L'israeliano rampante
Trentasei giusti puntellano il mondo, dice il Talmud. Riconoscono la sofferenza dell'Altro, e sono al suo fianco: è per la speranza che in loro, ancora, ostinata vive che Dio si trattiene dall'incenerire rassegnato ogni cosa. Yonathan Mizrachi è un israeliano come oggi mille altri: il trentasettesimo ebreo. Funzionario della Sovraintendenza ai Beni Archeologici di Gerusalemme, ha il potere di modificare il tracciato del Muro. E però davanti ad Amin, l'amico palestinese la cui casa è minacciata dalle ruspe, sceglie di non rispondere più al telefono - sceglie, e consapevole, di nascondersi.
Una strana vicinanza. L'intera Gerusalemme è area vincolata. Norme rigorose presidiano il suo patrimonio artistico e culturale, e archeologi controllano, metro a metro, ogni minimo cantiere. Qualsiasi scavo restituisce reperti: e qualsiasi scavo, dunque, può essere fermato - qualsiasi progetto modificato. A Yonathan Mizrachi è toccato il cantiere del Muro. Un cantiere le cui ruspe avanzano di cortile in cortile, casa in casa dopo lunghe trattative su ogni curva del suo percorso. Coloni, militari, giornalisti: un cantiere in cui gli unici a non essere coinvolti, e neppure avvisati, sono gli abitanti della casa da demolire - ma d'altra parte: la sola ragione valida per interrompere la costruzione del Muro è la tutela di tombe e marmi e cocci sparsi: la tutela dei morti, invece che dei vivi. Un cantiere in cui poi, in realtà, sono tutti arabi. Gli operai, le guardie, i fornitori: tutti, tranne Mizrachi: tranne quelli che decidono. Un cantiere in cui Nir, imprenditore e ebreo, si guarda intorno non più sicuro, ma più precario: perché i suoi clienti sono palestinesi. E perché è un cantiere, alla fine, in cui ci si riscopre giorno a giorno un solo paese, "in una strana vicinanza in cui da entrambi i lati vive la stessa gente. Le case sono simili, i negozi identici. Persino la merce è la stessa". Anche se è altro, e più profondo, quello che davvero si ha in comune, qui: in questo solo paese in cui "da entrambi i lati, nessuno è soddisfatto di quello che fa. E però ognuno continua a svolgere il proprio compito".
Separazione, rimozione. Molti negano, in Israele. Mizrachi no: sa perfettamente chi è l'oppresso e chi l'oppressore. Sa che per un palestinese, a Gerusalemme, è impossibile ottenere un'autorizzazione per costruire, e che non ha senso allora parlare di edilizia illegale, di case da demolire, "per il semplice motivo che l'edilizia legale non esiste". Sa che spesso, è vero, nei campi profughi come Shuafat il crimine dilaga: ma per l'assenza di ogni altra prospettiva, di ogni più basilare infrastruttura di vita, prima ancora che di economia e sviluppo, "perché lo stato non ha il minimo interesse per le aree non ebraiche". E sa che "un arabo armato non è più pericoloso di un colono armato. L'anarchia: questo è il pericolo vero qui". Sa, soprattutto, che "la paura è contagiosa", come tenta inutilmente di spiegare ad Alex, la sua nuova guardia del corpo: davanti al suo fucile di precisione, anche il proprietario del solito chiosco del caffè ha adesso lo sguardo distante del nemico, in un cortocircuito di diffidenza, e azioni e reazioni. E sa, Mizrachi, più di ogni altra cosa, che non è affatto una "barriera di separazione", quella che osserva avanzare: ma una barriera di cancellazione e rimozione, il cui obiettivo è rendere invisibili i palestinesi, per consentire agli israeliani di ignorare le loro ragioni - ma anche, soprattutto, i propri dubbi. Mizrachi sa - sa, come Pasolini tanti anni fa. Eppure, "è come quando ricevi la chiamata dell'esercito. Tre giorni di depressione: ma poi ti abitui". E alla signora che in velo e inglese impeccabile, allora, si vede improvvisa una ruspa in giardino, non ha niente da dire. "Se ha dei reclami, non sono la persona a cui rivolgersi".
Minima moralia. Sa, Mizrachi. Ma tutto quello che sa fare, (dopo avere concluso, e senza obiezioni, il proprio lavoro), è consegnarci adesso questo libro. E come il barone di Italo Calvino: tutta la sua insofferenza per il mondo intorno, tutta la sua capacità di critica, la sua forza di cambiamento non è alla fine che un rifugiarsi sugli alberi - un credersi, illudersi diverso. Non pensa che a se stesso, in realtà: alla sua integrità, non certo ai palestinesi e alla loro libertà: è solo in cerca di assoluzione - neppure una volta, in questo libro, la parola occupazione. Perché sa, Mizrachi: ma non sa capire il vero ostacolo alla pace: quel suo senso di superiorità dissimulato tra le righe. Gli arabi non sono un vicino alla pari, nelle sue pagine, ma un popolo arretrato e arcaico. Sono gli uomini che seguono i suoi scavi "come una partita di calcio, perché a un tratto hanno qualcosa che li appassioni, nelle loro giornate trascorse senza fare niente", sono lo squarcio pittoresco di una donna che appende il bucato al filo. Sono paesaggio, non vita. Un Altro da guardare, di volta in volta con diffidenza o curiosità, o persino empatia e nostalgia - ma mai un Altro da cui essere guardati. Ed è l'autismo di tanti, nell'Israele di oggi: questo fermarsi a distanza, dietro un Muro di cemento o più insidioso, di inconscio coloniale, istinto del padrone - questa incapacità di confrontarsi con gli altri. Con gli arabi, ma anche con la comunità internazionale. Perché quello che Mizrachi, nell'introduzione, definisce con anestesia "il disturbo che Israele infligge agli abitanti di Gerusalemme Est", è quello che il resto del mondo chiama apartheid.
La banalità del male. "Costruisce un Muro politico senza che la politica lo sfiori minimamente", annota polemico di Shmuel. Ma esattamente come lui racconta un crimine: senza che la responsabilità lo sfiori minimamente. Fosse vissuto negli anni Quaranta, Yonathan Mizrachi sarebbe stato il protagonista di un altro libro. Un libro di Hannah Arendt.
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