La difficile strada verso un unico stato
Questo libro intende dare voce a tutti coloro che non si riconoscono nello scontro fra opposti fondamentalismi. Il riferimento immediato è al rapporto fra palestinesi e israeliani che da decenni insanguina il Medio Oriente. Ma la voce di Francesca Borri non è in alcun modo un’esortazione alla neutralità, all’estraneità dal conflitto né, tanto meno, fa appello a una sorta di pacifismo moralistico.
Chi conosce l’autrice di questo libro sa che pochi come lei si sono battuti in questi anni, in Italia e in Medio Oriente, a favore della causa palestinese, vivendo spesso in Palestina, impegnata in attività a volte molto rischiose. Capita a volte che Francesca Borri usi l’espressione 'noi palestinesi' pur essendo di puro sangue italiano.
E allora che senso ha questo libro singolare, vivace e stimolante, composto di una serie di dialoghi di struttura molto diversa l’uno dall’altro, nei quali l’umanità israelo-palestinese esprime le sofferenze, le angosce, le speranze di due popoli straziati dall’odio, dalla violenza, dallo scorrimento del sangue? Quale contributo offrono complessivamente i dialoghi che coinvolgono personaggi di alto livello come, fra i molti altri, Marwan Barghouti, Michel Warschawski, Mustafa Barghouthi, Yehuda Shaul, Mariam Saleh?
In una delle interviste più toccanti Francesca Borri mette a confronto Nurit Peled e Bassam Aramin. Nurit è un’insegnante israeliana che ha perso una figlia di tredici anni, uccisa da un attacco suicida palestinese. Bassam è un combattente palestinese la cui figlia di nove anni è stata uccisa all’uscita da scuola da un proiettile sparatole alla nuca a quattro metri di distanza da una pattuglia della polizia di frontiera. Nurit e Bassam sono due vecchi amici che si rispettano, si aiutano a vicenda, si parlano cordialmente, mescolando d’istinto l’arabo e l’ebraico. Sono nati a pochi chilometri di distanza in due mondi lontani e nemici.
Il titolo dell’intervista è lo stesso del libro: “Qualcuno con cui parlare”. Il senso è chiaro: condannare l’Olocausto ma anche la continua strage di palestinesi da parte dei sionisti israeliani, difendere l’integrità degli ebrei ma riconoscere che il popolo palestinese non è libero ma oppresso e violentato. Occorre dimenticare, perdonare, non vendicarsi, pensare ad un futuro di pace che sia comune ai due popoli e restituisca identità e dignità a quello palestinese.
Il dialogo fra Nurit e Bassam esprime il senso profondo di questo libro e offre la chiave di lettura dell’intero volume, ricchissimo di riferimenti preziosi ed emozionanti, anche se, talora, di lettura un po’ faticosa. La tesi centrale è l’assunzione che la tragedia palestinese potrà risolversi soltanto se verrà affrontata come questione mediterranea. Non è un caso che in questo libro si citi spesso Martin Buber e si faccia riferimento implicito alle tesi di Edward Said.
Come è noto, Buber era considerato il padre spirituale del nuovo stato ebraico, nonostante fosse un critico di molti aspetti dell’ideologia sionista. Egli sosteneva che il ritorno del popolo ebraico nella ‘terra promessa’ non doveva portare alla costruzione di uno stato etnico-religioso riservato ai soli ebrei. Per Buber, e per un ristretto ma importante gruppo di pensatori ebrei, fra i quali Hannah Arendt e Judah Magnes, la patria ebraica doveva essere uno spazio aperto anche al popolo palestinese. La convivenza pacifica fra ebrei e arabi non si sarebbe mai ottenuta creando uno stato confessionale che costringesse i nativi ad abbandonare le loro terre o li includesse in una posizione subordinata e neppure attraverso la formazione di due stati, uno ebraico e uno islamico. Per raggiungere questa meta occorreva che gli ebrei emigrati in terra palestinese si sentissero semiti fra i semiti e non i rappresentanti di una cultura diversa e di una civiltà superiore, secondo i moduli del colonialismo europeo. E questo non poteva che significare, anzitutto, come auspicava Martin Buber, l’abbandono del carattere etnocratico dello stato israeliano, la sua piena secolarizzazione e democratizzazione.
Dal libro di Francesca Borri emerge l’idea che oggi non è più possibile la formazione di uno stato palestinese. Auspicarlo è patetica illusione, nonostante il suo grande valore simbolico, le giuste aspettative della maggioranza dei palestinesi e il suo pieno fondamento nel diritto internazionale. Gli effetti della discriminazione etnica sono ormai irreversibili: mai uno stato palestinese degno del nome sorgerà sulle rovine di Gaza e della Cisgiordania. La sola prospettiva, molto problematica ma senza alternative, è quella di uno stato israelo-palestinese ‘post-sionista’, laico ed egualitario, che riconosca eguali diritti a tutti i suoi cittadini. Per quanto la prospettiva non possa che essere di lungo periodo, forse sarebbe saggio pensare già oggi ad un movimento politico pluralista entro il quale tutte le comunità palestinesi, compresi gli ‘arabi israeliani' e i profughi in diaspora nei paesi arabi, godano del giusto riconoscimento.
Questa prospettiva è sostenuta, esplicitamente o implicitamente, dai molti interlocutori del libro di Francesca Borri. E la serietà e la concretezza di questa progetto 'non fondamentalista' era già stata confermata da Edward Said, forse il più lucido pensatore palestinese del secolo scorso. Tra il 1997 e il 2000 aveva scritto:
L’esperienza degli ebrei e quella dei palestinesi sono storicamente, anzi organicamente, connesse: separarle equivale a falsificare ciò che ciascuna di esse ha di autentico. Per quanto difficile possa essere, dobbiamo pensare assieme alle nostre storie, se vogliamo che ci sia un futuro comune. E tale futuro deve includere, gli uni accanto agli altri, arabi ed ebrei, senza esclusioni, senza schemi basati sul diniego e mirati a lasciar fuori l’una o l’altra parte, teoricamente o politicamente. La vera sfida è questa […] L’autodeterminazione palestinese in uno Stato a sé stante è impraticabile, così come è impraticabile il principio di una separazione tra la popolazione araba e la popolazione israeliana, demograficamente miste e interconnesse come sono, sia in Israele che nei territori occupati.
Per ritrovare pace e sicurezza il popolo israeliano dovrebbe in qualche modo accettare di diventare un popolo mediterraneo, cessando di essere una propaggine delle potenze atlantiche nel cuore della Mezzaluna fertile. Solo allora gli ebrei che oggi vivono in Israele potrebbero chiedere con successo ai palestinesi e al mondo arabo di essere accettati e riconosciuti. Solo allora i muri potranno cadere e liberare entrambi i popoli dall’odio e dalla paura. Prigionieri di un destino infelice sono i palestinesi, ma lo sono anche gli israeliani.
Di questa duplice realtà Francesca Borri è pienamente consapevole e le molte voci che si levano dal suo libro offrono la prova del buon fondamento delle sue aspettative 'anti-fondamentaliste'.
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