseguenze: l'idea che un Dio soprannaturale sia arretratezza, ormai, quasi superstizione, e che sia dunque necessario ricostruire, appunto, i valori ebraici in modo da preservare quanto di valido ancora veicolano, ma in termini immanenti. E infine, anche una sorta di movimento new age, di recente, misto di misticismo e pratiche meditative. Poi in realtà, in Israele le differenze non hanno, in genere, fondamento teologico: cioè, la contrapposizione non è tanto tra ortodossi piuttosto che riformati, quanto tra più o meno osservanti: con un 20 percento di laici, un 20 percento di praticanti - e per una larga maggioranza di tradizionalisti, semplicemente un rispetto selettivo e abbastanza arbitrario dei comandamenti".
Israele è per definizione "lo stato ebraico". Più precisamente, però, è uno stato ebraico ortodosso. E alla fine la cartolina di Gerusalemme, con gli ebrei tutti in nero, e le treccine e il cappello mentre guardano il tramonto e la cupolona dorata, è il ritratto di chi considera blasfema l'esistenza di questo paese.
All'epoca della fondazione di Israele, il mondo ebraico non era affatto compatto in sostegno al sionismo. Molti riformati semplicemente non si percepivano più come popolo, ma religione: e comunque, secondo loro Dio aveva disperso gli ebrei intenzionalmente, per diffondere i valori della Torah. Ma soprattutto, larga parte degli ortodossi obiettava che solo il Messia poteva ricondurci alla Terra Promessa, solo Dio giudicarci degni del ritorno: e Ben Gurion temeva il disastro - che si appellassero cioè alle Nazioni Unite, Bibbia alla mano, per contestare la legittimità di Israele come stato ebraico. Per questo propose loro un accordo, il cosiddetto Status Quo, che è ancora oggi in vigore - l'ebraismo ortodosso non è la religione di stato, qui: nessuna legge dice che è la versione ufficiale dell'ebraismo, ma appunto: in base allo Status Quo, è il Gran Rabbinato, interamente ortodosso, a occuparsi in monopolio di tutte le questioni relative allo status personale - matrimoni divorzi, funerali, conversioni, cose così, la certificazione kosher del cibo. E lo shabbat, naturalmente. Ma è stato in realtà il nostro sistema parlamentare a consentire all'ebraismo ortodosso di mantenere i suoi privilegi, e imporsi di fatto come l'ebraismo ufficiale di Israele: perché per diventare maggioranza di governo, è sempre stato indispensabile includere i piccoli partiti religiosi. E il contributo dei laici non è stato irrilevante: perché se proprio devi essere credente, ragionano, il modo è quello ortodosso - la sinagoga in cui non sono mai entrati è per loro solo la sinagoga ortodossa. In quanto rabbino riformato, per esempio, il matrimonio che celebro non è riconosciuto dallo stato - come se in Italia fosse possibile sposarsi solo in Chiesa. Con tutte le discriminazioni nei confronti dei non ebrei, l'ironia di questo paese è che cristiani e musulmani hanno maggiore libertà di religione degli ebrei.
Lei è sostenitore di un ebraismo, dice, "umanistico".
Perché di tutte le differenze che moltiplicano l'ebraismo contemporaneo, la più significativa è secondo me la scelta tra un approccio universalista o all'opposto, particolarista alla Torah. I nostri comandamenti sono comandamenti verticali, relativi al rapporto tra il singolo e Dio, e comandamenti orizzontali, relativi al suo rapporto con gli altri: gli altri esseri umani, in generale, come nella mia interpretazione, oppure solo gli altri ebrei - o persino, in modo ancora più limitato e esclusivistico, solo quel gruppo di ebrei insieme a cui si vive. Ma per quanti leggono con onestà intellettuale e morale le prime righe della Bibbia, quando si spiega che l'uomo è stato creato a immagine di Dio, e non che l'ebreo è stato creato a immagine di Dio, non il ricco, il bianco, o l'uomo e non la donna, ma l'uomo in astratto, l'essere umano - questo non può che radicare un'interpretazione universalista dell'intera rivelazione. Siamo tutti discendenti di uno stesso Abramo, e Dio ha creato un solo uomo, Adamo, proprio a indicare che la distruzione di una qualsiasi vita equivale alla distruzione di tutta la terra: e questo impone di tutelare ebrei e non ebrei, la loro vita e dignità con identico, assoluto rigore.
Anche Martin Buber proponeva un ebraismo umanistico. La sua era essenzialmente una riflessione sul rapporto tra mezzi e fini: chiedeva di "guarire la ferita della separazione tra politica e morale", richiamando la parola di Isaia - "Sion sarà redenta attraverso la giustizia".
Se ogni uomo è immagine di Dio, ogni uomo è un fine, valore in sé. "Giustizia, giustizia dovete perseguire", prescrive il Deuteronomio: ripetuto due volte proprio perché bisogna perseguire una giusta causa, ma anche perseguirla con giusti mezzi. Al fine, sosteneva Buber, deve corrispondere la via. Ma con estremo realismo: e cioè riconoscendo, aggiungeva, tutta la distanza tra pratica e teoria: perché "l'opera deve compiersi non oltre la mischia, ma in mezzo a essa: e la parola non vince nella sua purezza, ma nel suo disciogliersi, la fertilità si compie nella corruptio seminis". Data la complessità della realtà e la sua contraddittorietà, è il senso di Buber, qualsiasi scelta politica implica una certa misura di ingiustizia: assicurare spazio alle future generazioni ebree significa limitare lo spazio delle future generazioni arabe. La differenza tra politica realistica e politica profetica, per usare le sue definizioni, è che la prima considera sufficienti, per delinearsi, gli interessi di un unico gruppo, mentre la politica profetica è responsabilità morale per l'intero - non confondere mai l'esigenza di vita con la volontà di potenza. Non compiere più ingiustizia del necessario: non è idealismo, scriveva: è un realismo più largo.
Lei però è anche un sostenitore del sionismo. E invece per molti è proprio qui la miccia di tutto: in questa forma di nazionalismo laico che si appella strumentalmente alla Bibbia in cerca di una infrastruttura mitologica, come ogni nazionalismo - di un'ancora al passato. E appunto: finì per essere contestato dagli ebrei, prima ancora che dagli arabi. Secondo Theodor Herzl, "la questione ebraica non è sociale o religiosa, ma nazionale". David Ben Gurion visitò per la prima volta Gerusalemme, eterna capitale e indivisibile, che era qui già da tre anni.
Certamente sionismo non è sinonimo di ebraismo: la parola stessa viene coniata solo nell'Ottocento. Per molti anni non mi sono identificato con il sionismo: credevo significasse l'obiettivo di riunire ogni singolo ebreo nella terra di Israele - obiettivo che non ho mai condiviso. Ma poi ho letto "The Zionist Idea" di Arthur Hertzberg: e ho capito quante diverse varianti del sionismo esistessero. Alcune interessanti, alcune mie altre razziste, lontane... Ma il comune denominatore del sionismo, in ogni sua forma, è l'essere un movimento di liberazione: perché solo come popolo come gli altri popoli, nazione come le altre nazioni, in controllo del nostro destino, della terra su cui viviamo, possiamo essere liberi e sicuri. Senza dubbio la larga maggioranza, qui, sostiene un sionismo politico: in altre parole, l'obiettivo e fine ultimo è lo stato di Israele, che prevale su ogni altra considerazione - sempre e comunque. Ma io mi concepisco sionista culturalmente, e non politicamente: per me lo stato non è che un mezzo: il fine è la nostra sicurezza fisica e spirituale. Niente di più. E tuttavia, oggi credo questo richieda l'apparato di uno stato - anche se sarebbe magnifico, e un giorno sarà magnifico, un Medio Oriente senza frontiere: un mondo senza frontiere. Nella nostra giustificata critica di Israele, più esattamente, di certe sue politiche, dobbiamo essere attenti a non contribuire ai sempreverdi tentativi di delegittimare il nostro diritto a esistere. Equiparare la fondazione di Israele alla comparsa del Messia spalanca ogni tipo di degenerazione e abisso: ma non è possibile fingere, all'opposto, che il Novecento con il suo Olocausto non sia mai avvenuto.
Ma la filosofia del sionismo è sostanzialmente una filosofia della separazione. La pace del sionismo, sia a destra che a sinistra, è la pace del Muro: è la distinzione netta tra ebrei e non ebrei. E invece il termine ebraico per dire fede è emunah, fiducia: non vivere accanto all'altro, specificava Buber - insieme all'altro. L'opposto di un Muro.
Ma è esattamente questa la ragione del nostro impegno per i diritti dei palestinesi: perché la loro libertà è indispensabile alla nostra sopravvivenza spirituale, è etica, non strategia - ancora: non un mezzo per la sicurezza, ma un fine in sé. Per Buber diventiamo noi stessi mediante gli altri: il principio di fondo, nella vita e non solo in politica, è l'inclusione - cosa molto diversa dall'empatia, e cioè il tentativo di traslarsi nell'altro: perché questo significa escludere se stessi: e invece l'inclusione è non esclusione, ma estensione della propria concretezza. Non negare la propria realtà, ma accogliere l'altra nella propria. Da qui la preferenza di Buber per lo stato unico. E la denuncia di quella che criticava come "assimilazione nazionalistica": uno stato con cannoni, bandiere, onorificenze?, osservava sorpreso: "il nazionalismo ebraico si appresta a percorrere la via degli altri popoli, e cioè limitarsi a affermare il sé contro il mondo: ma diventa falsa e vana qualsiasi sovranità che non si sottometta al sovrano del mondo, che è sovrano anche del mio rivale e del mio nemico".
Il sionismo non è solo una forma di nazionalismo laico: in un certo senso, è una duplice forma di impoverimento dell'ebraismo, perché è anche un movimento europeo che disconosce la componente araba della storia ebraica. Theodor Herzl immaginava Israele come un avamposto dell'Occidente in Medio Oriente. Eppure ancora oggi il vostro teologo di riferimento è Maimonide, espressione della sintesi araba tra pensiero greco, islamico e ebraico, che riscopre e restituisce all'Occidente il razionalismo aristotelico.
Il sionismo è stato innegabilmente un movimento profondamente europeo. Ma letteralmente, l'ambizione del "ritorno a Sion" esiste da sempre: da sempre gli ebrei pregano tre volte al giorno, ogni giorno, per tornare qui. Anche se per Herzl l'Argentina era una destinazione valida quanto la Palestina, l'aspetto di fondo del sionismo, comune come dicevo a tutte le sue versioni, e cioè questa idea di tornare in Israele come unica possibilità di libertà e sicurezza, è un aspetto radicato nell'ebraismo dall'inizio della diaspora. Un aspetto autentico, che non è onesto minimizzare a distorsione europea. E né bisogna dimenticare il clima dominante dell'epoca - il socialismo: e una terra, allora, sentita come di chiunque volesse servirla, sufficiente per tutti. Per una convivenza costruita sulle solidarietà generate dal lavoro condiviso.
Ma il sionismo è anche l'ambizione esplicita di forgiare il nuovo ebreo: dal rabbino icona della diaspora, al sabra icona del kibbutz. Non tanto un coronamento dell'ebraismo, dunque, quanto la sua trasformazione.
Con Israele, è indubbio, l'ebraicità è diventata concetto descrittivo, e non più normativo: si è ebrei non per quello che si fa, e cioè vivere secondo Torah, ma per quello che si è, figli di madre ebrea - è con Israele che diventa possibile l'ebreo laico. Il rabbino, "il maestro", si afferma nell'esilio babilonese: è un esperto di giurisprudenza, chiamato a reinterpretare costantemente le Scritture per adattarle ai nuovi luoghi e tempi, e consentire così un appiglio di identità collettiva. Non tutta la rivelazione del Sinai, infatti, era stata inclusa nella Torah: la trascrizione diventava ora indispensabile per evitare la sua dispersione, ma anche specificarla, articolandola in norme più dettagliate, capaci di disciplinare una comunità. Il Talmud Torah, "studio della Torah" è dato quindi dalla Mishna, "ripetizione", cioè la raccolta degli insegnamenti orali, più la Ghemara, "completamento", e cioè il commentario alla Mishna - per collegare organicamente legge orale e legge scritta e limare via eventuali incoerenze. In questo senso gli ebrei sono stati a lungo, letteralmente, "popolo del Libro": e la nostra patria la Torah. Certamente la Bibbia che Ben Gurion aveva sempre con sé, e che definiva "il nostro Mandato" in sfida agli inglesi, era molto più storia che teologia: puntello di un progetto politico, più che vincolo alla parola di Dio. E certamente i primi pionieri erano laici: e anche qualcosa di più - contro questo ebreo della diaspora, che si era lasciato trascinare alla camera a gas senza resistenza. Ma non credo che il sionismo sia una trasformazione dell'ebraismo: non il suo coronamento, ma neppure la sua trasformazione. Perché per molti versi, invece, arriva dritto dall'ebraismo: dal dato incontrovertibile che Dio ha promesso questa terra al popolo ebraico - che questa è la nostra terra. E però è ugualmente incontrovertibile che sì, esiste questa connessione eterna: ma che siamo finiti in diaspora per avere disatteso la parola di Dio. Questo è chiarissimo nella Torah. Eppure, tutto quello che oggi è necessario fare per mantenere questa terra - per mantenere l'occupazione, ci rende moralmente indegni di controllare l'intera Israele. Non è possibile dire con certezza "l'ebraismo dice" praticamente in relazione a niente: tranne su un punto: il valore della vita umana - perché ogni uomo è appunto, immagine di Dio. E quindi, lasci perdere il rabbino Ascherman, che è un rabbino di sinistra, pensi il rabbino Youssef, ultraortodosso: che ha spiegato quello che i suoi seguaci hanno dimenticato, e cioè che per quanto possa essere sofferto privarsi di un solo centimetro della terra su cui hanno camminato i nostri profeti, per quanto importante possa essere per noi questa terra - ma la vita umana è sempre più importante. E quindi se è possibile evitare il sangue con un compromesso - allora sì, è questo l'unico caso in cui davvero non abbiamo scelta.
Si sente spesso parlare di "ordini dei rabbini". E di un paragone con la Sparta di Platone: una società in cui ogni aspetto della condotta umana è controllato, e soggetto a sanzioni religiose - manipolate in realtà da chi governa. In Karl Popper, è l'icona della società chiusa. Qual è il rapporto tra il singolo ebreo e le Scritture? Si ha margine per l'interpretazione personale? Per l'autonomia - e dunque anche la responsabilità individuale?
Questa è la visione più fuorviante possibile dell'ebraismo. Semplicemente perché non esiste un'unica, autentica Torah. Il Talmud contiene di tutto: di più - è per definizione, strutturalmente, dibattito, argomentazione e contrapposizione di tesi diverse. Pluralismo. Certo, poi soprattutto nell'ebraismo ortodosso si è tenuti a obbedire all'autorità: ma di fatto i rabbini non concordano su niente. Per cui, per sottrarsi a un ordine scomodo, è sufficiente cambiare rabbino. Apparentemente la libertà morale individuale, la capacità del singolo di distinguere il bene dal male e formulare secondo coscienza le sue scelte di vita, è incompatibile con la fedeltà a testi sacri: e infatti l'interpretazione della Torah è affidata a una istituzione centralizzata, il Sanhedrin, la cui pronuncia è vincolante - "e non ti allontanerai dal verdetto della Corte, né verso destra né verso sinistra: neppure se ti dirò che la destra è sinistra e la sinistra è destra". Ma il rabbino in minoranza, se non può consolidare in legge la sua opinione, ha comunque diritto a esprimerla, e anche insegnarla e diffonderla - il Voltaire del non condivido le tue idee, ma mi batterò perché tu sia libero di averle. E soprattutto, non solo un rabbino: ogni ebreo ha diritto di dissenso. Perché in caso di errore nell'interpretazione della Torah, la Corte è tenuta a un'ammissione pubblica, si spiega: ma allora, se la Corte è fallibile, ognuno è moralmente responsabile. Agire secondo coscienza, nell'esercizio di tutta la propria libertà e consapevolezza morale, non è solo una possibilità, per un ebreo: è un dovere.
E lei come interpreta la Torah?
La mia sintesi estrema è il comandamento che impone di non fare agli altri quello che non si vorrebbe subire: trattare lo straniero come un cittadino, perché siamo stati tutti stranieri in terra d'Egitto. E dunque la sensibilità la cura, l'attenzione per il diverso e l'Altro, il fragile, il vulnerabile. L'invisibile. Convertire l'esperienza dell'esilio, la sofferenza di straniero in fonte di delicatezza all'Altro: apertura ricchezza - non paura.
Siete noti per l'impegno per i diritti dei palestinesi: ma lavorate molto anche per i diritti degli israeliani. Poveri e emarginati, senza distinzione - ebrei e non ebrei.
Ma non ci limitiamo all'assistenza sociale, è importante specificare questo: la carità è integrata dalle battaglie politiche e soprattutto giudiziarie, mediante un nostro dipartimento legale: perché la povertà, l'esclusione è questione di giustizia e cambiamento, non solidarietà e elemosina. L'identità ebraica si è forgiata nel Sinai, quando abbiamo ricevuto il compito di opporci a un potere che ci incatenava e opprimeva, e di creare un nuovo e migliore ordine sociale. Non siamo tornati nella Terra Promessa per diventare una nazione come tutte le altre nazioni.
In effetti, in Europa siamo abituati a pensare a Israele come un paese potente, ricco - come il primo mondo, come noi: non gli arabi qui intorno. Eppure le sue periferie colpiscono.
Abbiamo la più larga forbice dell'Occidente tra ricchi e poveri, secondi solo agli Stati Uniti: il 20 percento degli anziani è costretto a scegliere tra cibo e cure, e un inimmaginabile 25 percento degli israeliani è sotto i due dollari al giorno. La madre single con il frigorifero vuoto è per me questione di diritti umani quanto il palestinese che difende la sua casa, gli olivi dalle ruspe. Anche perché naturalmente, l'intolleranza tende a riflettere l'emarginazione sociale: ed è fondamentale spiegare invece a chi abita in quartieri popolari, a chi sopravvive di cemento, e stenti e solitudine e nessuna prospettiva, quanto l'occupazione sia a suo danno, e i suoi milioni di dollari in armamenti e insediamenti. Ma la maggioranza delle associazioni progressiste si dedica solo a una delle due: l'occupazione o l'emarginazione - e chi sceglie l'emarginazione, affronta prudente l'occupazione: perché è tema politico, e rischia di perdere consenso. Eppure, è intuitivo che siano i più poveri a temere Oslo e la pace, i palestinesi a basso salario. Non tutto è religione, qui: qualcosa è sempre Marx.
I più poveri e emarginati, in Israele, sono gli arabi. Ancora oggi non esiste una cittadinanza israeliana. La vostra carta di identità registra solo le nazionalità: ebreo, arabo, druso... Non crede sia necessaria una costituzione, in modo che Israele diventi lo stato di tutti i suoi cittadini, e non solo degli ebrei?
Per la prima volta nella storia, gli ebrei con Israele esercitano potere politico. Per questo abbiamo elaborato il "Tractate Independence", una sorta di commentario alla Dichiarazione di Indipendenza sulla falsariga del Talmud: perché è vero, è necessaria una riflessione sui valori sulla cui base esercitare questo potere - e diversamente dalle usuali Dichiarazioni di Indipendenza, tra l'altro, quella israeliana ha valore giuridico. Molti sostengono che per quanto utile e di qualità, non sia comunque adeguata agli standard internazionali, e le esigenze attuali di un paese moderno, complesso: e sostengono appunto, l'opportunità di una costituzione. Ma la verità, realisticamente, è che non avremo alcuna costituzione, non nel medio periodo - perché è ancora diffusa la convinzione che l'unica costituzione possibile, qui, sia la Torah. E quindi, al momento è importante lavorare su quello che esiste. "Promuovere lo sviluppo del paese a beneficio di tutti gli abitanti; assicurare la completa eguaglianza di diritti sociali e politici, indipendentemente dalla religione, dalla razza, dal genere; garantire libertà di religione, coscienza, lingua, educazione e cultura; mantenersi fedeli ai princìpi delle Nazioni Unite" - direi che al momento abbiamo ancora molto da lavorare su quanto già in vigore.
Ma manca l'eguaglianza fondamentale, da queste parti: quella "indipendentemente dalla nazionalità".
I non ebrei sono cittadini israeliani esattamente come gli ebrei. Poi certo, in concreto la situazione è molto diversa - ma mi trovi una democrazia che sia immune da razzismo e discriminazione. Gli arabi hanno diritto di voto come gli ebrei, e hanno i loro rappresentanti in Knesset, e i loro giudici in Corte Suprema: la discriminazione non ha origine nella legge. Non credo onestamente che la questione araba, qui, sia semplice questione di costituzione.
Ma "stato ebraico" significa oggi, in termini aritmetici, maggioranza ebraica: ed è una maggioranza mantenuta artificialmente, attraverso una molteplicità di limitazioni nei confronti dei non ebrei. Lei può comprare una casa a Firenze: perché io no, a Gerusalemme?
In un discorso qui, per un pubblico interno, non destinato cioè a conquistare consenso internazionale, Ben Gurion disse che in Israele doveva aversi completa eguaglianza: se costruiamo un impianto di irrigazione, spiegò, dobbiamo costruire poi lo stesso identico impianto in un villaggio palestinese. Un'equa divisione delle risorse, di tutto: un'idea radicalmente diversa dalla realtà di oggi - e anche dalla realtà dei suoi tempi. Ma allora, gli fu chiesto, se non è la differenziazione tra ebrei e non ebrei - cosa fa di Israele uno stato ebraico? E la risposta fu: l'aliyah. Il ritorno degli esuli. E credo questo per lui avesse un duplice significato. Certo, fare di questo paese un luogo in cui ogni ebreo oppresso possa trovare rifugio, e libertà e sicurezza - la finalità ebraica di Israele: ma anche, soprattutto, la consapevolezza che l'aliyah è il solo modo per essere uno stato insieme ebraico e democratico. Perché possiamo essere entrambe le cose se siamo maggioranza: ma nel momento in cui questa maggioranza non esiste più, inutile mentirsi - scegliere è inevitabile.
Gli ortodossi più rigorosi chiedono l'instaurazione di una teocrazia, con forza vincolante della halakah, "la via", le norme giuridiche contenute nel Talmud - un po' come con la shari'ah. Lei cosa intende per stato ebraico?
Sono contro la coercizione, di qualsiasi tipo. Ovviamente, sono un rabbino - vorrei tutti fossero credenti e praticanti: ma ognuno deve essere libero di non credere e di non praticare: e quando crede e pratica, deve essere una scelta autentica e autonoma. L'halakah ha per me valore morale, non legale. E la mia preferenza è lo stato unico, laico e democratico - in cui il diritto al ritorno non sia nostra esclusiva prerogativa. Ma soprattutto, vorrei ogni ebreo assumersi la responsabilità del proprio ebraismo, delle proprie idee e opinioni - costruire un suo rapporto diretto con Dio. Anche perché Dio non ci vuole forse tutti osservanti allo stesso modo: forse si attende qualcosa di diverso da me e da lei. Ha creato gli uomini da un solo Adamo: tutti dallo stesso stampo, eppure tutti diversi, proprio perché ognuno possa dire - il mondo è stato creato per me. Chi distrugge una vita, qualsiasi vita, riduce non solo quantitativamente, ma anche qualitativamente la presenza di Dio nel mondo, perché elimina una sua manifestazione necessaria e irripetibile.
L'immagine dell'ebreo praticante per eccellenza, oggi, è l'immagine del colono di Hebron. Esattamente il nemico che fronteggiate nelle battaglie contro confische di terre e demolizioni di case.
La Guerra dei Sei Giorni ha innescato forze messianiche estremamente potenti e seduttive. La memoria dell'Olocausto era vicina, e molti erano sicuri che Israele sarebbe stato divelto via dalla geografia. Invece non solo non fu distrutto, ma ottenne questa miracolosa vittoria che inevitabilmente finì per essere percepita come un intervento di Dio. Da qui l'idea che fosse nostro dovere sviluppare adesso, e redimere, l'intera terra di Israele: con ogni mezzo, a ogni costo. E tuttavia devo anche essere attento, quando parlo dei coloni: perché non possiedo la verità - non posso dire che il solo ebraismo è il mio: amaramente, anche i coloni hanno Scritture a cui richiamarsi. Ma alla fine, non posso che considerare ogni loro iniziativa come un pericolo per i miei figli, fisicamente e spiritualmente: quello stesso fanatismo che ha causato il crollo del regno di Israele e la diaspora - una profanazione del nome di Dio. "E se qualcuno si prefiggesse di rubare e rapinare per sei anni, e poi al settimo di erigere un tempio con quello che ha accumulato - saranno davvero le mura di un tempio quelle che edifica, o non piuttosto una spelonca di ladri? Un palazzo di ladri sulla cui porta osa incidere il nome di Dio".
Che rapporto avete con i rabbini degli insediamenti?
In realtà - indubbiamente, senti che appartengono al tuo stesso mondo, persone con cui è possibile concordare su molte cose: inclusi in larga parte i diritti dei palestinesi come individui - anche se poi non condivido, naturalmente, quello che alcuni di loro compiono in concreto: ma è questione di una lealtà problematica, in un certo senso, come avere un fratello criminale. Il punto invece su cui l'accordo è impossibile è il momento in cui si arriva ai palestinesi come popolo. Ora, se esaminiamo la tradizione e la storia ebraica, troviamo pagine accettabili e inaccettabili sul trattamento dei non ebrei, in generale: inclusione e discriminazione. Ma la verità è che nei nostri testi non esiste alcuna discussione su come trattare altri popoli all'interno di Israele: perché l'idea stessa di un diverso, distinto gruppo nazionale all'interno di Israele, stato degli ebrei, è un ossimoro. Questo è chiaro, e tocca ammetterlo. Tuttavia, per quanti di noi credono opportuno imparare da quello che impariamo su ogni essere umano, immagine di Dio, qualcosa sugli altri popoli, allora l'unica conclusione possibile è radicalmente diversa da quella dei coloni e dei loro rabbini. Anche i più liberali.
Ma la Bibbia come disciplina il ricorso alla forza? Perché i palestinesi citano sempre questo Libro di Giosuè sulla conquista violenta di Israele, e l'obbligo di sterminare gli amalechiti - i cui discendenti oggi sarebbero gli arabi.
Oggi per molti israeliani, è vero, la Bibbia è essenzialmente il Libro di Giosuè. Non posso negarlo. Ma l'idea di fondo, a leggere attenti, è che una vittoria sia esito più della fedeltà a Dio che della supremazia militare. Certo, l'autodifesa è un caso specifico. "E se qualcuno viene a assassinarti, svegliati prima e colpisci", dice il Talmud. Ogni bambino sa citarlo. Il problema è che poi nessuno sa mai citare il resto del testo. Perché tempo un paio di pagine, e impariamo che abbiamo non solo il diritto, ma il dovere di salvare chi è in pericolo: eppure, se possiamo salvare l'aggredito e anche l'aggressore, sparandogli al piede, urlando e spaventandolo, creando un processo di pace eliminando l'assedio di Gaza - se invece lo uccidiamo, anche se abbiamo agito per un fine giusto, salvare una vita, il Talmud comunque ci condanna responsabili di omicidio. In termini moderni - è una dottrina della minima forza necessaria. E poi ancora, nella stessa pagina, troviamo una prescrizione forse eccessiva per un normale essere umano - ma perché adesso la domanda è Rabbino, il governatore del villaggio minaccia di uccidermi se non uccido Tizio, che è innocente, cosa devo fare? E il rabbino risponde: lasciati uccidere, piuttosto che uccidere: perché chi può decidere se il tuo sangue è più rosso del suo? Avevamo tutto il diritto di attaccare, in Libano, con tutti quei rapimenti, e le incursioni oltre confine. Ma poi uno non conta che i civili uccisi, alla fine, e così nella guerra di Gaza, e di nuovo: nessuno accetterebbe mai mezzo razzo, noi abbiamo sopportato migliaia di razzi - ma è che una guerra è un dilemma a somma negativa, e sempre, in cui tutti sono destinati a perdere: una tragedia greca: e la scommessa invece è creare gioco a somma positiva, in cui tutti sono destinati a vincere. Non voglio assolvere Hamas: ma mi chiedo anche: abbiamo contribuito noi per primi a negarci la sicurezza?
Però i palestinesi ripetono sempre che non è questione di religione: che non ha senso parlare di "arabi e ebrei" perché tutti, qui, hanno sempre vissuto pacifici nel contesto di un'unica lingua e cultura, appunto - quella araba: con le diversità di fede poi tra cristiani, ebrei, musulmani: è uno scontro nazionale, dicono. Uno scontro per la terra. Non la Bibbia, ma il 1948. Quanto di questo conflitto è davvero scontro di civiltà, à la Huntington?
Credo sia un conflitto insieme religioso e nazionale, perché sia per noi che per loro le due identità non sono distinte. E la verità è che da quando il sionismo è diventato un movimento politico, alla fine dell'Ottocento, è diventato il tentativo concreto di tornare in Israele, e da quando in reazione si è sviluppata, precisata un'identità palestinese, come specifica rispetto all'identità araba - da allora, onestamente, possiamo trovare in entrambe le parti esempi di coesistenza ma anche di odio e negazione. Entrambe. E comunque, non so quanto sia ancora importante, adesso, aggrovigliarsi sul 1948. Chi fece cosa. La separazione, la partizione era inevitabile. Abbiamo due occhi che sono due occhi per guardare avanti.
Ma se è questione di religione - il vostro contributo allora, come rabbini, dovrebbe essere il dialogo con gli imam di Hamas. In fondo il suo maestro, Joshua Heschel, era il teorico del dialogo: "nessuna religione è un'isola".
In realtà, il nostro "dialogo" sono i giorni e campi in cui un normale israeliano chiacchiera con un normale palestinese raccogliendo olive - non i convegni tra élites. Ma abbiamo naturalmente molti contatti anche con preti cristiani e imam musulmani: e contatti con Hamas, certo: e tutti insistono ogni volta che il problema è laico qui: esclusivamente politico. Personalmente, di istinto ho alcune riserve. Perché anche se so che la popolarità di Hamas è in larga parte contestazione a Fatah, mi è ruvido dimenticare che si tratta di un movimento che non riconosce il mio diritto a esistere - a esistere qui. Ma questo è l'istinto. Perché poi, voglio dire: se è vero che preferirei i palestinesi non sostenessero Hamas - cosa posso fare? Forse esattamente il contrario: continuare a andare nei Territori, e a demolire ogni stereotipo, così, semplicemente stando lì, esempio vivente di un diverso ebraismo. Probabilmente non cambierò la storia, non cambierò questa guerra: ma intanto voglio mostrare al ragazzino palestinese che dice da grande di volersi esplodere in un ristorante che non tutti gli israeliani compaiono in ruspa a demolirti casa - solo perché un giorno possa ricordare che poi è arrivato un signore alto con la kippah, e lo ha stretto forte, e gli ha detto di non avere paura: perché in una democrazia, ammoniva Heschel, pochi sono colpevoli, ma tutti sono responsabili. Il mio lavoro è dare forza e autorevolezza a quanti sognano per i loro figli un futuro migliore. Perché sono loro, a loro volta, gli unici a potere dare forza e autorevolezza a me: perché quale credibilità ho, qui, nella mia visione dell'ebraismo, la fiducia nell'altro, se un palestinese intanto esplode sull'autobus? E questa in fondo è anche la differenza tra un'organizzazione politica e una come la nostra: devi rispettare i diritti umani, e difenderli, sia con gli amici sia con i nemici - che sia possibile o meno, domani, un accordo di pace, che esista o meno, dall'altra parte del Muro, qualcuno con cui parlare. Alla fine - beit, arabo e ebraico hanno la stessa parola per dire casa.
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