Palestina

Pastorale palestinese

L'occupazione, ma anche Fatah e Hamas, e la loro degenerazione. Camminando tra le colline, "in questo nuovo mondo piazzato tra i miei luoghi abituali", Raja Shehadeh racconta la Palestina che scompare
10 agosto 2010
Fonte: da PeaceReporter

Contro chi sostiene di amare una terra che intanto asfissia di cemento, resistenza è anche camminare tra le sue colline, e lungo un sentiero verde e sinuoso, saltare tra un sasso e l'altro per non calpestare l'erba giovane - e alla violenza opporre non altra violenza, ma la delicatezza e cura. Perché ha arsenali non di proiettili e esplosivi, questa guerra, ma mattoni, e urbanisti, non generali per strateghi. E resistenza è dignità, è coraggio è ostinazione. Ma soprattutto diversità.

un palestinese La parola e la bellezza. Fragile e introverso, Raja Shehadeh è un avvocato di quelli come Tom Hanks in Philadelphia: quelli che la passione per il diritto è la passione per la sua capacità, a volte, di diventare giustizia. Quando ha fondato Al Haq, trent'anni fa, abitava in territori che Israele non considerava neppure occupati, ma amministrati; oggi si studiano le norme sulla giurisdizione universale, prima di imbarcare una Tzipi Livni su un volo per l'Europa. Ma nessuna sentenza sarà mai risolutiva se al fondo questo conflitto, come scriveva Edward Said, non è lo scontro tra un torto e una ragione, ma più radicale, una affermazione e una negazione: perché "la Palestina è stata costantemente reinventata. A pellegrini e viaggiatori non è mai importato il paese reale, ma solo la conferma delle proprie convinzioni politiche e religiose. Con conseguenze devastanti per i suoi abitanti originari". Una terra desolata, con gli arabi minimizzati a comparse di copioni altrui, accidentali passanti in attesa di redenzione, modernizzazione - estinzione: e contro la negazione, la sola immunità possibile è per Shehadeh allora tutta la potenza, la luce della parola: in una Palestina ritratta nelle sue infinite cromature, tra colline conosciute e toccate centimetro a centimetro - a ogni fiore, ogni sorgente il proprio nome. E la propria storia: perché una pietra sagomata possa restituire ricordi lontani, e senza soluzione di continuità, e come una pagina di Proust, in simbiosi e osmosi, il paesaggio farsi passaggio, relazione - legame non con la Bibbia, ma con la vita.

La Palestina che scompare. E però non sono racconti di luoghi e incontri, in realtà questi, ma in trent'anni, di erosioni e solitudini. Sette passeggiate tra le colline di un mondo che progressivo si ritrae, a fronte di una Israele che si incunea e avanza, invece, e dilaga: dai tempi in cui si arrivava liberi a Damasco, a Beirut, ai confini del Mandato britannico e alla Cisgiordania, e poi Oslo e solo, ancora, il Muro e questo paese breve, adesso, dei chilometri tra un checkpoint e l'altro, e gli internazionali di scorta per raggiungere gli ulivi in giardino. E così, quando è il momento di iniziare il nipote alle sue colline, di consegnargli la memoria la radice, Shehadeh cerca inutilmente quella pietra sagomata forse di suo nonno: tra l'erba non sono rimasti che frammenti di missili inesplosi. Perché la sarha è tradizione, in Palestina: la via all'equilibrio interiore - vagare senza meta, per ore o settimane. Un equilibrio minato non solo dall'occupazione. In migliaia devono a Shehadeh la libertà o la casa: e nessuna parcella: eppure non è comparso mezzo testimone quando suo padre, colpevole senza processo di riconoscere la necessità del dialogo con Israele, è stato ucciso in pieno giorno. E da una parte, allora, le espropriazioni e gli insediamenti, e la storia di Albina: la storia di confische facilitate dall'assenza di un catasto, nella Palestina ottomana e britannica, per cui tutta la terra non registrata è stata classificata come suolo pubblico, e così tutta la terra non coltivata o abitata continuativamente per dieci anni - anche se quel continuativamente è stato frantumato da un Muro o una guerra. Il duello in tribunale, per una volta, viene vinto. Ma la fondatezza delle rivendicazioni di Albina finisce comunque per spiaggiarsi sull'articolo 5 del decreto 48, secondo cui una confisca effettuata in buona fede rimane valida anche in caso di accertamento, in seguito, della sua irregolarità. Una norma come un'icona, in Palestina: perché è questione non di violazione, qui, ma al contrario, puntuale applicazione della legge - e gli avvocati come personaggi di Cervantes. E quando però si rifugia infine tra le sue colline, Shehadeh si ritrova nel mirino di due miliziani di Fatah che si addestrano nella valle. E sarà inutile tentare una denuncia: perché a nessuno sembra strano che qualcuno spari - tutti si chiedono piuttosto perché mai qualcuno, in Palestina, normalmente, libero cammini.

L'illusione al potere. Il suo contributo a Oslo, nel ruolo di consigliere giuridico, è la consapevolezza dell'insufficienza del diritto. Ma per Arafat la priorità è il riconoscimento dell'OLP, e cioè del proprio dominio: a qualsiasi costo: persino l'esclusione dai negoziati degli insediamenti - e cioè di quanto impedisce quello stato indipendente e sovrano che si dice di accettare. Di Oslo non rimane, e come una lama, che il ritratto di Salma Hasan, di ritorno in trionfo da Tunisi: "avevo letto tanto di questo posto, ma non riuscivo proprio a immaginarlo". Credeva gli insediamenti fossero tende, temporanei accampamenti: scopre, salde, città: eppure, l'assedio del cemento le è invisibile, e come una turista si entusiasma invece per un beduino, e quel suo cammello certo segno di vitalità e resistenza - infine, vittoria. "Avevo documentato per anni il processo di espansione degli insediamenti. Se comprendevo cosa accadeva, non potevo essere sconfitto. Dovevo solo stare al passo, e denunciare Israele al mondo intero. Avevo considerato la mia vita come un poema in fieri organico alla marcia del popolo palestinese verso la liberazione. Non ero uno che soffriva. Ero, insieme agli altri, un interprete e uno sfidante. Ma adesso sapevo che non era che un'illusione. Gli accordi di Oslo avevano seppellito le mie verità". Ed è un tradimento che allenta la sua presa sulle rocce, sulla vita. Il sentiero si restringe, improvviso, ed è un giovane israeliano a sostenerlo dalle vertigini, a non lasciarlo precipitare - un soldato che chiuderà con forza, padrone di sé e del futuro, il capitolo e lo sportello della jeep. Perché è il momento del cedimento: delle volte che al checkpoint, umiliati per ore, di istinto si ringrazia quando infine si passa - è il momento forse di riconoscere la sconfitta, e andare via.

Il passato è una terra straniera. Anche perché è il momento intanto, e radicale, dell'Islam. Cammina con un attivista inglese, Shehadeh, quando viene fermato da due ragazzini di quelli che non hanno visto che l'Intifada, nella vita, e una terra non da abitare, ma controllare e dominare. Di quelli che un occidentale è solo da assassinare - in nome dell'Iraq e dell'Afghanistan, o della Dichiarazione Balfour: e "forse avevamo la stessa opinione degli israeliani, ma il mio mondo non aveva niente in comune con il loro". In una Palestina ormai irriconoscibile, persino Shehadeh deve ricorrere adesso a una mappa, per orientarsi: e scavarsi un percorso crivellato a ogni passo in aree A, B, C - e muri, barriere insediamenti come punti cardinali. Finisce straniero per perdersi, "in questo nuovo mondo piazzato in mezzo ai miei luoghi abituali": ma soprattutto, inevitabile, finisce per imbattersi in un colono. Ed è un ruvido rimbalzarsi addosso reciproca diffidenza: l'ammissione che i palestinesi tendono a ignorare gli israeliani, a riassumerli approssimati in caratteristiche collettive - esattamente come gli israeliani nei confronti dei palestinesi: ma non per questo la distanza si riduce, con il ragazzo che gentile, gli recupera il cappello caduto nel torrente, ma poi rimane sempre lì, armato di pistola e ideologia. Perché non ha altro paese, altro scudo da un mondo ostile agli ebrei, e gli arabi che nel 1948 sono andati via di loro volontà e tutte le guerre, solo guerre di difesa: e eppure è lì, legato a quelle colline, conosciute e toccate centimetro a centimetro - e a ogni fiore, ogni sorgente il proprio nome. E seduti sotto lo stesso albero, allora, e solo pronunciato diverso, "malgrado i miti che formano le sue idee, come posso affermare che il mio amore per questa terra annulli il suo?".

L'ottava sarha. Inquietudini, solo questo. Ma perché non è la vittoria, a fondare la pace, ma il dubbio: quell'incertezza, quella consapevolezza dei propri limiti, della propria relatività in cui si intravedono le ragioni dell'altro - si ospitano, clandestine, le ragioni dell'altro. Per incamminarsi in una nuova sarha. Quella in cui infine si incontrerà qualcuno, per questa colline, arabo o ebreo - e Di dove sei?, gli si chiederà, per sentirsi semplicemente dire: Di qui.

Note: Raja Shehadeh, Il pallido dio delle colline. Sui sentieri della Palestina che scompare, edizioni EDT 2010

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