Palestina

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Intervista a John Reynolds
8 dicembre 2010
Fonte: www.peacereporter.net - 08 dicembre 2010

Lavora per Al Haq, jeans e adidas e aria inconfondibilmente irlandese. Quando è stata fondata, trent'anni fa, per Israele i Territori Palestinesi non erano neppure occupati, ma amministrati: oggi al ministero degli Affari Esteri si scandagliano le norme sulla giurisdizione universale, prima di imbarcare una Tzipi Livni su un volo per l'Europa.
John Reynolds, neuroni affilati e funamboli, è un avvocato di quelli come Tom Hanks in Philadelphia: uno di quelli che la passione per il diritto è la passione per la sua capacità, a volte, di diventare giustizia. Poteva permettersi una qualsiasi Harvard le Nazioni Unite, uno studio legale con parcelle da migliaia di dollari: è invece uno dei cosiddetti internazionali - uno di quelli che si distrae, improvviso, e guarda incantato il tramonto su Ramallah: perché essere qui dice, "è insieme un obbligo e un privilegio". Un terrorista: uno di quelli che Israele assalta sulle Freedom Flotilla, arresta. Respinge alla frontiera. Travolge con le ruspe, come neppure in piazza Tienanmen.

la bandiera israeliana e la bandiera palestinese Gli Accordi di Oslo sono strutturati come il primo passo verso una pace definitiva: l'attribuzione ai palestinesi di forme di autonomia da allargare e consolidare, progressive, fino alla completa indipendenza. In realtà, Israele ha cementato il proprio controllo sui Territori. Edward Said definì Oslo "la Versailles dei palestinesi".
A Oslo, certo, Israele ha riconosciuto il diritto dei palestinesi all'autodeterminazione, e la prospettiva in futuro di un loro stato indipendente e sovrano. Ma l'Autorità Palestinese ha in realtà funzioni semplicemente amministrative: non è libera per esempio di modificare la legislazione in vigore senza il consenso di Israele. Più che un trasferimento di poteri, Oslo è stata l'introduzione di ulteriori strati di burocrazia, per dissimulare un ruolo essenzialmente simbolico. La West Bank è oggi frazionata in tre aree: solo nell'area A, il 17 percento, l'Autorità Palestinese ha funzioni sia amministrative che di sicurezza. Già nell'area B, il 24 percento della terra e il 70 percento della popolazione, ha funzioni solo amministrative: mentre l'area C, che include gli insediamenti, rimane di giurisdizione israeliana. Il 59 percento della West Bank. Israele ha poi il controllo esclusivo delle frontiere, e quindi del passaggio di beni e persone, e la possibilità di imporre chiusure interne: di isolare cioè le aree palestinesi le une dalle altre - le aree A e B, a differenza della C, non sono contigue, ma frammentate in oltre duecento pezzi. Israele non si è "ritirato" dai Territori, neppure dall'area A: si è "riposizionato" - e ha raddoppiato gli insediamenti. Con la seconda Intifada, poi, ha riaffermato il proprio controllo militare su tutte le aree urbane. Si chiama autonomia: ma l'esempio più significativo è l'acqua. Il consumo israeliano è cinque volte superiore a quello palestinese, che per quantità e qualità è largamente al di sotto dei parametri dell'Organizzazione Mondiale della Sanità: ma soprattutto, Israele dipende per il 71 percento da fonti dei Territori. Ogni cosa ora, in materia di acqua, dalla distribuzione alle infrastrutture alle tariffe, è decisa per consenso da un Joint Water Committee composto da uno stesso numero di israeliani e palestinesi. Una forma di eguaglianza, in apparenza, perché entrambe le parti hanno così potere di veto: in realtà, un ostacolo per i palestinesi, perché sono i palestinesi ad avere interesse a modificare lo status quo. Per dire: Oslo prevede un aumento della quantità di acqua loro destinata - da individuare però senza incidere sulla quantità destinata agli israeliani: e tutte le fonti sono ormai sfruttate al limite. Si chiama cooperazione: l'unica differenza è che adesso tutto avviene con il consenso palestinese. Per la precisione, il consenso dell'OLP di Arafat.

Un'altra apparenza è il ritiro da Gaza. Con il Disengagement Plan, nel 2005, Israele ha deciso di smantellare gli insediamenti. Circa 8mila coloni, il 2 percento del totale: meno di quelli che si sono trasferiti nella West Bank tra l'adozione e l'attuazione del Piano. Israele sostiene che l'occupazione, a Gaza, è finita.
L'obiettivo di Israele, semplicemente, è smarcarsi dal diritto internazionale: dalle responsabilità che l'Occupante ha nei confronti della popolazione occupata. Ma in base all'articolo 42 delle Convenzioni dell'Aja, un territorio è considerato occupato quando è sottoposto all'autorità dell'esercito nemico. Il principio è quello del cosiddetto effective control: non il presidio di ogni centimetro di terra, ma la capacità, in qualsiasi momento, e ovunque, di imporre la propria autorità e volontà. Un'occupazione non dipende dalla presenza di insediamenti - vietata, d'altra parte, dal diritto internazionale: né dalla presenza di strutture militari permanenti. Quello che rileva è la potenziale capacità dell'Occupante di controllare il territorio. E affermando che Israele "continuerà ad avere autorità esclusiva sulle frontiere di terra e sullo spazio aereo, e a svolgere attività di sicurezza lungo le coste", il Disengagement Plan è in proposito inequivoco. L'Operazione Piombo Fuso ha eliminato qualsiasi dubbio: ma già nei primi mesi dall'attuazione del Piano, si sono registrate ripetute incursioni dell'aviazione, con decine di vittime. Con l'arrivo al governo di Hamas, poi, sono cominciate incursioni militari su vasta scala: l'Operazione Summer Rains, oscurata dalla contemporanea guerra in Libano, ha falciato quasi 400 palestinesi. La Striscia di Gaza, per il diritto internazionale, è ancora territorio occupato, sotto il controllo effettivo di Israele - solo, un controllo esercitato adesso dall'esterno invece che dall'interno: ma i suoi abitanti rimangono protected persons ai sensi della Quarta Convenzione di Ginevra. L'articolo 55 obbliga Israele a garantire loro cibo, acqua, medicine a sufficienza: e invece Israele ha isolato e assediato Gaza con l'obiettivo, esplicito, di indurre i palestinesi a ritirare il proprio sostegno a Hamas. Una forma di punizione collettiva proibita dall'articolo 33 della Quarta Convenzione di Ginevra.

Un'occupazione, appunto, non implica solo diritti e poteri: ma anche, soprattutto, obblighi e responsabilità.
Il cosiddetto "diritto dell'Aja", dato dalle convenzioni del 1907, disciplina i mezzi e metodi della condotta delle ostilità, mentre il "diritto di Ginevra", quattro convenzioni del 1949 e due protocolli del 1977, si concentra sulla protezione delle vittime della guerra - e la Quarta Convenzione, in particolare, è considerata una specie di bill of rights della popolazione occupata. Indipendentemente poi da un eventuale contesto di guerra, ogni stato è tenuto a rispettare e garantire una serie di diritti, non solo ai suoi cittadini ma a chiunque rientri nella sua giurisdizione. Sono i diritti sanciti dalla Dichiarazione Universale del 1948, riformulati nel 1966 in norme vincolanti attraverso il Patto sui Diritti Civili e Politici e il Patto sui Diritti Economici, Sociali e Culturali. Il diritto alla vita, di cui nessuno deve essere arbitrariamente privato, la libertà di movimento, le cui limitazioni per esigenze di sicurezza devono avere carattere eccezionale, e mai essere attuate in modo discriminatorio e sproporzionato: e poi il diritto alla salute, all'istruzione. Al lavoro. E invece in Israele non è neppure questione di violazioni di questi diritti: ma dell'istituzionalizzazione, a volte persino legalizzazione delle violazioni. La tortura, per esempio: è un caso emblematico. Non è che la tortura, "l'esercizio di una moderata pressione fisica" durante gli interrogatori, per dirla con lo Shin Bet, sia impunita: è consentita. La Corte Suprema ha adesso aggiunto l'aggettivo "ragionevole": ma ha specificato che è comunque esente da responsabilità penale chi agisce in "circostanze appropriate" - le cosiddette ticking bombs. Chiunque sia ritenuto a conoscenza di informazioni cruciali per impedire un attentato, non necessariamente imminente, può essere legittimamente torturato. Eppure la Convenzione contro la Tortura è chiara: non può essere invocata alcuna giustificazione: nessuna eccezione: la proibizione è assoluta. Si stima che il 95 percento dei detenuti palestinesi sia stato torturato. Fino ad oggi non si è avuto neppure un processo.

In base alle Convenzioni dell'Aja, l'Occupante è tenuto a ripristinare e garantire l'ordine pubblico e la vita civile, cercando però di non modificare, "unless absolutely prevented", la legislazione esistente. Il primo degli obblighi, allora, è ricordarsi che un'occupazione, per il diritto internazionale, è un regime temporaneo. Sei mesi, un anno: due. Non sarebbe possibile, altrimenti, evitare di modificare la legislazione locale.
Il diritto internazionale non indica un limite temporale esplicito, un limite massimo. Ma l'articolo 43 arriva, è evidente, dall'idea di una coabitazione temporanea, una interazione minima tra la popolazione occupata e l'esercito: l'Occupante non avrebbe avuto interesse a disciplinare le comuni transazioni economiche e sociali, la vita quotidiana - e il tema non è stato, quindi, ulteriormente regolamentato. Ma proprio attraverso l'articolo 43, invece, Israele ha giustificato interventi invasivi, e dagli effetti permanenti, nell'assetto dei Territori. In nome dello sviluppo per esempio, ha istituito un mercato comune che si è tradotto in forme di subordinazione strutturale dell'economia palestinese. Quando a Hebron il potere di produrre e distribuire elettricità fu attribuito alla Società Israeliana per l'Energia Elettrica, l'analoga Società Palestinese, che operava nell'area con una concessione rilasciata dall'amministrazione giordana, ricorse in tribunale appellandosi al divieto di modificare la legislazione in vigore. Ma la Corte rispose che l'ordinanza era legittima, perché aveva l'obiettivo di migliorare il benessere della popolazione. In realtà gli abitanti di Hebron, è vero, hanno avuto l'elettricità: ma sono anche diventati dipendenti da Israele in un settore cruciale. Inevitabilmente, più un'occupazione si protrae più somiglia a un sistema coloniale, attraverso una annessione di tipo economico e giuridico invece che territoriale - dovesse anche Israele rispettare alla lettera la Quarta Convenzione di Ginevra. Dopo quarantatrè anni, un'occupazione è illegale in sé: è una violazione di quel pilastro dell'attuale ordinamento internazionale che è il diritto all'autodeterminazione dei popoli, considerato il diritto preliminare al godimento di tutti gli altri. Non è questione, ancora, di violazioni di singoli, specifici diritti: è questione di un sistema complessivo di dominazione. E discriminazione.

E in effetti secondo John Dugard, relatore delle Nazioni Unite sui diritti umani nei Territori Palestinesi, "alcuni elementi dell'occupazione probabilmente costituiscono forme di colonialismo e apartheid". Il Rapporto Tilley, a cui tu hai contribuito, ha raccolto quel dubbio per argomentarlo in convinzione.
La Convenzione sulla Soppressione e Punizione del Crimine di Apartheid parla di "atti disumani compiuti nel contesto di un regime istituzionalizzato di oppressione sistematica" di un gruppo su di un altro gruppo. L'importante è "l'intento di mantenere il dominio": non bisogna cioè solo verificare che simili atti siano compiuti, ma che siano compiuti su base discriminatoria. E nell'occupazione israeliana si ritrovano molti di questi "atti disumani" elencati dalla Convenzione. A partire dalla negazione del diritto alla vita e alla libertà. Esecuzioni extragiudiziali, tortura, detenzione amministrativa, assenza dei più basilari requisiti del giusto processo: tutto questo si configura come discriminazione razziale, non mera violazione di diritti umani, in virtù della coesistenza di due distinti sistemi giudiziari: l'applicazione della legge, infatti, avviene su base personale, non territoriale - per cui, per uno stesso omicidio, un palestinese è punito fino all'ergastolo, e da un tribunale militare, fino a vent'anni invece un israeliano, giudicato da un tribunale civile. Secondo: misure miranti a impedire la partecipazione alla vita politica, economica, sociale e culturale del paese. Qui attraverso, essenzialmente, restrizioni alla libertà di movimento, fisiche e burocratiche - e imposte esclusivamente ai palestinesi. Non si ha infatti solo l'ostacolo visibile di insediamenti, checkpoint muri, ma anche un insieme variabile e confuso, e più insidioso, di oltre duemila ordinanze militari - scritte in ebraico e spesso neppure rese pubbliche, e che disciplinano ogni cosa: dalle modalità di arresto alle verdure coltivabili. Dalla salute al lavoro all'istruzione, quella che viene minata, in realtà, come ha sottolineato la Banca Mondiale, è la prevedibilità e organizzabilità delle relazioni economiche e sociali. E ancora, la divisione della popolazione lungo linee razziali: i Territori Occupati sono oggi ripartiti in aree riservate agli israeliani e aree riservate ai palestinesi. La somiglianza con il sistema sudafricano è innegabile.

Dicevi prima dell'elettricità a Hebron. Israele cita sempre la possibilità, per i palestinesi, di appellarsi alla Corte Suprema: è la prova, sostiene, della sua correttezza - l'idea dell'occupazione illuminata.
Sono famose le parole con cui Rabin spiegò il consenso, a Oslo, all'istituzione di un'Autorità Palestinese: "spero avremo ora un partner", dichiarò, "libero di occuparsi dei Territori senza l'intralcio di tribunali e altre anime sensibili". La Corte Suprema, in realtà, ha interferito raramente nelle strategie politiche e militari di Israele: al contrario, il suo ruolo è stato essenzialmente riverniciarle di argomentazioni giuridiche: giustificarle. In particolare in materia di insediamenti. Il diritto internazionale in proposito è inequivoco: l'articolo 49 della Quarta Convenzione di Ginevra vieta all'Occupante il trasferimento di propria popolazione nei territori occupati. Più in generale, coerentemente all'idea della provvisorietà di un'occupazione, la proprietà privata può essere solo confiscata, non espropriata: e esclusivamente per necessità militari: mentre l'uso della proprietà pubblica è soggetto ai vincoli dell'usufrutto - all'Occupante è proibito causare cambiamenti irreversibili nella sua natura: sbancare colline e trasformarle in città. Ma la Corte applica il diritto israeliano invece che il diritto internazionale: si limita a esaminare un'ordinanza e valutare la regolarità della procedura di espropriazione. E soprattutto, qualifica poi le controversie relative ai Territori come questioni politiche, non giuridiche, sostenendo che un suo intervento sarebbe un'indebita interferenza in competenze altrui. La Corte condanna, cioè, eventuali violazioni del diritto individuale di proprietà: decide se una demolizione è stata effettuata con sufficiente preavviso: ma si astiene dal pronunciarsi sulla legittimità in sé di espropriare terra, abbattere case per costruire insediamenti. E né si esprime su tutte quelle eccezioni alla legge basate su nozioni vaghe come, tipicamente, le "esigenze di sicurezza", i "fini pubblici", la cui definizione è affidata alle autorità militari e amministrative e dunque ritenuta insindacabile. Quando i beduini del Sinai furono espropriati per la realizzazione di una zona cuscinetto con la Striscia di Gaza che si rivelò poi un insediamento, la Corte rispose che avere coloni, e cioè ebrei, invece che arabi è una misura di sicurezza.

La giustificazione giuridica più frequente, qui, è il diritto all'autodifesa. L'Operazione Piombo Fuso per esempio: secondo Israele, è stata una legittima reazione ai razzi provenienti dalla Striscia di Gaza.
Il pilastro della Carta delle Nazioni Unite è l'articolo 2(4), che obbliga gli stati membri ad astenersi "dalla minaccia o dall'uso della forza, sia contro l'integrità territoriale o l'indipendenza politica di uno stato, sia in qualunque altro modo incompatibile con i fini delle Nazioni Unite". Le eccezioni sono due: l'autorizzazione del Consiglio di Sicurezza, come contro l'Iraq, quando invase il Kuwait, e appunto, il diritto all'autodifesa "in caso di attacco armato". Ma l'articolo 51 è pensato in riferimento all'inizio di una guerra: uno stato, o anche un gruppo terroristico, che attacca, e uno stato che si difende. Una volta che un conflitto è cominciato - e un'occupazione è una situazione di belligeranza - il riferimento non è più lo jus ad bellum, e cioè le norme che disciplinano il ricorso alla forza, ma lo jus in bello: le norme che disciplinano la condotta delle ostilità. E un'altra ragione che mina l'argomentazione di Israele è legata alla nozione, controversa, di attacco armato: la soglia di violenza, cioè, che rende lecito un ricorso alla forza altrimenti illecito. La regola consolidata dalla giurisprudenza è quella della equivalent seriousness of force: la violenza a cui si intende rispondere deve essere di intensità paragonabile alla forza che un esercito userebbe per intraprendere una guerra - non esattamente il ritratto dei razzi artigianali di Hamas. Naturalmente, l'Operazione Piombo Fuso è stata largamente illegittima anche alla luce dello jus in bello, i cui due pilastri sono il principio di distinzione e il principio di proporzionalità. Mirare cioè esclusivamente a obiettivi militari: e quando è inevitabile colpire, collateralmente, obiettivi civili, persone o infrastrutture, il danno non deve essere eccessivo rispetto ai risultati militari che l'azione consente di raggiungere. Contrariamente a tutto questo, il Rapporto Goldstone ha descritto la guerra di Gaza come "un attacco volutamente sproporzionato, progettato per punire e terrorizzare la popolazione, e diminuire drasticamente la sua capacità di provvedere a se stessa".

Anche il Muro è presentato come una forma di autodifesa. Questa volta, rispetto agli attentati suicidi. Ma il suo tracciato, in realtà, non segue la Linea Verde: si incunea nella West Bank. E sono proprio i generali a contestare che proteggere il confine, così, diventa impossibile - smentendo la giustificazione della sicurezza.
Il percorso del Muro rivela più di ogni parola i suoi obiettivi reali. Il primo, senza dubbio, è inglobare in Israele quanti più coloni possibile, circa l'80 percento del totale: inclusa, soprattutto, l'area di Gerusalemme, ormai isolata dalla West Bank da una morsa di insediamenti. Il Muro implica di fatto l'annessione del 16.6 percento della West Bank, e delle sue principali riserve idriche: una annessione, come dicevo, assolutamente vietata dal diritto internazionale. Ma un secondo obiettivo è la frantumazione della continuità fisica di ogni immaginabile stato palestinese, per impedirne la sostenibilità economica, e in definitiva, l'esistenza - una violazione, nel suo complesso, del diritto dei popoli all'autodeterminazione. La libertà di movimento è adesso ostaggio del sistema dei checkpoint, il labirinto dei permessi: violazione che genera, a domino, la violazione di moltissimi altri diritti. Si calcola che il Muro incida sulla vita quotidiana del 40 percento della popolazione: complicando, a volte bloccando, l'accesso a scuole, università ospedali. Terre coltivate, luoghi di lavoro. Un Muro è per definizione un ostacolo all'organizzazione sociale: Israele dunque non solo non si cura delle necessità basilari dei palestinesi, come è invece suo obbligo di Occupante, ma impedisce ai palestinesi di soddisfarle, per quanto possibile, autonomamente. La Corte Internazionale di Giustizia ha affermato senza mezzi termini che Israele è tenuto non solo a fermare i lavori e demolire quanto già costruito, ma anche risarcire i danni causati.

Davanti a tutto questo, la comunità internazionale ha il potere di intervenire. E a volte anche l'obbligo.
Il diritto internazionale si occupa essenzialmente di relazioni tra stati. E normalmente, lo stato che subisce la violazione è il solo legittimato a reagire. A volte però la gravità di quanto accade giustifica un'eccezione: il genocidio, l'apartheid: siamo nell'ambito del cosiddetto jus cogens: norme la cui violazione genera responsabilità per tutti gli stati, in quanto è l'intera comunità internazionale a considerarsi lesa nei suoi valori fondamentali. L'obbligo, allora, è duplice. Ogni stato è tenuto infatti a cooperare perché la violazioni abbiano fine, per esempio mediante l'adozione di sanzioni, come contro il Sudafrica: ma anche ad astenersi dal fornire assistenza e sostegno - pensiamo alle armi. Oggi il diritto internazionale, però, prevede anche delle forme di responsabilità individuale, non solo statuale. La Convenzione contro la Tortura, per esempio, impone agli stati firmatari di indagare i casi sospetti: e in caso di inerzia, tutti gli altri stati hanno non solo la possibilità, ma l'obbligo di processare o estradare gli accusati che si trovino nel loro territorio. Un obbligo analogo, aut dedere aut iudicare, è previsto dalle Convenzioni di Ginevra nei confronti di chi pianifica, ordina, esegue determinati crimini, le cosiddette grave breaches, infrazioni gravi: come l'assassinio o la distruzione di beni in violazione del diritto di guerra. Un qualsiasi tribunale è autorizzato a intervenire: è il meccanismo della giurisdizione universale, valido per tutti i cosiddetti crimini internazionali - tra cui quei crimini di guerra e crimini contro l'umanità che secondo il Rapporto Goldstone Israele ha compiuto durante l'Operazione Piombo Fuso. Il ricorso a tribunali di stati terzi è importante per via della particolare natura di questi crimini: non crimini isolati, generalmente, ma pratiche sistematiche a cui partecipano i vertici politici e militari di uno stato. Difficile dunque che siano i tribunali interni a garantire giustizia. Ovviamente gli stati preferiscono non essere coinvolti: temono, pensiamo alla Gran Bretagna e al suo impegno in Iraq, di finire poi loro nel mirino dei giudici. Fino ad oggi, fosse un diritto o un obbligo, nessuno ha agito contro Israele.

Per crimini di guerra e crimini contro l'umanità, oggi esiste anche la Corte Penale Internazionale. Israele non ha ratificato il suo Statuto: e dal momento che la Corte ha competenza per crimini commessi nel territorio di uno stato parte, oppure da un cittadino di uno stato parte, è stata l'Autorità Palestinese a chiedere un suo intervento. Israele si oppone. L'Autorità Palestinese, dice, non è uno stato: non può aderire allo Statuto.
In realtà l'iniziativa palestinese è perfettamente coerente con la ratio dell'istituzione di una Corte Penale Internazionale, il suo obiettivo: assicurare giustizia in modo complementare rispetto ai tribunali nazionali, quando questi non hanno la capacità o la volontà di agire - la volontà politica: come in Israele. D'altra parte, si ha il precedente del Darfur: è stato il Consiglio di Sicurezza, in questo caso, a rivolgersi alla Corte, come è in suo potere a fronte di situazioni che ritiene rappresentare una minaccia alla pace - e il Darfur non è uno stato: è una regione del Sudan. Sarebbe una interpretazione formalistica dello Statuto, contraria a quel fine, dichiarato nel Preambolo, di "non lasciare impuniti crimini che toccano la comunità internazionale nel suo complesso", escludere una certa zona dalla giurisdizione della Corte solo perché non costituisce uno stato ai sensi del diritto internazionale. La cosa che rileva, infatti, non è che l'Autorità Palestinese abbia il controllo effettivo di un certo territorio e di una certa popolazione in modo indipendente e sovrano: ma che abbia la capacità di istruire processi per i crimini di cui si occupa la Corte, in modo da poterle legittimamente trasferire questa sua competenza. Che sia o non sia uno stato, l'Autorità Palestinese ha non solo la capacità, ma il dovere di perseguire i crimini internazionali: perché sono crimini per cui vige la giurisdizione universale. Si dice che il coinvolgimento della Corte Penale Internazionale sarebbe un improprio condizionamento del processo di pace. Ma gli israeliani agiscono da quarant'anni nella certezza dell'impunità: la prospettiva di un tribunale, di un carcere non potrebbe che avere un impatto positivo, restrittivo, sulla condotta della guerra se non sulla sua soluzione. La richiesta palestinese è in questi giorni al vaglio della Corte. Generalmente, i giuristi imputano agli stati, a costrizioni di tipo politico, la difficoltà di convertire le definizioni in incriminazioni: per una volta, l'opportunità di smentirsi è nelle loro stesse mani.

Abbiamo trent'anni. E alla fine, siamo armati solo della nostra capacità di raccontare al mondo quanto accade. Eppure Israele ci ritiene così pericolosi da assassinarci su una Freedom Flotilla.
Il blocco navale è uno strumento consentito dal diritto internazionale: e dunque è consentito anche l'abbordaggio di navi che tentano di forzarlo. Per essere legittimo, però, un blocco deve avere l'obiettivo di privare il nemico di rifornimenti necessari alla condotta delle ostilità: ed è Israele stesso, invece, a precisare che il suo obiettivo è politico, non militare: indurre gli abitanti di Gaza a non sostenere Hamas - una forma di coercizione attraverso l'inflizione di sofferenza vietata dall'articolo 31 della Quarta Convenzione di Ginevra. Israele non solo dunque non aveva il diritto di respingere le navi, perché il blocco è illegale: ma aveva l'obbligo di facilitare il loro attracco a Gaza: l'articolo 59 impone all'Occupante di non ostacolare interventi umanitari. La verità è che Israele è consapevole dell'importanza del ruolo degli internazionali: degli effetti della loro presenza in Palestina - un'opposizione all'occupazione ma anche alla passività, e complicità, della comunità internazionale. Esserci, semplicemente, fisicamente, è già un'arma: più sono le telecamere, più i testimoni, più i soldati si trattengono dall'usare la forza in modo sproporzionato o arbitrario. Anche se è complesso, e a volte ambiguo, il ruolo invece di altri internazionali: quelli impegnati nella cooperazione allo sviluppo. Un lavoro indispensabile, oggi che larga parte dei palestinesi vive di aiuti umanitari: ma impermeabilizzato al contesto politico. Il dogma è concentrarsi sui progetti concreti: le soluzioni tecniche: con il risultato che moltissimo di quanto si costruisce finisce periodicamente distrutto: case, scuole - l'aeroporto di Gaza, pagato dall'Unione Europea: ma invece di chiamare Israele a rispondere dei danni, si ricostruisce tutto. Il dilemma è che nel breve periodo è vero, è necessario portare acqua, cibo: ma la risoluzione del conflitto non è più vicina, è più lontana se si consente a Israele di continuare. Se si finanzia l'occupazione.

Tu però sei un giurista. Appartieni a un terzo tipo di attivisti. Secondo Antonio Cassese, "chi si occupa di diritto internazionale ha spesso la sensazione di dipingere nature morte sulle pareti di una nave che affonda".
Ma una volta che hai visto, semplicemente, non puoi più non vedere. Una volta che hai visto, come dice Arundhati Roy, rimanere in silenzio diventa un atto politico quanto parlare. Agire. In entrambi i casi, ormai sei responsabile.

Note: Questa intervista è tratta da Francesca Borri, "Qualcuno con cui parlare. Israeliani e palestinesi", ManifestoLibri 2010

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